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Dal
catalogo della mostra alla Galleria Diarcon
(…)
I colori diventano intrinsecamente emblematici di una situazione
emozionale, con un processo che mi ricorda certi paesaggi nei quali
l’espressionista tedesco Nolde, interpretava la “natura”
dell’Indonesia e di altri paesi orientali da lui visitati
con nuove emozioni. Questo tessuto cromatico mi sembra nuovissimo
nella pittura di oggi e mi sorprende come se mi trovassi davanti
a un prodotto di antiche civiltà eterodosse, trasferendoci
dal paesaggio come è dipinto nei nostri tempi in un mondo
dove i sentimenti non hanno più nulla di comune con i chilometri
di pittura post-espressionista ai quali siamo abituati. Paesaggio,
dicevo, perché anche la”natura morta” , la “composizione”,
tra le quali quella così emblematica del primordialismo del
sentimento, sono da guardarsi come “paesaggi”, come
avventure della fantasia all’avanscoperta di un mondo che
si crede di aver ben conosciuto fin dall’infanzia, ma che
ci serba sempre nuove sorprese e perciò diventa,oltre ché
il mondo del godimento naturalistico, l’universo della immaginazione,
in un ricrearsi perpetuo. Non basta il constatarlo. Si pone il problema
di cultura del perché e del come Togo sia giunto a queste
nuove forme. Egli è il solo a subire questo processo di evasione
dai canoni del nostro tempo. Non c’è dubbio che un
gruppo ancora ristretto di pittori sente una saturazione dei modi
europei di fare arte, avverte il richiamo che in questi anni hanno
esercitato paesi di lontane civiltà, per esempio quelle sudamericane
o asiatiche, nel rinnovamento dei dati emozionali che sembravano
spenti o nel troppo uso dei termini post-ottocenteschi o in quelle
formule con cui si è avvicendato lo sviluppo stilistico anche
nel nostro paese. Questi artisti vogliono sentire con una sensibilità
nuova, non vogliono soltanto far meglio ciò che altri hanno
già fatto. E cercano salvezza in una riedizione primordiale
del messaggio grafico e pittorico. Esattamente come nei primi del
secolo gli artisti cercano in una stilizzazione afro-oceanica il
principio di ristrutturazione della forma. Ora è la volta
del colore, un colore nuovo, esplosivo, tutto teso sul filo portante
della fantasia che riprende in mano la vita. Come languenti strutture
politiche possono trovare soluzione alla crisi con il processo dell’immaginazione,
così nella pittura l’accidioso conformismo può
riscattarsi in un processo fantastico, inedito ed emozionante.
Raffaele
De Grada, 1972
(…)
That means that the colours become intrinsically emblematic of an
emotional situation, through a process which reminds me of certain
landscapes in which the German Expressionist Emile Nolde interpreted
the nature of Indonesia and other Oriental countries he had visited
with new emotions. This chromatic texture seems to me very new in
today’s painting and it surprises me as I find myself in front
of a product of ancient heterodox civilizations, moving from landscape
the way it is painted today into the kilometres of post-Impressionist
paintings we are used to. I was saying landscape because the “still
life”, the “composition”, among which that one
so emblematic of the primordialism of feeling are also to be regarded
as “landscapes”, as adventures of fantasy to the discovery
of a world that one believes to have known since childhood, but
which always reserves new surprises for us and therefore becomes,
besides the world of naturalistic enjoyment, the universe of imagination,
in a perpetual re-creating of itself.
To ascertain this is not enough. The cultural problem remains of
how and why Togo has arrived at these new forms. He is the only
one to undergo this process of evasion from the canons of our time.
There is no doubt that a still small number of painters feels a
saturation of the European ways of making art, feels the call exerted
in these years by faraway civilizations, for example the South American
or Asiatic ones, in the renewal of emotional data that seemed to
have been for the most part extinguished either in the excessive
usage of post 1900 terms or in those formulas which have alternated
themselves in the stylistic development in our country as well.
These artist want to feel with a new sensitiveness, they don’t
want to just do better what somebody else has already done. And
they seek salvation in a primordial re-edition of the painterly
and graphic message. Exactly in the same way with which the artist
at the beginning of this century sought the principle of restructuralization
of form in an Afro-Oceanic stylization Now it is colour’s
turn, a new explosive colour, all stretched on the carrying thread
of fantasy that takes life back into its hands. As languishing political
structures can find a solution to the crisis through the process
of imagination, in the same way, in painting, slothful conformism
can redeem itself through a fantastic new and exciting process.
Raffaele De Grada |
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Testimonianza
di Mario De Micheli
Ci
sono pittori che procedono per sofismi, per allusioni, per complicate
analogie. Togo non appartiene a questa categoria. La sua dote fondamentale
è quella di essere un artista che lavora in “presa
diretta”. Per lui un albero è un albero, il mare è
il mare, una siepe è una siepe.
I suoi rapporti col mondo oggettivo sono semplici, immediati, lampanti.
Non ha quindi bisogno di circonlocuzioni per esprimere ciò
che la realtà gli suscita dentro il petto. Le sue immagini
sono di prima evidenza e in esse circola vivamente la sua energia:
una energia che scatta e agisce per l’impulso che gli danno
le “cose” che tocca e che vede, le “cose che non
rimandano a significati metafisici, ma solo a se stesse, alla propria
intrinseca verità e presenza.
