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A
questo punto
Quello che succede adesso è appunto quello che sta succedendo
e una delle cose che stanno succedendo è questa mostra, questo
catalogo, che traccia un itinerario tra le cose che ho fatto.
Quando mi proposero di fare una prima grande mostra antologica,
con annesso libro, eravamo nel 1988, o forse alla fine del 1987.
Mi si offriva per la prima volta la possibilità di storicizzare
la mia attività e, si sa, le storicizzazioni hanno sempre
un che di arbitrario oltre che iettatorio. Ne parlai con Cartier-Bresson
che commentò, con la solita, laconica pertinenza: «ma
non è un po' troppo presto?». La sua domanda mi fece
riflettere. Avevo 45 anni, avevo fatto il fotografo in maniera che
consideravo inadeguata, e avevo forse qualche rimpianto. I rimpianti
sono sempre un po' ridicoli: ognuno fa quello che la vita gli offre;
però, certo, a posteriori ti chiedi cosa sarebbe accaduto
se le cose fossero andate diversamente, se i contesti fossero stati
altri e le risposte personali differenti. Se non avessi fatto le
feste, se non fossi andato a Milano, se fossi entrato a Magnum,
come altri, a ventitré anni... forse avrei fatto una fotografia
diversa, forse sarei diventato un fotografo migliore. Ma sono discorsi
oziosi, ognuno fa quello che può e anch'io, dopo quel libro
della mia giovinezza, frutto di talento non controllato, ho dovuto
passare gli stadi dell'apprendimento, delle rinunce, delle delusioni,
delle mediocrità.
Fare quella mostra, quel libro, significava accettare una sfida.
Così mi sono messo a cercare le fotografie per questo libro
antologico. Quando viaggi nell'archivio, ciò che soprattutto
viene fuori è la quantità di foto, le centinaia di
migliaia di immagini mediocri. Alla fine ne selezionammo centottanta.
Sicuramente, né due mesi dopo, e ancora meno dieci anni dopo,
avrei fatto la stessa scelta. Il titolo, Le forme del caos, nacque
dopo lunga diatriba. Sciascia era scettico. Le forme del caos non
piaceva proprio a nessuno. Io ero un po' titubante. Ma, non so perché,
quel titolo mi sembrava l'unico possibile, quello che meglio corrispondeva,
intellettualmente e filosoficamente, alla mia maniera di vedere
la vita, che è proprio un viaggio dentro caotiche cose, di
cui non capiamo niente e alle quali cerchiamo di dare un senso.
Da allora sono passati molti anni. La mostra l'ho presentata altre
volte, ci inserivo qualche fotina nuova, e la chiamavo sempre Le
forme del caos. Ma questa è una mostra radicalmente diversa,
nella quale in un certo senso faccio i conti con quel fare il punto
del 1988 e ne faccio un altro. Almeno fino a questo punto. Poi,
vedremo.
Vorrei utilizzare come exergue una citazione di un testo di Borges
che si chiama Epilogo in cui racconta di un uomo che decide di rappresentare
il mondo e disegna fiumi, valli, palazzi, città, uomini,
bambini... e alla fine si accorge che tutte le linee che ha tracciato
sono il suo autoritratto. Considero di avere avuto molta fortuna,
perché il mio autoritratto è risultato anche l'autoritratto
di molte persone che, misteriosamente, si sono riconosciute nelle
cose che io ho guardato e nel modo in cui le ho viste. Ho l'impressione
di avere avuto dalla fotografia più di quanto abbia dato.
Libri
Da sempre, faccio foto perché un giorno finiscano in un libro.
Credo faccia parte di una fede culturale che non si rassegna, ma
neanche un poco, ad una visione del gesto culturale come gesto totalmente
effimero. Amo il libro perché è il luogo in cui racconti
che cosa hai fatto, a che punto sei e verifichi con te e con gli
altri se il tuo itinerario ha un senso. Sono un appassionato bibliofilo,
anche di fotografia e, come dice il mio amico Berengo Gardin, guadagniamo
soldi per comprare libri degli altri. In fondo, anche la Bibbia
è un libro: tutte le cose importanti del mondo, ma purtroppo
anche le ignobili e anche molte stupidaggini, prima o poi finiscono
in un libro, diceva Alberto Savinio. Il libro rappresenta lo strumento
attraverso il quale mi sembra di parlare davvero con le persone.
Si può comunicare anche con una mostra, ma una mostra è
anche sempre un po' un rito mondano. Sfogliando un libro, leggendolo,
guardandolo, il lettore è solo, in un certo senso ne diventa
autore anche lui. Se guardando le fotografie si emoziona, se si
indigna, se ne fa sedurre, se capisce e si capisce, veramente puoi
toccarlo nelle corde più intime. Chi tocca un libro, tocca
un uomo, si dice. È l'unica immagine di futuro che le nostre
illusioni sull'essere qualche cosa di più di questa cosa
impermanente che è il nostro corpo e la nostra esistenza,
può dare. Sono abbastanza laico e abbastanza cinico per dire
che non mi interessa la posterità; però, con un libro,
fino ai miei nipoti spero di arrivare.
Era inevitabile che prima o poi facessi una mostra e un libro sul
fare libri.
La memoria delle cose, la memoria dei fatti, la memoria dei luoghi,
la memoria degli uomini. Una
Bibliografia dell'istante |
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Ferdinando
Scianna
Leonardo Sciascia
Feste religiose in Sicilia
Leonardo daVinci, Bari 1965
Ma
una festa religiosa - che cosa è una festa religiosa in Sicilia?
Sarebbe facile rispondere che è tutto, tranne che una festa
religiosa (ma con una grande eccezione, come vedremo). È,
innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l'esplosione dell'es.
collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto
a livello dell'es.. Poiché è soltanto nella festa
che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è
poi la condizione del suo vigile e doloroso super-io (stiamo impiegando
con approssimazione i termini della psicanalisi), per ritrovarsi
parte di un ceto, di una classe, di una città. In questo
senso, oggi havalore di festa il periodo che immediatamente precede
la consultazione elettorale, e la giornata elettorale stessa (ma
venata di quella malinconia che si insinua nel disfarsi e spegnersi
di una festa): che è il momento in cui il partito politico,
i partiti politici, la politica insomma, effettualmente esiste;
cosí come un tempo, nelle feste patronali o liturgiche, veniva
a configurarsi, anche attraverso una eccezionale esplicazione di
poteri (la liberazione di condannati, la licenza di potere insultare
o colpire persone di più alto ceto), l'esistenza di una corporazione,
di un ceto, di una classe. Per cui il voto, spesso, e dai più,
viene usato come un tempo il contadino e il pastore di San Fratello,
mascherato da «giudeo », usava la disciplina di ferro
per colpire i signori; come il popolano di Prizzi, impersonando
la morte, faceva il ricco bersaglio delle sue frecce. Con immunità,
ma ad ogni buon conto mascherati.
Dal
saggio di Leonardo Sciascia |
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Ferdinando
Scianna
Il Glorioso Alberto
Editphoto, Milano 1971.