Diciamo allora che Togo è un pittore realista, sulla linea
che muove da Guttuso a Migneco, due artisti come lui siciliani e
come lui attaccati allo splendore e all’asprezza dell’isola(…)
Il sentimento della natura che pervade le immagini di Togo è
un sentimento panico, dove la luce è protagonista in prima
persona: una luce che arde e brucia stoppie e cortecce, che abbaglia
le pietre, che in certe ore del giorno si fa candente.
Togo in questa luce trova la sua spinta vitale, trova il contatto
profondo con la natura, ed è appunto da questo profondo contatto
che scaturiscono le sue immagini.
Questa è la ragione per cui le conclusioni figurative a cui
giunge di volta in volta sono sempre così cariche d’impulsi
così decise nella loro enunciazione(…)
Dalla
presentazione per la cartella di litografie edita da Teodorani,
Milano, 1970
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Testimonianza
di Aligi Sassu
La
validità di questi disegni e dipinti sta proprio sta proprio
in questa necessità di fare poesia, di vedere al di là
del motivo quel senso fluido e completo del colore che ci dà
la natura: l’accostarsi ad un corpo umano, ad una barca ad
un albero,con un intatto e conquistato, sognante abbandono, senza
mai perdere il contatto con la realtà, quella realtà
così pregnante di rinnovate emozioni, di simboli, di immagini,
che la pittura vera sola sa rendere: quella stessa in cui Togo ci
immerge con un tocco lieve ma fermo e preciso: quei lembi di cielo,
quei tetti di paese. Mito oramai, nella memoria, dell’isola
lontana, scandito nel colore timbrato.
Da questi dipinti, frutto di un lavoro serio di anni, mi pare si
possa avere conferma non solo delle qualità dell’artista,
ma anche dell’inizio di un periodo che potrà sempre
più portarlo a chiarire il suo messaggio che, nell’atto
stesso in cui si esprime sulla tela, non si esaurisce, ma acquista
il valore di una comunicazione di un avvio a quanto dovrà
domani nascere dalle sue mani.
Dal
catalogo della mostra al Ritrovo Select, Messina, 1965
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Testimonianza
di Paolo Volponi
(…)
Il confronto con l’opera di Togo diventa soprattutto fisico,
attraverso la vista, il tatto e poi il pensiero che via via viene
catturato dalla logica di quella pittura e tirato dentro a girare
secondo le sue flessioni e riflessioni tra gli spessori della materia
e il suo comporsi in forme e il loro continuo mutare.
Il vostro pensiero come i vostri sensi vengono presi e tirati dentro
la pittura e questa ne assume il dominio e li assimila, come capita
a certi insetti tra i petali e il polline di determinate piante
divoratrici. Bisogna davvero superare questo primo impatto, per
potersi mettere con agio razionale critico di fronte alla pittura
di Togo, a far funzionare meccanismi critici e selettivi e anche
la solita memoria poetica che poi riconduca i consueti confronti
e richiami poetizzanti con i territori e i luoghi del pittore, la
sua Sicilia, con le sue affinità culturali e artistiche,
le sue fraquentazioni, i suoi maestri le sue scuole ecc…
Potrebbe anche essere un discorso molto fertile a patto però,
almeno questa è la mia opinione, che non parta dalla pittura
e nemmeno dalla presenza storica e reale del pittore Togo, cioè
dalla sua cultura e dal suo muoversi ed esercitarsi come protagonista
del mondo artistico della Milano di oggi, ma piuttosto dalla sua
ansia e dalla sua voglia e capacità di conoscenza, presenti
in lui ben prima di essere diventato pittore e che nella realtà
e nei tempi del suo percorso esistenziale l’hanno indotto
e motivato a essere pittore, a cadere, a buttarsi nella pittura.
Dal
catalogo della mostra alla Galleria Annunciata, Milano, 1981
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Una
lettura delle incisioni di Togo
Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del
colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe,
l’azzurro che t’annega, il verde che ti perde - ora
il gran pontificale, il fragore, lo squarcio, il sipario aperto
– un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran
teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne,
si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’intreccio
impietoso, nelle latebre profonde, nel segreto germinare.
Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo
quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella
spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo
e necessario della nostalgia, della memoria.
In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi,
in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti
il mondo ci ritorna. Ritorna instabile, mutante, in perenne metamorforsi.
In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano
di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile,
tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano,
contemplano stupefatti il tuo stupore.
In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di
ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi
fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto
della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi di terrore.
O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura,
mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto,
la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve.
Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e
trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza,
come l’incanto di una strada chiara, d’una fata morgana
tra il cielo e il mare dello Stretto.
Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, la sua
eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie,
sopra i tetti di dimore spente (…)
(…) Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio,
nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommerso di
ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda
poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura.
Vincenzo Consolo
Dal
catalogo della mostra allo Studio d’ Arte Grafica, Milano,
1995.
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Testimonianza
di Giorgio Seveso
La
metafora e la deformazione sono gli strumenti con i quali Togo interviene
sull’immagine della natura e sulla figura dell’uomo.
I suoi colori vividamente accesi e risentiti, il suo segno nervoso
e sensibile, sono gli strumenti efficacissimi di questo suo intervento
costante, di questo suo linguaggio di scavo e di testimonianza emotiva,
di messa a fuoco poetica di un racconto sulla realtà
La singolarità del suo lavoro e dello spazio particolare
che esso si è ricavato nel panorama attuale della nostra
pittura è dovuta, appunto, all’equilibrio specialissimo
che si è instaurato all’interno della sua ricerca plastica
e poetica tra componenti diversissime tre loro, nell’incontro-
scontro tra ingredienti differenti e quasi opposti, tra segni e
sapori antagonistici che però, in lui, giungono a trovare
un loro miracoloso e singolare fondamento unitario.
Queste componenti sono essenzialmente liriche e si rovesciano sulla
tela o sul foglio in un tumulto di efficacissima suggestione emozionale.
L’incontro dei colori e dei chiaroscuri è aspro, spesso
allarmato e urtante. Le linee dei colori e dei chiaroscuri è
aspro, spesso allarmato e urtante. Le linee e i segni si inseguono,
si sovrappongono, si agitano come fossero animati da un’interiore
ventata di energia olastica, e l’immagine subisce una segreta
dilatazione, una torsione assoluta che la trascina ai limiti estremi
della riconoscibilità senza mai perdere nulla del suo rapporto
sostanziale con le cose, con la natura, con l’immaginazione
stessa.
Togo possiede una qualità che si viene facendo rara oggi.
La sincerità, la schiettezza poetica dei propri intenti espressivi.
E se ciò è vero per la pittura, lo è soprattutto
per la sua grafica, campo nel quale ha ormai messo le mani su un
repertorio tecnico di straordinaria profondità, in cui il
“mestiere” è giunto a livelli di grande raffinatezza
e suggestività.
Dal
catalogo della mostra alla Sala La Pianta, Corsico, 1988
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Testimonianza di Lucio Barbera
(…)
E’ proprio il sentimento di una natura riconquistata e riappacificata
che ora Togo non più indaga ma svela, in essa perdendosi
per felice dannazione: è in un’armonia cosmica ricomposta
che l’artista si muove ricongiungendo anche l’immobilità
metafisica della visione con la gestualità del tutto fisica
dell’azione: è infine, una custodia di sogno e di realtà
quello che l’artista per sé ha costruito, lì
deponendo i suoi umori e suoi malumori, l’annottarsi della
tristezza e l’esplodere della felicità, le delusioni
e le utopie, le emozioni e la ragione: deponendo, per dir tutto,
accanto al “profumo di natura” la complessa “realtà
dell’uomo” e tutto trasformando in “profumo di
pittura”. E se prima era stata la mente a stravolgere la realtà,
ora è piuttosto il sogno a stravolgere la mente: così,
mentre un tempo l’artista, partendo dal “qui”
della realtà visibile, andava all’inseguimento di un
“altrove” invisibile, adesso, dolcemente naufragato
in quell’altrove conquistato con la sua pittura “malata
di Sicilia”, rende visibile l’invisibile, cioè
a dire tutto mostra e dimostra che l’altrove è qui,
a portata di mano, di occhio e di mente. Bisogna, dunque, aver presente
la sua grande capacità di incisore per comprendere i più
recenti lavori: sì, proprio quegli aguzzi segni, affilati
come coltelli che andavano costruendo immagini stranianti in cui
veniva a disciogliersi un originario realismo: ma bisogna anche
aver presente quanto Togo ha maturato nella sua pittura degli anni
passati, quando ha lasciato esplodere sulla tela la libertà
di un colore acceso, senza alcuna intenzione mimetica, ma proteso
soltanto ad affermare la propria esistenza. Un colore che per quantità
e qualità ha finito con il travolgere qualsiasi residuo di
figurazione per andare “oltre l’informale” e approdare
ad una “astrazione organizzata”, liricamente aerea,
carica di energia eppure sempre tenuta sotto controllo. Nulla tuttavia,
di quanto è accaduto nella ormai lunga vicenda artistica
di Togo si è svolto nel segno della contraddizione, ma piuttosto
seguendo un’intima tensione spirituale e una coerente volontà
di ricerca. Quando, infatti maggiormente premeva la volontà
di segnare e indicare, il colore si faceva da parte, quasi seguendo
il segno che costruiva immagini: quando, invece, una memoria emozionata
reclamava le sue ragioni, era il segno a diventare umile per lasciare
tutto il campo al colore usato o in termini di costruzione iconografica
o per la propria purezza, in cui il lirismo del presente veniva
a convivere con la “memoria del passato”. Ed ecco, appunto,
che tutti quei segni, quella tensione e quelle esperienze Togo raccoglie
negli ultimi dipinti che si offrono come ingenua e scaltrissima
soglia fra la figurazione e l’astrazione: l’ingenuità
manifesta la freschezza di una pittura capace di stupirsi e di esultare:
la scaltrezza, con i suoi ammiccamenti, conferma il grande possesso
dei mezzi espressivi ormai raggiunto dall’artista. Lì
sulla soglia sospesa tra una figurazione che sembra emergere come
immagine intravista nella nebbia della memoria e, al tempo stesso,
disperdersi come immagine appena colta in un sogno senza ricordo:
lì, dicevo, si collocano questi dipinti che dicono di paesaggi,
di giardini, di nature morte, di donne velate, di luoghi incantati.