Gesti
e parole eseguiti da maghi che fanno nascere speranze, spesso certezze,
nelle persone che, nelle città e nella campagna, si rivolgono
a questi ultimi portatori della magia popolare, annidati nei vicoli
di Forcella a Napoli, alla Kalsa di Palermo, nelle fasce extraurbane
di Roma, Torino, Milano e ovunque dove c'è miseria, dove
quindi il bisogno di aiuto e di conforto si articola in maniera
ben diversa da quello della borghesia, che cerca aiuti individuali
negli studi degli astrologi e dei guaritori alla moda.
Ogni giorno a Serradarce, nel Salernitano, davanti ad alcune centinaia
di persone, opera il defunto Alberto, il più grande e famoso
guaritore del Mezzogiorno, adorato dalle masse dei miseri e perseguitato
dalla chiesa con la qualifica di «strega» e di «fattucchiera»».
Gli attributi che lo qualificano sia positivamente sia negativamente-Glorioso,
Santo, Beato, strega, fattucchiera, imbroglionasono anche di genere
femminile perché Alberto, fisicamente parlando, è
una donna, Giuseppina Gonnella, di cinquantasettanni, analfabeta,
madre di famiglia, che da quattordici anni è la protagonista
del fenomeno Alberto.
Alberto, un ragazzo di 18 anni, morto nel 1956, entra quotidianamente
nel corpo della zia Giuseppina per comunicare con la gente.
Alberto Gonnella muore il 26 ottobre 1956 in seguito ad un incidente
provocato da uno zio, fratello di Giuseppina, durante la manovra
di un camion; la sciagura crea forti tensioni in famiglia, soprattutto
tra il padre del ragazzo e l'uccisore. Dopo tre giorni dalla morte
di Alberto, mentre la salma si trovava nella camera mortuaria del
cimitero in attesa dei nulla osta per la sepoltura, Giuseppina,
che era andata in visita di condoglianze dai genitori del defunto,
all'ora della morte del nipote, esattamente alle 8,36 fu presa da
dolori alle gambe che la paralizzarono. Venne fatta distendere sul
letto di Alberto, dove rimase fino all'indomani, quando il padre
del defunto espresse il dubbio che essa non stesse male ma fosse
posseduta dallo spirito dei figlio. Giuseppina allora incominciò
a parlare come se fosse Alberto di cose alle quali solo il giovane
aveva assistito; disse che la sua salma non si era decomposta ed
espresse il proprio disappunto perché i parenti gli si erano
avvicinati tappandosi il naso con il fazzoletto. Dato che il padre
mostrava incredulità per tale incarnazione, sebbene fosse
stato proprio lui in un primo tempo ad ipotizzarla, Alberto, sempre
tramite la zia, parlò di un basco che si doveva trovare sotto
il sedile dei camion che lo aveva ucciso, e il basco fu realmente
trovato. Questo bastò per convincere tutti che Alberto era
entrato nel corpo della zia e da quel giorno la vita di Giuseppina
incominciò a svolgersi su due binari: quello della sua normale
esistenza e quello magico della incarnazione del nipote. L'evento
si diffuse e la gente incominciò a recarsi da Giuseppina
per chiedere consigli, per risolvere malattie diverse, per farsi
togliere malocchi e fatture.
Dalla
prefazione di Annabella Rossi |
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Ferdinando
Scianna
Les Siciliens
Denoél, Paris1977 La
fotografia, una fotografia, sembra racconti immediatamente un luogo,
una persona, un fatto colti in un momento fortuito, imprevedibile,
irripetibile e fortuitamente, imprevedibilmente, irripetibilmente
carichi di significati al punto da esserne sintesi e (rovesciamento-per
saturazione-dell'oggettività, del realismo) simbolo. Invece,
anche se fulmineamente disvelata, l'immagine fotografica è
il risultato di un lungo e lento, anche se inavvertito, apprendimento;
di un qualcosa di simile al processo di cristallizzazione di cui
parla Stendhal: e ci aiuta a stabilire l'analogia la suggestione
di quella che una volta si diceva «camera oscura», oscura
quanto «les profondeurs abandonées de la mine de sei
de Salzbourg» dove, se si lascia «un rameau d'arbre
effeuillé par l'hiver, deux ou trois mois après on
lo ritire couvert de cristallisations brillantes». Nella fotografia,
cioè nel fotografo, accade qualcosa di simile: s'imbeve di
una realtà, di un'atmosfera, di un avvenimento finché,
con un piccolo scatto meccanico, ne consegna alla « camera
oscura» la sintesi, la cristallizzazione.
Queste fotografie di Scianna che raccontano la Sicilia (la Sicilia
com'è per i siciliani, com'è nei siciliani) sono appunto
le cristallizzazioni di un lungo processo di conoscenza; e di amore
anche, e di odio: perché la Sicilia è sempre, per
un siciliano, anche se a diversi livelli di consapevolezza e di
equilibrio, come la donna dell'antico poeta: «nec sine te,
nec tecum vivere possum ». E ad accompagnarle, a scrivere
un testo che le accompagnasse (non che le spiegasse, poiché
ovviamente non hanno bisogno di essere spiegate), mi è parso
di non poter fare nulla di meglio che aggiungere altre cristallizzazioni:
cristallizzazioni linguistiche, di un lessico particolarissimo,
di una particolarissima paremiografia, cosí come le ritrovo
nella memoria, nella «camera oscura» della memoria,
e che sono effettualmente gli elementi su cui si fonda una vera
conoscenza - e in questo caso la mia conoscenza del paese in cui
sono nato, in cui ho passato l'infanzia e la giovinezza. Un paese
siciliano, Racalmuto in provincia di Agrigento: ne ho rappresentato
la vita, vent'anni fa, in un libro; una vita che somigliava a quella
di altri paesi siciliani dell'interno, che ne era la sintesi. Ora,
con questa specie di piccolo dizionario, faccio un'operazione inversa:
di sciogliere la sintesi nell'analisi, la generalità nella
particolarità, la somiglianza nella dissomiglianza. Ed è
un'operazione, questa di localizzare e di individualizzare al massimo,
molto simile a quella dei fotografo.
Dalla
postfazione di Leonardo Sciascia |
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Ferdinando
Scianna
I Siciliani
Einaudi, Torino 1977
Un
altro mito di un'estrema semplicità e nello stesso tempo
suscettibile di molteplici interpretazioni: il grembiule della donna
di Pietraperzia. Lo trascrivo nella versione che ne ha dato Francesco
Lanza, uno scrittore siciliano degli Anni Venti, uno di quegli scrittori
che si sono dedicati a raccogliere e ricreare le tradizioni orali
che pullulano in questa terra.
« La pierzese aveva addosso un grembiule che toppe ce n'erano
una sull'altra da non contarsi piú, e a cento colori; sicché
divenuto spesso del doppio pareva invece la pannicciata dell'asino.
Il marito, che glielo sapeva dal dì delle nozze, non poteva
vederglielo piú in mano per rattopparselo, che non le bastavano
mai pezze e le si sfaldava da ogni parte; e come venne la fiera
gliene comprò uno nuovo. Quella a vederlo non sapeva quanto
lodarlo, ch'era a fiorami; e intanto faceva: - Che belle toppe si
possono tagliare di qua per il mio grembiule sciupato, e cosí
posso mettermelo anche per la festa. E dato di mano alle forbici
si mise a tagliare di là le toppe per quello vecchio; e a
lavoro finito, lo mostrava tutta contenta al marito: - Guardate,
marito mio, com'è ora rappezzato il mio grembiule, che pare
nuovo nuovo ». L'essere abituati alla miseria, ai cenci, non
basta e spiegare il gesto della donna di Pietraperzia; e chi vedesse
in questo aneddoto solo un'allusione alla miseria secolare, alla
povertà esistenziale del popolo siciliano perderebbe il significato
piú importante di quel mito: la contentezza che suscita ciò
che è variegato e composito.