Ma “nebbia”, “sogno”, “memoria”,
hanno ora un nome: quel colore di rogo davvero suggestivo, colto,
raffinato, sensuale, ricco, mediterraneo, matissianamente felice,
capace di dolcissimi abbandoni come di improvvise impennate. Un
colore che racconta le storie che deve raccontare ma che poi divaga,
travolge il “da dire” e, stupendamente egoista, finisce
per raccontare solo se stesso, relegando tutto il resto a lontana
eco, a qualcosa di “possibile”: un “possibile”
che è finestra aperta sui sogni e sui desideri, sulla nostalgia
e sulla gioia. Insomma, nella sua sofisticata “indifferenza”,
questo “isolano isolato” a tutti offre il suo mondo
colorato che, nato come rifugio per sopravvivere, è diventato
natura da vivere, unica realtà, o se vuole, beata bugia.
Dal catalogo della mostra antologica al Teatro Vittorio Emanuele,
Messina, 1989
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Testimonianza
di Paolo Bellini
Osservando
il linguaggio di Togo, fin dall’inizio non sfugge la compresenza
di almeno due ordini di suggestioni: da un lato una reiterata ripresa
di alcune forme apparentate di lontano con un’arte di matrice
espressionista, derivante nella sostanza dai modi di certo espressionismo
astratto; dall’altro una sorte di visione tipicamente mediterranea,
segnata da colori caldissimi, violenti senza mai essere brutali,secondo
un ordine di valori che esprime una concezione di osservazione delle
cose e delle persone; ogni visione possiede il calore tipico della
partecipazione, quasi un sentimento diffuso di continua solidarietà.
Dunque questo è un primo punto: una matrice vagamente espressionista
nell’uso dei colori, senza mai toccare tuttavia le tematiche
che tale arte poi di fatto esprime. In Togo infatti la drammaticità,
se c’è, non assomiglia comunque mai allo scacco senza
scampo degli espressionisti. La parentela con quest’arte è
più esteriore, solo nei modi, particolarmente nell’uso
del colore, ma poi anche in certa maniera di intendere la realtà,
con un’aspirazione verso sogni creduti e amati e di continuo
riproposti sulla scena della propria arte, nel tentativo di vedere
compiuto un sogno che invece costantemente si riapre e chiede nuove
realizzazioni. In questo atteggiamento si palesa in Togo l’esistenza
di una sorta di spirito romantico, che di fatto imbeve molte delle
sue opere, qualcosa che fa intendere i suoi corrucciati ed esplosivi
paesaggi dell’inizio come segni passionali e profondamente
sentiti di uno spirito in caccia; e ancora si lascia scorgere in
quegli orizzonti dilatati che sembrano mimare le stesse aspirazioni
dell’artista, o nelle complicate e fantastiche costruzioni
spaziali deli ultimi anni, che riflettono, senza tradire gli inizi,
le problematiche di un uomo maturo, il cui spirito, cresciuto all’ombra
della realtà, non ha tuttavia cessato di sognare. |
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Testimonianza
di Aldo Gerbino
(…)
In Togo l’umore più profondo e decantato di questa
realtà si proietta, con eguale scioltezza, nelle figure e
nelle terre: che sono, poi, paesaggi del sud, della sua Sicilia,
di quella mediterranea espressività raccolta dall’artista,
con una gestualità del segno dinamica e accattivante, ora
nelle maniere nere (dalle” Metamorfosi” degli anni Settanta
alle successive “Immagini di memoria” degli anni Ottanta).
Il materiale creativo di Togo esorbita tra le campiture dilavanti,
conquista le efflorescenze botaniche, s’infiltra nel rigoglioso
intersecarsi di luci naturali e linee del corpo.
Figure, frammenti luminosi, conflitti espressivi tra interni e esterni,
suggestioni memoriali trasmettono, così, l’emersione
del mito: esso erompe nel trascorso dei solchi e nell’attrito
del bianco e nero. La condivisione di Togo alle grandi lezioni primonovecentesche,
viene rivitalizzata nel suo ampio respiro emotivo; il gioco delle
sue costruzioni, sospinte in un cinematismo sempre più acceso
(corroborato dalla ricerca d’una espressione formale nutrimento
alla sua pittura), trasfondono, poi, una liberatoria, quanto quieta,
dispersione di segnali, di voci appena accennate tra un disciogliersi
di occhi e fronde.
Dal
catalogo della mostra “Attardi, Gambino, Togo, luoghi del
volto, terre” alla Galleria Studio 71, Palermo, 1999.
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Togo,
ovvero della forza del colore
Piccole
scansioni di vita raccontate per flash. Flash di ricordi, immagini
scandite da sapienti tocchi di colore che elaborano campiture emozionali.
Così la pennellata di Togo sintetizza emozioni altrimenti
irrappresentabili senza cadere nell’oleografia. L’obliquità
del segno taglia l’orizzonte facendolo pulsare
di vita con aritmie che negano la regola dell’orizzonte piatto.(…)
(…) L’opera di Togo sembra una lunga – a volte
accelerata, altre volte decantata – corsa verso lo smarrimento.
Smarrimento nel colore, nel semantema che la traccia decisa del
pennello lascia scavando la tela oltre la superficie, smarrimento
nel quadro, un tuffo nel magma della sua tavolozza.(…)
(…) Togo utilizza tutte le lingue utili all’armonia
musicale del semantema iconico che rendono efficace il suo sentire
il mondo, la sua lettura e la sua proiezione sulla tela. Attraverso
la sua opera Alice-spettatore entra nello specchio che è
porta di un mondo parallelo, un mondo in cui l’orizzonte non
è fatto dall’unione tra cielo e mare ma è il
punto di fusione tra pennello e tela, tra colore e canapa, tra olio
di lino e setole: alchimia del durante. Una sorta di sindrome di
Sthendal a cui, indirettamente, anche Paolo Volponi sembra pensare
quando parla dell’opera di Togo. E, indubbiamente, osservare
una sua opera produce una certa vertigine, crea un momento in cui
non sai quanto sei dentro e quanto ci metterai per tirarti fuori
dal quadro. Non è una questione di figurazione naturalistica
o meno. Il problema della figurazione è quanto mai irrilevante
nell’opera di Togo. Nei suoi quadri il colore è una
porta aperta alle contaminazioni emotive, una chiave per entrare
nell’imponderabile personale, un varco nell’infinito.
E tra gli oggetti indefiniti e indefinibili della sua pittura, l’acqua
è un elemento permanente, come una soluzione unica e infallibile,
che ha in sé la potenza dell’energia vitale, panacea
a mali altrimenti insolubili: l’acqua scorre, si rigenera
e rigenera, come un liquido amniotico incorruttibile si fa pancia
instancabile, senza contorni definiti, senza fine.
E in questo spazio allargato, in questo regno del possibile creato
e ricreato magicamente in ogni opera, ognuno di noi trova la sua
personale mitologia richiamata da quel “terremoto segnico”
individuato da Lucio Barbera entro il quale scopriamo metafore e
deformazioni che ci appartengono, che ci fanno creatori, se non
artisti, di rimandi emozionali.
Angela Manganaro, agosto 2006
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Togo,
Saussure e l’airone
Ci sono cose che mi piacciono per il loro semplice nome.
La gardenia, per esempio: mai l’avrei saputa riconoscere,
mai mi sarei soffermato a contemplarla. Eppure a chi mi chiedeva
il nome di un fiore, io rispondevo convinto “gardenia”,
consapevole di non averne mai visto una dal vero.
Le parole (forse sarebbe meglio dire i “segni”) hanno
un duplice aspetto: Saussure chiamava significante (Hjelmslev preferiva
espressione) la parte percepibile del segno, e significato(Hjelmslev
diceva contenuto ) l’informazione veicolata dalla faccia percepibile.
Il rapporto fra i due piani, sosteneva il grande linguista, è
arbitrario.
Qui in Italia per descrivere quel fiore lì (quella porzione
di mondo) abbiamo scelto il nome “gardenia”. E io credo
che sia stata una bella idea: la erre così vibrante, la lingua
che alla terza consonante mi sbatte sui denti e la stessa successione
di lettere (fonemi!) fanno di “gardenia” una delle parole
più riuscite.
Matrimonio perfetto tra nome e aspetto, la gardenia, ora che me
ne hanno regalata una, mi tiene compagnia quando scrivo e quando
leggo: l’ho messa qui, sulla scrivania in cristallo tra lo
schermo del computer e una pila di libri che un giorno o l’altro
mi deciderò a spolverare. E mi piace osservarla dall’alto
al basso, di profilo, dallo stelo ai petali, mi piacciono i suoi
petali visti da molto vicino, i petali bianchi, i petali spettinati.
Dietro di lei, sulla destra del vaso che le offre dimora, una parete
bianca ospita un quadro di Enzo Migneco, pittore italiano che in
fondo a destra si firma con lo pseudonimo di Togo.
E’ un dittico di grande formato, qualcosa tipo quaranta di
base e duecento di altezza, intendo per quadro, quindi è
imponente, sfacciato direi, è un insieme di tinte, qualcosa
di forte, c’è molto blu che invade l’arancio
e si trasforma nel verde. Ci sono rettangoli sghembi ricoperti di
bianco, guizzi di nero, esplosione di rossi: tutto rigorosamente
fuori posto, come in un puzzle dove gli incastri non siano stati
rispettati.
Il dittico di Togo (che meraviglia! “Ditticoditogo”
è bello come “gardenia”!) è un disordine
perfetto, rigoroso, è lo stupore di chi vive senza saper
nominare, è come la gardenia prima di conoscerne il nome.
Molto più semplicemente: Togo dipinge. Togo è pittore.
Lo è nel segno (nell’espressione), nel gesto, lo è
nell’uso che fa del colore, e a chi, entrando a casa mia,
si rivolge al dittico chiedendo “cos’è?”,
“cosa rappresenta” , insomma chiede il significato del
quadro, io rispondo così: è un paesaggio visto da
un airone.
Ma come mi succede per la gardenia anche nel caso dell’airone
la scelta di questo volatile è puramente musicale: c’è
in quella sequenza di fonemi un non so che di leggerezza, di impalpabile
essenza, qualcosa di etereo; nell’airone c’è
un’idea di volatilità suprema, ontologica direi, al
punto che io, ignaro del suo aspetto, me lo immagino trasparente
come un sacchetto di plastica trasportato dal vento sulla piazza
del mercato.
Molto più semplicemente: già nel nome l’airone
è leggero. E mi evoca l’aria.