Dalla
prefazione di Dominique Fernandez |
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Ferdinando
Scianna
Kami: minatori sulle Ande boliviane
L’immagine, Milano 1988
L'accampamento
dove vivono questi uomini e donne e bambini, questi minatori, ha
nome Kami, come la montagna nella cordigliera delle Ande boliviane
sui cui fianchi friabili, a oltre 3800 metri di altitudine, è
precariamente aggrappato.
Generazioni di topi umani hanno scavato dentro la notte di queste
montagne, quasi con la sola forza delle mani, per cavarne fuori
oro, argento, stagno, antimonio, tungsteno, metalli che hanno reso
splendidi imperi e creato la ricchezza strepitosa di pochi al prezzo
della fatica immane e molto spesso della vita degli uomini e delle
donne che vi hanno lavorato.
L'esistenza dei minatori, qui a Kami, come nelle altre miniere,
ieri, quando ancora erano una grande realtà economica, come
oggi che stanno chiudendo quasi tutte, è un vivere morendo.
Quando non li uccide la fame, la fatica, la disgrazia, la silicosi,
la tubercolosi, sono i fucili dei soldati al primo cenno di ribellione
inviati per massacrarli (la Bolivia ha subìto 199 colpi di
stato nei 160 anni della sua indipendenza).
Dalle miniere di Kami si estrae tungsteno, il wolfram un tempo molto
pregiato se in anni non lontani riusciva qui a dare da vivere a
oltre 10.000 persone; e si viveva bene, dicono i minatori, che confrontano
la miseria di oggi
con la relativa abbondanza durata fino alla metà degli anni
sessanta. Ma il mio mestiere è fare fotografie e le fotografie
non possono rappresentare le metafore. Le fotografie mostrano, non
dimostrano, e quelle che pretendono di dimostrare sono quasi sempre
cattive fotografie. Ma non è il caso di impantanarsi in discorsi
teorici: io ho voluto, con queste fotografie, raccontare la vita
della gente di Kami. Certo, l'ho fatto in questo modo, attraverso
le immagini che compongono questo libro, buone o cattive davvero
non so. Ho soltanto fatto il fotografo, con umiltà, con orgoglio,
cercando di utilizzare al meglio i miei strumenti di linguaggio.
Dalla
prefazione di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Le forme del caos
Art&, Udine 1989
Si
tratta della morale? Non è, invece, forse, che Scianna preferisce
selezionare disordini e in un certo senso allontanarli da ogni realismo
sorprendente o truculento? Non sarà che tutte le fotografie
di Scianna, anche quelle in esterni che catturano al volo le cose
e i gesti, sono foto di studio, perché tutto e tutti, in
certo senso, posano per lui? L'ammessa passione per Cartier-Bresson
e la teoria dell"`interesse umano" ce lo colloca tra le
file della comunicazione libertaria, libertà di fotografare,
libertà di leggere, voltando le spalle ai traffici codificazione-decodificazione
dei semiologi. La semiologia è quella scienza che innanzitutto
spiega perché i tavoli con quattro gambe sembrano avere quattro
gambe e quale luogo occupa questa costatazione nella scala comparativa
dell'iconicità decrescente o dell'astrazione crescente. Diventa
difficile fotografare cercando quel punto di incontro tra l'iconicità
che parte e l'astrazione che arriva e nella difficoltà Scianna
si ferma all'opera aperta filtrata da una soggettività che
il lettore rende oggettiva o ignora o falsifica e sempre modifica.
Questo è tutto. Il linguaggio viene creato e rinnovato dagli
artisti e dai lettori, mai dai decodificatori, diventati tribù
di specialisti del fare a pezzi che comunicano tra di loro con telefonie
che solo loro capiscono, apprezzano e di cui solo loro hanno bisogno.
Tra quel Baudelaire che voleva le fotografie come serve e i semiologi
che vi applicano termometri di figurativismo e iconicità,
resta il tremore umano di Benjamin che vorrebbe che le fotografie
si portassero sempre dentro l'anima dell'utopia, della colpevolezza
determinista della realtà. Scianna analizza con uno sguardo
anarchico che appone alle modelle la data di scadenza e nelle vittime
luci di insurrezione.
A
Scianna, uomo che ama la Letteratura quanto io amo la Fotografia,
dava fastidio che Baudelaire fosse stato così cieco, così
conservatore, così reazionario anche se, ben sapendo che
lo stesso Nietzsche era un imbecille in questioni amorose, Scianna
ammette che il talento possa essere unidimensionale e la condotta
pluridimensionale. Comunque, è un boccone amaro fotografare
pensando che Baudelaire non è d'accordo con il fotografo.
Brecht ha detto di sì. Sciascia gli ha addirittura dedicato
una prefazione. Benjamin lo ha profetizzato. Abraham Moles ecologizza
e iconizza. Vittorini non rifiutava di sovrapporsi o divenire sovrapposto
dall'immagine fotografica. Ma Baudelaire insiste nella sua diagnosi
e pretende da lui, continuamente, che fotografi Nancy Reagan come
contributo alla Storia della Chirurgia estetica o un quadro di De
Chirico per trafiggerlo con uno spillone nei Dizionari enciclopedici
o gli assetati bimbi etiopi ad illustrare una qualsiasi teoria della
sete.
- Che facciamo di Baudelaire?
Me lo aveva chiesto tempo addietro, e gli risposi:
- Ignoralo
Ma Scianna scosse la testa mentre guardava l'oscuro, invisibile
oggetto del suo desiderio. - Se la potessi fotografare!
E questa è l'unica impotenza del fotografo. Può fotografare
la morte, ma soltanto se si mette in posa.
Dalla
prefazione di Manuel Vazquez Montalban |
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Ferdinando
Scianna
Las formas del caos
Contrasto, Roma 2000
Non
ricordo precisamente quando - nel 1961, nel 1962 - Ferdinando Scianna,
di cui mi aveva parlato un professore di storia medievale dell'Università
di Palermo, venne a farmi vedere alcune sue fotografie di feste
religiose siciliane.