Quindi, per capire il significato dei quadri di Togo (anche “Quadriditogo”
non è male), occorre immedesimarsi nel volo di un airone.
E allora mettiamoci pure nei panni di un airone! Mi sono informato:
l’airone non indossa panni, l’airone veste piumaggio
rosso (Ardea purpurea) tutt’al più cinerino (Ardea
cinerea) e quindi nulla a che vedere con indumenti tendenza o sciccherie
retrò. Certe cose all’airone non interessano!
Una cosa è certa: mentre noi parliamo l’airone vola.
Sopra di noi, lontano da noi e dai nostri pensieri l’airone
prende rotte impreviste e conquista porzioni di cielo.
Me lo immagino che vira, che dribbla, che piroetta, il volatile
è privo di conoscenze linguistiche, libero da concetti quali
“doppia articolazione”, “sostanza” e “forma”,
l’airone memorizza gli scogli ma non li chiama per nome, non
nomina il mondo.
Lo vede soltanto. E allora scogliere sbilenche o semplicemente piani
inclinati?
Niente di tutto ciò! Sa forse l’airone cos’è
un piano inclinato?
L’airone vola sopra di noi, ma noi, almeno fino in fondo a
questo scritto, siamo aironi che seguono il suo volo. Siamo analfabeti
che vogliono capire ma non sanno nominare.
Non sono scogliere quelle cose laggiù che arginano il mare,
non esiste “scogliera” nel nostro vocabolario, poiché
quello che vediamo è solo l’espressione e non il contenuto.
Impossibile? Inscindibile?
Ancora Saussure: “Ogni termine linguistico è un membretto,
un articulus in cui un’idea si fissa in un suono e un suono
diviene il segno dell’idea. La lingua è paragonabile
ad un foglio di carta: il pensiero è il recto ed il suono
è il verso; non si può ritagliare il recto senza ritagliare
nello stesso tempo il verso”.*
Verrebbe da pensare: sì, è impossibile, è inscindibile,
non si può ritagliare.
Saussure subito dopo aggiunge: “L’arbitrarietà
del segno ci fa capire meglio perché soltanto il fatto sociale
può creare un sistema linguistico”**.
Ma l’airone non ha nulla a che vedere con il “fatto
sociale”!
E noi oggi, in queste pagine, abbiamo detto che siamo aironi, e
che proveremo a seguire la sua rotta. Anche a noi, quindi, sarà
concesso di vedere il mondo di sbieco, di soffermarci alla pura
sensazione visiva, senza chiederci cos’è, perché,
dov’è!
Airone rosso, screziato, che hai scambiato quella barca ormeggiata
per la tua culla: noi ti seguiremo! Nel tuo volo gestuale, elegantemente
arzigogolato, nel tuo inclinare le ali con un gesto da esteta, ti
seguiremo come si insegue un passo di tango dentro la sala da ballo,
orgoglioso, deciso, pacato, signore, tenace, gentile, caliente,
con un gesto d’impulso ci guiderai dentro un cielo cobalto,
giocando, glissando, nei raggi del sole, tra i monti, tramonti,
mentre trami, tra i rami, nuovi percorsi.
Quel becco lungo e robusto traccia ellissi nell’aria, insegue
aquiloni persi nel cielo, posa maestoso sui balconi ferrati, trapassa
ringhiere inclinate, scarabocchia nel cielo, traccia una rotta e
poi vira di scatto, raggiunge paesi molto lontani e incontra Van
Gogh, Gauguin, i Fauves e Matisse, l’espressionismo tedesco
con Pechstein e Schmidt-Rottluff, la Transavanguardia bonitoliviana
e il Rotcho più bello, l’airone vola sopra nomi e correnti,
tra finestre e tendenze, l’airone è fuggente e mai
indifferente, garbato, elegante, direi intelligente. Pura vertigine
dei sensi è planare su scogliere che appaiono sghembe, su
tetti obliqui che precipitano dentro terrazze balaustrate, schivare
palme che qui, e solamente qui, crescono tra le onde del mare. Poiché
questo è il punto di partenza: nei quadri di Togo nessuno
ci deve abitare. I Quadriditogo (e lasciatemelo scrivere tutto attaccato!)
sono non-luoghi, territori neutri, spazi vuoti a disposizione della
memoria, taccuini dove appuntare ricordi, luci, forme, onde di mare,
sono paesaggi visti da un airone, puzzle disordinati, armadi pieni
di maglioni colorati, piegati, stropicciati, accumulati, sono mappe
e non territori (di chi era questa? Bateson?), sono paesaggi scomposti
e ricomposti secondo un ordine non conforme alla realtà.
Poiché Togo la realtà la smonta per poi ripresentarcela
a pezzettini. Vedere cose, oggetti (Foucault farebbe una certa distinzione
tra i due termini) da diverse angolature non è altro che
assumere il punto di vista di un airone. E questo, con un pizzico
di fantasia, abbiamo provato a farlo.
Ma vederle inserite in un altro contesto significa entrare in un
mondo diverso.
Ci si chiede: Che ci fanno dei pennelli in mezzo a un paesaggio?
E le persiane verdi vicino agli scogli?
Perché in alcuni quadri di Togo è metà giorno
e metà notte? Misteri.