Le sue fotografie, debbo dirlo, ebbero in me, non immediatamente
ma per lenta presa di coscienza, l'effetto di farmi smettere di
fotografare. Me ne ero dilettato fin da quando, per nove lire, avevo
acquistato una macchinetta americana che chissà dove è
andata a finire e che mi piacerebbe ritrovare. Avevo avuto poi altre
macchinette, fermandomi a una Zeiss che rendeva niente male, ma
che di più avrebbe reso in altre mani e attraverso altro
occhio. Del mio smettere di fotografare Scianna un po' si fa cruccio:
sicché mi regala di tanto in tanto macchine fotografiche
sempre più perfette. E questo per dire fino a che punto siamo
diventati amici: da credere, lui, che io possa essere fotografo;
e da consegnarmi, io, all'inibizione di far fotografie, avendo visto
e vedendo le sue e più volte accompagnandomi al suo fotografare,
in tanti Paesi della Sicilia e dell'Europa. Che è, il suo
fotografare, quasi una rapida, fulminea organizzazione della realtà,
una catalizzazione della realtà oggettiva in realtà
fotografica: quasi che tutto quello su cui il suo occhio si posa
e
il suo obiettivo si leva obbedisca proprio in quel momento, nè
prima nè dopo, per istantaneo magnetismo, al suo sentimento,
alla sua volontà e - in definitiva - al suo stile. E sarà,
credo, peculiarità di ogni vero fotografo, Cartier-Bresson
al vertice; ma è di lui, per diretta e ripetuta esperienza,
che posso testimoniarlo. E per esempio: viaggiando con lui per le
strade di Spagna, frequentemente avveniva che fermasse di colpo
l'automobile e rapidamente facesse marcia indietro per cogliere
qualcosa o qualcuno su cui il mio occhio tanto inavvertitamente
era passato che proprio al momento in cui puntava il suo obiettivo
pareva come sorgere dal nulla, materializzarsi come per evocazione,
rendersi al significante.
Dalla
nota di Leonardo Sciascia |
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Ferdinando
Scianna
Leonardo Sciascia
Ore di Spagna
Pungitopo, Messina 1988
Horas
de Espana
Tusquets Editores, Barcelona 1990
Ore
di Spagna
Bompiani, Milano 2000
Qualche
anno fa, rileggendo l’Antimonio per il convegno Scrittori
di Europa a confronto con la guerra civile spagnola, mi sono ricordato
di tutte le altre pagine che sulla Spagna, sulla sua cultura, aveva
scritto Leonardo Sciascia. Ho subito pensato di proporgli di riunirle
in volume; ed oggi la maggior parte di esse rivede la luce nell'edizione
della Pungitopo di Marina di Patti, con il titolo appunto, Ore di
Spagna, che vuol dire tempo trascorso in Spagna, tempo dedicato
allo studio della storia e della cultura spagnole. L'occasione è
fatta più accattivante dalle straordinarie fotografie di
Ferdinando Scianna, molte delle quali scattate in un recente viaggio
compiuto in compagnia del grande amico Leonardo.
Come già nel racconto del 1961, in queste pagine, in una
sorta di trasversale giuoco di specchi, la Sicilia si riflette nella
Spagna e la Spagna nella Sicilia.
Propriamente un viaggio, anzi, nelle cose e nel tempo, nella letteratura
e nella storia, nell'attuale realtà della Spagna.
In dieci capitoli acuti e fervidi, che incuriosiscono e appassionano,
Leonardo Sciascia attraversa il mondo spagnolo, rivisitandolo, ri-conoscendolo,
con una lettura che senza voler essere totale risulta tuttavia esemplare.
Se nel testo di Sciascia le cose e i personaggi diventano parola,
bellezza, a riscontro, nelle fotografie di Ferdinando Scianna, con
autonoma originalità, le persone, gli oggetti, i luoghi,
diventano figure, altra bellezza. Come, ad altro proposito, dice
Sciascia d'Ortega y Gasset, sembra che nel molto viaggiare, nel
molto conoscere il mondo, il tema della Spagna, come memoria e visitazione,
duplice o triplice conversazione, si sia qui configurato come il
tema dei temi.
Dalla
nota di Natale Tedesco |
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Ferdinando
Scianna
La scoperta dell'America
Centro culturale Pasolini, Agrigento 1988
Nei
numerosi anni in cui ho lavorato come reporter e inviato per il
settimanale L'Europeo ho viaggiato per il mondo intero, ma raramente
sono andato negli Stati Uniti. C'erano i corrispondenti e l'America
era un po'terreno riservato.
Insomma, la mia vera prima volta in USA, specialmente a New York,
è stato nel 1985, per partecipare a uno dei miei primi meeting
di Magnum. Non ero più un ragazzo, ma ho vissuto quell'incontro
con l'America con fortissima emozione adolescenziale. Per quasi
un mese ho girato per la città incantato, spaventato, stupito,
sedotto. E facendo fotografie, per il puro piacere di farle, senza
altro scopo e senza alcun cliente o progetto cui rendere conto.
Settimane felici, di felice fatica. Ho poi calcolato che avrò
percorso a piedi in quel mese, seguendo solamente da mattina a notte
il mio naso e la mia curiosità, almeno 400 chilometri.
Per molto tempo non ho fatto nulla con quelle fotografie. Salvo
riguardarle. E con diffidenza, con autoironia. Non le mostravo nemmeno.
Figurarsi, con tutti i mostri sacri che avevano fotografato in America,
a New York! Soltanto qualche anno dopo ho cominciato a mostrarne
qualcuna di quelle immagini e ci feci anche una piccola mostra ad
Agrigento che chiamai sarcasticamente La scoperta dell’America.
Me ne sono rimasti soltanto un paio di cataloghi. Si dimenticarono
di conservarmeli. Eppure, molti anni dopo, e molti viaggi americani
dopo, ho cominciato a guardare e a riguardare quelle fotografie
con meno pessimismo e quel piccolo catalogo ho cominciato a considerarlo
il seme del libro che vorrei fare, che da allora continuo a progettare
su New York e gli Stati Uniti.
Testo
di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Leonardo Sciascia fotografato
da Ferdinando Scianna
Sciardellli, Milano 1989
Infatti,
l'icona cerca sempre di riappropriarsi della fotografia. Non è
il fotografo un fuggiasco. Anzi, è come se esseri e cose
rifuggissero da lui e il suo gesto volesse riafferrarli, perciò
è anche pronto a fare il giro del mondo a rincorrerne frammenti
in modo da restituirceli intatti. Ma l'istante che non è
volato via. trattenuto nella camera oscura in geroglifici di luce,
siamo sempre tentati di credere che presentifichi l'eterno o, per
lo meno, in qalche caso, il senso di una vita. Da questa visione
delle cose ci allontanano le foto di Scianna.
Anzitutto Perché afferrano il corpo di Sciascia in movimento.
Un uomo cammina: tra una teca e due bambini; per la strada di un
paese siciliano; circondato da fiorami e arabeschi napoletani; in
mezzo a rovine... Un andare, una andatura spontanea eppure mai naturale;
l'istante è vero perché sorprende. Il movimento dice
anche che corpo e anima sono legati l'uno all'altro. Anzi, il movimento
è quel legame. E l'emozione è il movimento dell'anima:
il corpo vi resiste o l'asseconda; sempre la rivela. Sagoma stranamente
aerea, modellato del viso, faccia massiccia e inquieta.
Dalla
prefazione di Claude Ambroise |
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Ferdinando
Scianna
Jorge Luis Borges fotografato
da Ferdinando Scianna
Sciardelli, Milano 1999
Borges
è nato nel 1899, sul morire del secolo, nel pieno centro
di Buenos Aires. Ma i suoi primi ricordi risalgono a pochi anni
dopo, quando la sua famiglia si trasferì in una piccola casa
con due patio della periferia povera della capitale nel quartiere
chiamato Palermo. E a Palermo io l'ho incontrato. Non, però,
nella Palermo che designa l'ormai irriconoscibile quartiere bonearense
dell'infanzia di Borges, ma in Sicilia, dove lo scrittore si è
recato per ricevere un premio e per compiere un viaggio in un luogo
per lui così ricco di memorie letterarie e di echi spirituali.