Di fronte a me ancora la gardenia, dietro di lei il dipinto. Sulla
mia scrivania un vaso di fiori convive da tempo con il monitor del
computer: che strano, penso, da quando in qua le piante crescono
vicino ai transistor?
Poco più in là un tavolo antico con quattro sedie
moderne. Nel giardino del mio vicino una palma vicino a un abete.
Sulla strada un motorino parcheggiato di fianco a un palazzo del
settecento. Sul muro di fronte, la pubblicità di un nuovo
telefonino confina con una chiesa del trecento. Alla fermata del
tram un uomo con jeans sgualciti e doppiopetto blu si aggiusta la
cravatta. Nelle vie asfaltate del centro un mastodontico fuori strada
prosegue a rilento. Per un istante tutto il mondo mi pare privo
di senso.
Carlo Vanoni
*Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale
** ibidem
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Testimonianza
di Francesco Poli
C’è
in Togo una forte propensione all’espressionismo, e dunque
a concepire il gesto pittorico e il rapporto con il supporto, tela
o carta, in termini di incontro/scontro, enfatizzando la fisicità
stessa e la vitalità del corpo pittorico che prende forma
e realtà plastica. Non a caso l’artista ama lavorare
su una superficie dura, che resista e reagisca all’azione
della mano, e non a caso la tecnica preferita, utilizzata negli
ultimi anni è quella dei pastelli a olio colorati, non però
quelli normali, bensì un tipo speciale di grandi dimensioni,
attraverso cui è possibile allo stesso tempo tracciare dei
segni e lavorare in termini di campiture di spessa matericità.in
questo modo Togo, che è un incisore di prim’ordine,
può trasformare gli effetti tipici della sua perizia grafica
in soluzioni assolutamente pittoriche,senza per questo annullare
l’incisività e la forza strutturante di quel segno
vibrante che è una delle anime profonde del suo carattere
artistico. Ma, in ogni caso , la tensione segnica non fa semplicemente
da gabbia di contenimento o da scheletro compositivo, ma si immerge
dentro il gioco complesso e sghembo delle pezzature che incastrandosi
tra loro danno vita allo spazio dell’immagine, acceso da accordi
esplosivi di colori. Funziona, per così dire, come un sistema
nervoso di un organismo figurativo compatto e fluido allo stesso
tempo. I “paesaggi mediterranei” , le “isole”,
le visioni tra realtà e invenzione fantastica degli “interni-esterni”,
la leggerezza di superfici spazzate dal “vento di scirocco”,
trasmettono un senso caldo e appassionato di vita vissuta e sognata,
una gioia di luce e di atmosfere non in senso naturalistico ma di
realtà dove esperienza percettiva e reinvenzione dell’immaginario
si coniugano in modo inestricabile.
In Togo la regola della pittura, faticosamente conquistata nel tempo,
elaborata lentamente per accostamenti successivi a un equilibrio
estetico originale, è un segno della conquista di una vera
libertà creativa, nella coscienza dei limiti oggettivi del
linguaggio pittorico, ma anche nella mai spenta speranza di accendere,
anche solo per un attimo, la fiamma straordinaria dell’incanto
senza tempo della “Pittura”.
Dal
catalogo della mostra alla Galleria "Radice", Lissone,
1995.
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Luoghi
d’acque e di miti
(…)Togo
a Milano inventa, con le sue tele, altri mondi che lui sicuramente
ama: l’aquilone fuggito, l’isola dei pescatori, il grande
albero verde, l’isola di Dino, luna crescente, mare d’agosto
e risacca. Ama così tanto il mare che anche la sua pittura
è liquida. Dipinge il mare rosso e che importa, anche Omero
vedeva il nostro mare colore del vino e anche Leonardo Sciascia.
Togo cattura l’essenza di una vita bella e la dipinge anche
con precipizio. Con precipizio perché il suo pennello corre
e con precipizio sembra che tutto viva(…)
Giovanna Giordano
Dalla
presentazione alla mostra: luoghi d’acque e di miti - Sant’
Alessio (Me) 2007 |
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Testimonianza
di Lucio Caramel
Ecco,
quindi, l’attualità nuova del “genius loci”,
cui addirittura fin dal titolo Achille Bonito Oliva riferisce nel
1980 una mostra di artisti nuovi. E in seguito tutta una serie di
iniziative all’insegna di quelle “radici”, alle
quali proprio quest’estate è stata dedicata la mostra
del Premio Michetti riservata a pittori e scultori nati dopo il
1950. In occasione della quale rilevavo come dagli artisti d’oggi
( in quel caso i più giovani, ma l’osservazione può
essere pacificamente estesa anche a molti più avanti negli
anni, come appunto Togo) i segni della matrice, la memoria delle
tradizioni della ragione natia, a quella medesima del suo paesaggio,
degli usi e costumi dei conterranei siano vissuti non tanto come,
in positivo e in negativo, stimmate di diversità. Invece
quali originali fattori di un tutto che si è andato determinando
entro una globalità di apporti, a contatto con una pluralità
di stimoli, in una condizione di fattiva interazione con i nuovi
orizzonti, ormai inevitabilmente neppur solo nazionali, non con
ripiegamento nostalgico, con un guardar solo, o preminentemente
all’indietro.