Borges è cieco, lo è da trent'anni. Il suo universo
fisico è ormai da molto tempo un'oscurità attraversata
da rare ombre e brevi lampi di colore, ma popolatissima di ricordi
letterari, di frasi, di versi, di personaggi e soprattutto dei fantasmi
della sua costante, fervida immaginazione. Incontro Borges sulla
terrazza del suo albergo davanti a un nitido mare. La giornata è
radiosa. La primavera, così bizzarra quest'anno anche in
Sicilia, sembra avere fatto un'eccezione per Borges. Lui sembra
bere quella particolare fragranza dell'aria, dice di sentire che
il cielo deve essere azzurrissimo, si volge verso il sole la cui
luce ignora, ma di cui sente il calore e comincia a declamare: "Dolce
color d'oriental zaffiro... Dante, Purgatorio, canto primo",
precisa con un sorriso timido. Il suo amato Dante. La Commedia,
che in gran parte conosce a memoria. Quel verso lo ripete più
volte, assaporandolo. Poi ne cita altri, di D'Annunzio, di Marino,
sempre sul colore del cielo. È la sua maniera di fare omaggio
al paese che lo ospita, recitare i versi dei suoi poeti.
Dalla
prefazione di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Ignazio Buttitta
Sciardelli, Milano 2000
Ignazio Buttitta, un poeta da sentire e da vedere.
Ho
scritto, trentasei anni fa, presentando l'edizione di Lu trenu di
lu suli, che la poesia di Ignazio Buttitta (non tutta, d'accordo,
e non la prima e neppure so dire se la migliore, ma certo quella
che fa di lui un personaggio unico nella nostra cultura) fatica
spesso a esprimersi compiutamente dal freddo della pagina stampata
e reclama il calore della voce. Pensavo, soprattutto, ma non soltanto,
alle « storie» composte da Buttitta per il cantastorie
Ciccio Busacca e non mi era più possibile, dopo aver ricevuto
quei versi recitati e cantati, rinunciare almeno all'evocazione
di quella voce per coglierne l'emozione. E ogni volta, innanzi alla
pagina stampata, emergeva ed emerge prepotente (e anzi aggressiva)
la memoria (ancor oggi così viva) di una sera in una pizzeria
di Bagheria (e c'era anche, molto giovane, Ferdinando Scianna, oltre
che Ignazio Buttitta) con Ciccio Busacca che cantava appunto Lu
treno di Iu sali, con la voce che ora si dispiegava ed ora si rompeva,
ora s'apriva nel canto ed ora si chiudeva in uno straordinario recitar-cantando
e le lacrime agli occhi. E gli occhi lucidi erano anche quelli di
quanti, quella sera, erano con noi in pizzeria e di quanti non erano
che normali clienti, lì capitati per mangiare una pizza.
Ricordo che mentre la storia disgraziata dello zolfataro di Mazzarino
si sviluppava subito mi tornarono alla mente le parole dedicate
da Garcia Lorca alla grande Nina de los Peines, in un'altra straordinaria
notte di Granada.
E
così non posso rileggere la storia di Salvatore Carnevale,
il sindacalista ucciso dalla mafia, senza rivivere le serate al
Piccolo Teatro di Milano, quando appunto - era il 1956 - conobbi
Buttitta, con Ciccio Busacca e Orazio Strano ad emozionare e sorprendere
da un palcoscenico altre sere dedicato ad una così sofisticata
arte teatrale, un pubblico, milanese e borghese, che di quel mondo
dei cantastorie nulla sapeva e neppure aveva saputo, o potuto, o
voluto fin'allora immaginare. Due storie, cantava Busacca, quella
di Salvatore Giuliano, con il testo di Turiddu Bella, e quella di
Salvatore Carnevale, con il testo appunto di Ignazio Buttitta.
Dalla
prefazione di Roberto Leydi |
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Ferdinando
Scianna
Marpessa, un racconto
Leonardo, Milano 1993
Ed.française
Contrejour, Paris 1993
La
prima volta che ho visto Marpessa è stato in una fotografia,
una piccola foto della collezione autunno-inverno del 1987 che,
a Milano, mi mostrarono gli stilisti Dolce e Gabbana. Erano appena
agli inizi di una carriera che sarebbe rapidamente stata di grande
successo e mi avevano chiesto di fare le fotografie per il loro
catalogo. Non avevo mai fatto fotografie di moda. Di moda non sapevo
nulla, ne di modelle. Mi mostrarono queste piccole foto di due ragazze.
Indicai la mia preferenza per Marpessa. Inguainata in un lungo abito
aderente, sprigionava una grande energia.
I vestiti che dovevo fotografare erano ispirati alla Sicilia. Domenico
Dolce è siciliano come me e io, come fotografo, ero stato
cercato proprio in virtù dei miei libri sulla Sicilia. Sono
nato a Bagheria. Lì vivono mia madre e mia sorella. Ed e
lì che decidemmo di riunirci. La sera, per ultima, ci raggiunse
Marpessa. Non riesco a ricostruire con esattezza l'impressione che
mi fece al primo impatto. Mi parve alta, piccolo come sono. Mi colpì
il suo sguardo verde, splendente ma inquieto, imbarazzato, non so
se leggermente sulla difensiva. Forse ero anch'io un po'sulla difensiva.
Ricordo con precisione pochissime cose di quanto è successo
in quei giorni tra Caltagirone, Bagheria, Porticello, Palermo, tutti
luoghi significativi, per altro, della mia infanzia e prima giovinezza
in Sicilia. Memoria precisissima ho invece del sentimento che mi
abitava mentre facevo quelle fotografie. Ed era, quel sentimento,
di sorpresa. Fortissima sorpresa provavo per me stesso, che qualcosa
che non avevo mai fatto prima, e avevo in sospetto, stavo facendo
con passione, con felicità.
Una felicita, tuttavia, intorbidita da una inquietudine, un sentimento
di colpa, quasi stessi violando, e con allegria per giunta, una
regola, anzi, la regola, il grande tabù del mio fare fotografie
fino a quel momento. Perchè nella mia etica ed estetica di
fotografo era legge il rifiuto della messa in scena, della finzione,
di qualsiasi intervento nello svolgersi della vita davanti a me
che non fosse il solo mutamento del punto di vista mediante una
silenziosa, quasi invisibile danza nello spazio, interrotta a tratti
dalla scelta fulminea dell'istante, dello scatto, ad immobilizzare
un frammento di tempo, forse di vita, contestualmente uccisa e salvata
nelle forme che la esprimono.
Adesso, invece, ero lì, a dirigere, a chiedere a Marpessa
di muoversi in un certo spazio, a cercare relazioni con le persone.
Guardando
queste immagini, cominciai a capire che attraverso di esse avevo
tentato un viaggio nella memoria della mia infanzia siciliana, scavando
i resti archeologici dei sentimento della donna quale nei miei primi
anni di vita si era incancellabilmente inciso.
Dalla
prefazione di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Altrove, reportage di moda
Motta, Milano 1995
Impassibile,
il mondo andava per i suoi diversissimi versi. Si muovevano uomini,
donne, bambini, e, in mezzo a loro, si aggirava lui, il fotografo,
pronto a fissarli in un atteggiamento, un gesto, l'adempimento di
un rito, l'abbandono del corpo. Saltellante, si spostava, più
in alto, più in basso, a destra, a sinistra, come un insetto
(la macchina fotografica è parte del suo corpo, con l'intero
corpo, non solo con l'occhio, egli fotografa). Alle figure del suo
balletto solitario, allo strappare ad ogni scatto istanti del mondo,
poteva non essere indifferente la gente in mezzo alla quale si calava
volteggiando. L'importante era rispettare l'imperativo categorico
dei reporter, inseguendo, da puritano dell'obiettivo, il fantasma
della obiettività del reale: non intervenire sul mondo che
vedi, giacché sarebbe un barare con la realtà e con
te stesso.
Era
nel 1987. Dal Nord arrivò una donna, dall'Olanda via Milano,
l'hanno portata Dolce e Gabbana. Marpessa è una modella:
adesso si muove nelle strade di una città siciliana, mischiandosi
a bambini, vecchie vestite di nero, ambulanti e giovinastri che
si voltano. Entra nelle sale da barba, nelle case private. Al campo
visivo sciannesco non sfuggirà più. Non avevano sbagliato
i due giovani stilisti, tra i loro vestiti che s'ispiravano ad antichi
modelli siciliani e le foto di Scianna, molto probabilmente, esisteva
una prestabilita armonia, a tal punto che l'immagine della stessa
Marpessa stava sicilianizzandosi. La figura della modella, prima
che i sarti ne facessero una loro creatura quasi esclusiva, era
stata la donna dei pittori e degli scultori, in un rapporto tra
arte e vita che incuriosiva i borghesi e stimolava la fantasia dei
letterati. Ad una esperienza non priva di analogie ci riporta l'incontro
di Scianna con Marpessa. Per i committenti, lei era la ragazza delle
passerelle e dei rotocalchi mentre per il fotografo, andava, ad
insaputa di ambedue, identificandosi con la modella degli artisti,
in un rapporto che D'Annunzio e Pirandello, ciascuno a suo modo,
avevano finto di rappresentare, forse per meglio mistificarlo.
Sempre
tra chi crea e la sua modella, anche se questa è una idea
platonicamente interpretabile come nel mito di Pigmalione, irrompe
l'irrazionale. La modella non è un docile strumento, una
pura passività: affascina, lega a sé e con sé
trascina. Ciò può avvenire non solo sulla tela o nella
creta, ma anche nel mirino di una macchina fotografica.
Dalla
prefazione di Claude Ambroise |
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Ferdinando
Scianna
Viaggio a Lourdes
Mondadori, Leonardo Arte Srl, Milano 1996
Ho
sempre avuto, come fotografo, una grande passione per fotografare
la gente in situazioni di ritualità sociale o religiosa.
Il mio primo libroFesteReligiose in Sicilia, con un testo memorabile
di Leonardo Sciascia, raccontava quel mondo e quelle situazioni.
Avevo meno di vent'anni e uscivo da un'educazione cattolica. Dico
uscivo, perché, dopo la prima giovinezza il mio rapporto
con il sacro si è molto allontanato da ogni pratica ecclesiale
per diventare esclusivamente interrogazione personale, privata.
Ma una festa, un pellegrinaggio sono sempre un grande momento di
celebrazione del sentimento collettivo di una comunità. È
questo che soprattutto mi interessa. Ed è forse per questo
che trenta e più anni dopo quel mio primo libro sulle feste,
pellegrinaggi e manifestazioni religiose in Sicilia ho voluto misurarmi
con uno dei luoghi chiave del cattolicesimo: Lourdes. Una delle
ultime cose che ha detto mia nonna, come un rimpianto, è
stato: "E non sono nemmeno andata a Lourdes!" Mia nonna
è morta e io sono dunque andato a Lourdes al posto suo.
Con spirito libero, spero, da ogni pregiudizio, sia religioso che
antireligioso. Soltanto il mio occhio, la mia macchina fotografica
e una appassionatavolontà di capire. La mia idea del capire,
oggi, che ho cinquan
taquattro anni, non è, non più, tesa esclusivamente
a trovare risposte certe. Ormai so che per ogni domanda posta si
hanno in ritorno molte nuove interrogazioni. Nel mio Viaggio a Lourdes
di nuove domande ne ho trovate parecchie.
Testo
di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Città del mondo
Bompiani, Milano 1988
Ha
scritto Paul Klee che la creazione vive come genesi sotto la superficie
visibile dell'opera. A ritroso la vedono tutti i dotati d'animo
gentile. Nel futuro, solamente i creativi. E questa un'affermazione
che nel suo significato essenziale si attaglia bene al lavoro fotografico
di Ferdinando Scianna, ed io l'adotto come seconda epigrafe per
corroborare quella del nostro conterraneo Vittorini. L'adotto per
mischiare, per misturare, natura e artificio, oggettività
e linguaggio, cioè per fare la stessa operazione, o quasi,
che fa Scianna in mille e mille risvolti del giorno e della notte,
tagliando le immagini come si può tagliare un cordone ombelicale
reso inutile dall'avvenuta nascita.
La sua è una chiamata alla vita, una decantazione del particolare
dal tutto, un'elegia del particolare che diventa un tutto significante,
suggestivo e carico di tensione formale.
New York, Los Angeles, Chicago, Parigi, Milano, Madrid, ma anche,
Lione, Napoli, Bergamo, Nashville, Montecarlo e altre città
del mondo e luoghi dell'anima, marchi indelebili impressi in un
giorno, in un mese, in un anno, e poi in un altro giorno, in un
altro mese, in un altro anno, per vedere cosa è cambiato,
cosa non è cambiato.
Città come specchi, come riflessi di quello che siamo, di
quello che non siamo. Riflessi delle paure e delle gioie, di quello
che vorremmo avere e di quello che non vorremmo avere. Città
dove ogni giorno si scorre la vita e si scorre la morte. Città
imprigionate. Città immortalate. Città giocate. Imbrogliate.
Esaltate. Annullate.
Dalla
prefazione di Francesco Gallo |
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Ferdinando
Scianna
Dormire forse Sognare
ART'&,Udine 1997
To
sleep, perchance to dream
Phaidon,London 1997
Questa
mania di fotografare gente che dorme l'ho scoperta per caso una
quindicina di anni fa. Voglio dire che per caso mi sono reso conto
che ero, come fotografo, e senza averne coscienza, preda di questa
piccola ossessione. Non trovavo un negativo, come spesso capita
ai fotografi disordinati, e per cercarlo fui costretto a fare uno
di quei viaggi che tanto pavento tra i raccoglitori delle stampe
a contatto dei negativi del mio archivio. Se la realtà è,
come io credo, lo specchio del fotografo, e non viceversa, ripercorrere
le decine di migliaia di immagini in tanti anni ricevute attraverso
la macchina fotografica è come verificare, in un certo modo,
quella terribile ipotesi di film immaginata da Vitaliano Brancati
: una immagine al giorno del volto di un uomo, dalla nascita alla
morte, per farne alla fine la vertiginosa proiezione di una vita.
Ma questa vita è la tua. Perchè il dormire, mi hanno
domandato, mi domandano?