Entro siffatto registro si colloca la pittura di Togo sin dai primi
anni Sessanta, allorché certa sonorità di accordi
cromatici, o al contrario certa cupezza, con valenze espressionistiche,
è poi correlata, all’interno, con la flagranza, di
colore e di pennellate, e con la panica circolarità derivante
dall’esperienza informale, allora direttamente saggiata. Con
conseguenze sul superamento d’una qual descrittività,
e più ancora dell’affacciantesi rischio d’un
segno manieristica, tra eredità post-cubiste e folclore,
che a Togo veniva da esempi siciliani, magari dal medesimo Guttuso,
dal suo pericolosissimo fascino.
Ed è proprio tale apertura alla modernità (e non faccio
qui questione di figurazione o no, che è problema del tutto
irrilevante) che in un secondo momento consentirà al pittore
di riprendere con ben diversa scioltezza, e diciamo pure perentorietà,
certi obiettivi frequentati nei tardi anni Cinquanta. Salvo poi
riabbracciare modo più liberi, anche da preoccupazioni di
contenuto, con calda palpitazione cromatica, aderente al fenomeno
nel suo darsi, in un contesto di spazialità non preconcetta
(che invece aveva riproposto i suoi diritti in certe immagini- vedute,
paesaggi, figure- eseguite da Togo negli anni Settanta), intimamente
connessa al divenire temporale, che intende la pennellata e innerva,vivificandole,
le opere più fresche e riuscite.
E ancora questo avvertito rapporto con la cultura artistica attuale
trattiene Togo dal lasciarsi troppo andare all’insidioso piacere
della bella pittura, che resta materia del suo fare, anche per l’urgere
delle radici, per l’innesto nel calore della mediterraneità,
però dominata, e quindi innalzata a obiettivi di invenzione.
Come esemplarmente si può constatare nelle tele più
recenti, estroverse e fecondate dall’interiorità, compositivamente
organizzate con lucida eppur emozionalmente viva sicurezza, in un
urgere e confrontarsi di forze centrifughe e centripete, e nel fondersi
di tradizione e ricerca. Togo è infatti insieme artista dalla
sensualità antica, e tutta terrestre, e accanto sperimentatore.
E’ pittore d’altri tempi e pittore d’ oggi. Crede
nell’espressione, ma la vuolu sedimentata. Qui, in questo
fitto interagire di motivazioni e obiettivi, nella preoccupazione
di tutto risolvere nella forma senza appiattirsi in essa, sta il
sigillo della sua originalità.
Dalla
presentazione della mostra “Terrestrità” 1989
(catalogo Mazzotta)
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Testimonianza
di Tommaso Trini
(…)
Pittore dei lunari labirinti dell’animo, Togo è ambrosiano
mediterraneo. Non è lontano dal grande scultore di cattedrali
e parchi Gaudì che era gotico mediterraneo. Se la sua pittura
ha potuto essere giustamente assimilata allo stile di Gauguin, per
un comune colorismo straniato, per i contorni neri che a Pont-Aven
arabescavano le figure à-plat mentre qui terrazzano gli incastri
di spazi interni ed esterni, lo si deve al senso profondo di sradicamento
che entrambe le opere ci comunicano, e contro il quale hanno lottato
sia l’originario del Perù sia l’originario della
Sicilia.
E’ di questo conflitto che entrambi vivono (…)
(...) Da altri critici è stato ben rilevato che l’arte
di Togo si è mossa con grande sensibilità, e con ampio
anticipo sulla Transavanguardia, in una visione d’identità
antropologica che privilegia le radici culturali di un luogo contro
gli scambi sradicati del cosmopolitismo artistico.
Caramel e Barbera in particolare hanno sottolineato le sue precoci
sintonie con la poetica transavanguardistica del "genius loci",
dell’appartenenza a un deposito di figure e stili.
D’altro canto De Grada aveva già notato in precedenza,
a proposito di una fase d’impressionismo togoano, che l’artista
poteva essere avvicinato a certa arte latino-americana: per l’orgoglioso
senso di eredità, io sospetto: per l’acuto sentimento
di nostalgia liberata dal canto che l’indigeno brasiliano
chiama "saudade".
Senonché, la poetica del"genius loci" ha rappresentato
un alibi per il conservatorismo e l’indigenza creativa di
molti epigoni della Transavanguardia. Una visione antropologica
che si richiama alle origini dev’essere evolutiva e coraggiosamente
utopica assai più di una qualsiasi fuga in avanti avanguardista.
Le radici tratte dall’oblio costituiscono un altrove e un’utopia
che comunque sono, esistono, che comunque ci precedono. Per riviverle,
bisogna prima reimpiantarle.
E’ quel che ha fatto Togo fuori dall’insularità
mediterranea e siciliana, in una città come Milano anch’essa
incline al senso del clan e della famiglia che è un tratto
caratteriale di questo artista più che della sua terra d’origine,
al centro degli scambi in Europa.
Ha affondato le sue origini dall’ormai lontano Mediterraneo,
ben insulare rispetto ai centri di potere mondiale, anzitutto nella
sua pittura: non diversamente da Matisse. E riponendo le sue radici
al centro della sua opera, ha contribuito ad assottigliare lo sradicamento
ontologico che fonda la pittura stessa: il suo essere per sempre
altra e distaccata rispetto alla vita.
Dal catalogo della mostra alla Galleria Bonaparte, 1992, e Università
Bocconi 1993, Milano
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