Mi interessa ritrovare nelle mie fotografie un fatto così
naturale, così quotidiano, cosi universale e che pure è
rimosso, al quale ci si abbandona quasi di nascosto, di solito in
luoghi protetti, perchè sappiamo che ci consegna inermi all'arbitrio
altrui. C'è vita e morte nel sonno e nella fotografia. Tuttavia,
la paradossale immobilizzazione di istanti immobili di animali o
esseri umani dormienti non ha nulla a che vedere con una natura
morta: ognuna di queste fotografie parla di vita.
Se non c'è sonno non c'è vita; lo sanno bene gli insonni
o i mal dormienti che tanto desiderano dormire. Non sapremmo nemmeno
che cosa significa essere svegli e all'erta se non ci fosse il sonno.
Un uomo che dorme è un uomo vivo. Perchè il sonno
non è soltanto il tempo del riposo, è anche la porta
per entrare, o uscire, nell'oceano immenso del sogno, che c'è
chi pensa sia la forma più intensa della vita.
Prefazione
di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Obiettivo Ambiguo
Testi sulla fotografia e i fotografi
Rizzoli, Milano 2001
Faccio
fotografie da quarant'anni. Dalla Sicilia a Milano, a Parigi, dall'adolescenza
ai miei cinquantasette anni di oggi, la fotografia è stata
e continua ad essere per me una passione, la conquista di un linguaggio,
l'occasione di incontri, lo strumento di un'avventura umana.
Ho
avuto, come fotografo, fortuna credo superiore ai mie meriti.
Non
si esercita un mestiere vissuto come passione senza riflettere sul
senso di quello che si fa, senza costantemente confrontarsi con
se stesso e con i propri numerosi maestri, senza vivere ed esprimere
i propri entusiasmi e le proprie idiosincrasie.
Così,
da quasi altrettanti anni, scrivo, anche, di fotografia e sulla
fotografia, sui fotografi soprattutto.
L'ho
fatto in maniera sporadica ma in certi periodi anche sistematica,
sull'Europeo, su Photo, sulla QuinzaineLitterarie, suLui, Lei, sul
supplemento culturale del Sole 24 ore, su vari giornali e riviste,
per conferenze, seminari e corsi universitari.
La
disposizione dei testi scelta per questo libro nasce in parte dall'avere
scoperto, rileggendoli, che molti di essi corrispondevano a ricorrenti
tematiche e a piccole ossessioni.
Quanto
ai fotografi, Cartier-Bresson apre la lista non soltanto perchè
lo considero il più importante fotografo del secolo e mio
maestro per eccellenza, ma anche perchè la sua visione della
fotografia mi ha fornito molti degli strumenti critici con cui oriento
ammirazioni e dissensi. Segue Giacomelli, amico da poco perduto,
perchè il suo modo di procedere come fotografo non avrebbe
dovuto a priori incontrare il mio gusto e la mia adesione e al contrario
considero molte sue immagini tra i risultati più alti della
fotografia.
Questo mi ha stimolato a liberarmi da certi pregiudizi. Gli altri
li ho disposti secondo arbitrari raggruppamenti o seguendo i sinuosi
labirinti del caso, dei tanti innamoramenti, di qualche rifiuto,
cercando di disegnare il ventaglio delle mie passioni.
Non
ho cambiato i giudizi che esprimevo quando ho scritto gli articoli,
anche se su qualche fotografo, rispetto alle opinioni che ritrovo,
sono scemati gli entusiasmi e su altri vado rivedendo le riserve.
Ma se qualche volta ritrovo mutato un poco il gusto, mi sembra siano
rimasti costanti i criteri del giudizio.
Non
pretendo affatto che questi scritti abbiano il senso di un'attività
di critico fotografico. Non sono nemmeno un repertorio esaustivo
dei fotografi che amo. Troppi ne mancano, classici e contemporanei,
piccoli e grandi, per i quali non soltanto nutro ammirazione e amicizia
ma considero maestri.
Quasi
sempre questi articoli sono stati occasione per chiarire a me stesso
come cambiavano o si confermavano le mie opinioni rispetto a certi
problemi, per definire il giudizio sul lavoro degli altri, per cercare
di capire il mio, per "situarmi" rispetto al mio mestiere
e al mondo, per comunicare le mie ammirazioni, per polemizzare,
qualche volta, e non soltanto sulla fotografia. Perchè la
fotografia - linguaggio centrale, io credo, della modernità
- non è soltanto un modo di vedere, ma di sentire anche,
di pensare il mondo e la vita.
È
questo il senso che per me ha scrivere, specialmente, si capisce,
a proposito del mio mestiere.
Dopo
molti anni, dunque, ho deciso di mettere insieme una parte di questi
articoli in un libro. Il titolo, Obiettivo ambiguo, l'avevo trovato
insieme a Leonardo Sciascia, mio angelo paterno, per una rubrica
che mi era stata proposta da una rivista. Mi sembra che assomigli
un poco al filo conduttore, se ce n'è uno, che si potrebbe
tirare fuori da queste riflessioni.
Ttto,
diceva Alberto Savinio, prima o poi finisce in un libro.
Dalla
prefazione di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Il grande quadro, storia di una mostra
Tabanelli, Milano 2002
In
definitiva, in che cosa consiste il mio lavoro di fotografo? Guardare
cercando di vedere. Guardare sperando di vedere. Le proposte, mi
dico, sono occasioni che bisogna sapere cogliere, oltre che rifiutare.
Un artista, Sandro Martini, una mostra, un grande quadro, inusuali
ricerche di immagini incise, un racconto. Questa è la proposta.
E io, il fotografo, che faccio? Mi torna in mente una frase di Puskin,
dimenticata da oltre trent'anni, che avevo visto sul muro dello
studio romano di Guttuso; "Racconta e non fare il furbo".
A un certo momento mi rendo conto che Martini ha incluso anche me
nel suo paesaggio rituale. I miei gesti li usa come "riflesso"
di quel referente cui tutto contribuisce: il lavoro di Luca, le
sue tacite approvazioni o suggerimenti, le cazzate che dice la radio
accesa o che dico io e a cui Sandro reagisce, e la mia presenza
di fotografo, naturalmente. Un artista sente tutto, vede tutto,
tutto mastica e digerisce, di tutto opportunisticamente si serve
per quello che sta facendo. Lo spettatore c'è sempre, presente
o futuro, reale o potenziale, a verificare la vanità dell'autore,
o il bisogno di comunicare, che forse sono la stessa cosa. Altrimenti
non ci sarebbero opere. Agli artisti basterebbe pensarle e sognarle.
Ferdinando
Scianna
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Ferdinando
Scianna
Mondo Bambino
Arte a Stampa, Milano 2002
Niños
del mundo
Domus, La Corona 2000
I
bambini ci guardano. Ce ne avvertì Zavattini.
Li guardiamo, dunque, i bambini. Ma come li guardiamo? E soprattutto:
li vediamo? Sappiamo vederli?
È una domanda che mi sorge un po' inquieta nel riguardare
le cento fotografie che ho scelto per comporre questo volume. Ho
fatto anch'io, moltissime ancora ne faccio, troppe fotografie da
papà fotografo per non sapere che la maggioranza di quelle
immagini non raccontano tanto i nostri bambini, quanto piuttosto
costituiscono messe in scena dell'idillio, gesti rassicuranti per
noi stessi, su come noi immaginiamo che essi siano, i bambini, su
come vorremmo che fossero i nostri rapporti con loro. Immagini per
tentare di esorcizzare o occultare il fatto che i bambini anche
loro ci guardano, assai probabilmente ci vedono, e impietosamente.
Non quella domanda dunque, ma la domanda che può porsi uno
che il fotografo lo fa di mestiere da quarant'anni e ogni tanto
recupera, per un libro, per una mostra, fra centinaia di migliaia
di scatti i pochi che spera si siano salvati dal naufragio nella
bruttezza o nell'insignificanza.
Che
cosa è dunque che rende tanto interessante, appassionante
il variegato e contraddittorio mondo dei bambini, che ce li fa guardare,
osservare, esplorare senza tregua? L'inesauribile spettacolo che
per oltre quarant'anni non ha mai cessato di affascinare la mia
curiosità di uomo e di fotografo? Ecco, io sono andato convincendomi
che la ragione sta nel fatto che ogni bambino, ogni suo gesto di
vita contengono uno straordinario potenziale di racconto, di romanzo.
Già Valery, proprio parlando di fotografia, disse che tutto
il resto, ovvero tutto ciò che sta oltre il visibile, è
letteratura. Roland Barthes commentando una fotografia di Andrè
Kertesz in cui vediamo un bambino fotografato all'inizio del secolo
al suo banco di scuola ungherese non può impedirsi di chiedere:
ma come sarà stata la sua vita? Che uomo sarà diventato,
che cosa avrà fatto? È morto, vive ancora? Che romanzo!
Già, che romanzo!
Dalla
prefazione di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Quelli di Bagheria
Galleria Gottardo, Lugano 2002
Quelli
di Bagheria
Peliti Associati, Roma 2003
Ricordare è lo stesso che immaginare
Federico Campbell El Alfabeto Morse
Ho
visto finire e cominciare un mondo, e i caratteri contrari di questa
fine e di questo inizio sono mescolati nelle mie opinioni. Mi sono
trovato tra due secoli come alla confluenza di due fiumi.
Chateaubriand:Memorie d'oltretomba
Solo
chi ha un villaggio nella memoria può avere una esperienza
cosmopolita. Ernesto De Martino Da un'intervista radiofonica
Chiesero
a Guttuso: "Come si chiamano gli abitanti di Bagheria?"
Ci chiamano in due modi, rispose: Bagheresi o Baharioti. Non so
che differenza ci sia, ma io sono baharioto.
Finché
non ho scoperto che a Bagheria, in provincia di Palermo, il mio
odiatoamato paese, in quello spazio di poco più di dieci
chilometri quadrati dove ho vissuto praticamente senza mai muovermi
fino alla prima giovinezza - che non era solamente un luogo fisico
ma un davvero ben particolare, dolce e terribile "luogo dell'anima"
- avevo fatto tante fotografie, ben più numerose di quanto
non sospettassi, e ben da prima che scoprissi l'incomprensibile
"vocazione" di fare il fotografo. Fotografie che per una
strana rimozione avevo quasi dimenticato senza dimenticarle affatto,
sapendo benissimo che c'era quella cassettina di legno che aveva
contenuto bottiglie di vino e che nella cassettina c'erano - e vi
sono rimasti per oltre trent'anni - molti dei miei primi negativi,
tenuti alla rinfusa e dei quali spesso non avevo nemmeno stampato
i contatti.
Ho
sempre considerato molle, ipocrita, fortemente egoista la nostalgia.
Non mi appartiene. Mi appartiene, invece, e mi sembra di scoprirla
anche nelle mie fotografie più vecchie, ancora adolescenziali,
la consapevolezza di avere vissuto -che in quegli anni stavo vivendo-un
passaggio storico e culturale epocale. È ormai un luogo comune,
già approdato alle definizioni storiche del nostro tempo,
che in questi quarant'anni la vita delle persone, il loro paesaggio
fisico e culturale, di conseguenza la loro maniera di essere, pensare,
sentire, è cambiata più che nei precedenti duemila.
Al tempo lento e lungo si è sostituito il tempo tecnologicamente
e forsennatamente accelerato che stiamo ancora vivendo.
Ne conosco che ne sono impazziti.
Io
credo nella memoria. Potrebbe uno che fa il fotografo non crederci?
A parte tutto, mi è sembrato, recuperando certe immagini,
che dentro ci fosse già tutto quello che ho continuato a
fare nei successivi quarant'anni,
Ma non si ricorda solo per se stessi, si ricorda per tutti.
Ho tentato con questo libro, che mi è sembrato il più
difficile fra quanti ne ho fatti, ma anche il più appassionante
da fare, e spero anche il più sincero, di scavare, come Sciascia
suggeriva, nella "camera oscura" della memoria attraverso
le mie stesse fotografie, riportandone frammenti verbali a loro
volta simili a istantanee.
Ho cercato di ricostruire, di immaginare, il mio paese, la mia infanzia,
la mia adolescenza, in quel tempo, in quel luogo.
Dalla
prefazione di Ferdinando Scianna |
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Ferdinando
Scianna
Sicilia Ricordata
Rizzoli, Milano 2001
Fotografare
la Sicilia è per me quasi una ridondanza verbale. Ho cominciato
a fotografare intorno ai diciassette anni e la Sicilia era là.
Ho cominciato a fotografare perché la Sicilia era là.
Per capirla e attraverso le fotografie per cercare di capire, forse,
che cosa significa essere siciliano. Interrogazione ossessiva questa
dei siciliani su se stessi e la terra cui appartengono. Interrogazione
che continua, forse ancora più ossessivamente, quando dalla
Sicilia si va via. E andarsene via ed essere siciliani è
stato per tanto tempo, molto lo è ancora, quasi la stessa
cosa.
Quando si parte comincia il rovello della nostalgia, della trasfigurazione
dei ricordi, dei ritorni tanto più sognati quanto più
impossibili. Fino a trasformare tutto questo in rancore, quasi in
un'altra fuga. Si cerca di dimenticarla la Sicilia buttandosi ad
interrogare ed esplorare il mondo per poi scoprire che lo sguardo
che posiamo sul mondo è inequivocabilmente quello dei tuoi
occhi di siciliano. Per me, forse per tutta la generazione cui appartengo,
il tema del ricordo credo fosse, per quanto affatto inconsapevole,
presentissimo anche quando ci vivevo in Sicilia. Ancora di più
dopo avere incomprensibilmente incontrato la fotografia, così
inestricabilmente legata al sentimento struggente di ciò
che scompare.
Non soltanto sapevamo che saremmo andati via, ma anche intuivamo
che il mondo che stavamo per lasciare anche lui sarebbe andato via
e sarebbe scomparso per sempre. Così è stato. Il ritorno
è diventato doppiamente impossibile. Noi siamo cambiati e
la nostra Itaca è scomparsa, come l'illusoria isola Ferdinandea.
C'è quella di oggi, certo, viva, forte, tragica, nostra anche
questa. Ma quella che ci ostiniamo a cercare è l'altra, quella
che non c'è più, quella cui senza rimpianto alcuno
apparteniamo. Sicilia ricordata, dunque, declinata fin da subito
"all'imperfetto dell'obbiettivo".
Dalla
nota di Ferdinando Scianna
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