Home page Galleria

.....L'autore | La figura | L'opera


Ecco come ad es. un punto può diventare la matrice di un volto

 

 

 

 

 

 


Con Marcello Mascherini - Mostra al Castello di Trieste

 

 

 


Sovracoperta di Dorfles per il numero di ottobre 1954 della rivista "Documenti d'Arte d'Oggi"

 

 

 


Gillo Dorfles con Marco Zanuso

 

 

 

 

 

 


Con Lucio Fontana alla Galleria l'Indiano
Mostra di Fausta Squatriti - Milano 1964

 

 

 

 

 

 

 

 


Con Giulio Carlo Argan al PAC
di Milano nel 1984

GILLO DORFLES

Ecco come ad es. un punto può diventare la matrice di un volto.
Raffaele D'Andria

Un fattore generativo ed auto-propulsivo. È questo, forse, l'aspetto che maggiormente, oggi come in passato, sottende il rapporto tra Gillo Dorfles e la sua opera pittorica – opera ormai ben conosciuta in sè e nel suo valore di originalità, affermatasi in parallelo con l'attività di critico militante e di estetologo, ma soprattutto di critico del gusto. Ed è un rapporto, per altro, dialogico ed osmotico in tutte le sue direzioni, sempre contraddistinto – occorre dirlo a definizione immediata di un tale fattore – da una stretta adesione trascrittiva dell'immaginario di Dorfles, se non del suo istinto, a tutti gli elementi del fare pittorico. Negli spessori dei segmenti, nei percorsi delle linee ondulate a nastro, nell'estensione delle campiture ameboidi, nello stridore per contrasto dei colori o nella loro uniformità, l'adesione segue sempre procedure imprevedibili e spontanee. Indotte da un certo automatismo - al quale non è estranea la conoscenza della "scrittura" surrealista -, queste ultime innescano, con combinazioni varie, sia l'inseguimento del segno da parte dell'artista e viceversa, sia lo scavalcamento e la collisione tra segno e segno su perimetrazioni intersecanti e su concatenamenti nitidi (non senza un sentimento di piacevole ed elegante gioco, di sottile e provocatoria ironia, proprio della personalità di Dorfles).
All'interno di tali procedure ed annodato ad esse, vi è quindi una sorta di filo illogico degli elementi – eosi lo definisce Paolo Campiglio, in una recente riflessione –, un filo che entra ed esce spesso all'insaputa dell'autore, dall'intima trama del dipinto, che ne in-forma la consistenza e ne orienta le aperture di `crescita figurale', in una condizione di continua instabilità dell'equilibro compositivo. Per altro, lungo tale filo, il dispiegamento degli elementi pittorici, anche quando sono tracciati con una più o meno esplicita allusione di figuratività (e lo sono quasi sempre, onde evitare di "cadere in una forma di nuclearismo e di informale"), svuota questi stessi di ogni possibile senso rappresentativo o contenuto simbolico, per rivendicare le inter – relazioni nella loro paura autonomia, per qui essi sono, e nell'essere tendono a significare; e questo, in coerenza con quel concetto di Arte Concreta teorizzato da Dorfles a partire dal 1948, sul riferimento alle contemporanee esperienze europee. A quell'anno, infatti, risale – come è ormai ampiamente noto, ma è sempre opportuno ricordarlo – il Movimento Arte
Concreta (MAC), la cui costituzione, decisa con personalità molto eterogenee tra loro, se non contraddittorie, come Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet, veniva motivata dall'esigenza di assumere una posizione di contrasto con la "tanto diffusa voga dell'astrazione" di matrice geometrico-costruttivista e neoplasticista.
Al contrario di quest'ultima, l'Arte Concreta – ebbe a dire Dorfles presentando la mostra di Galliano Mazzon alla Libreria Salto di Milano – "è basata soltanto sulla realizzazione e sull'oggettivazione delle intuizioni dell'artista, rese in concrete immagini di forma/colore ...: (immagini) miranti a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è così ricco il mondo dei colori –.
Qualche anno dopo, rispondendo ad alcune domande poste da Tristan Sauvage, Dorfles sarà ancora più esplicito. "La mia pittura – dirà – trae la sua ragion d'essere, come è ovvio, da un'intima necessità di manifestare, attraverso un mezzo espressivo a me congeniale, le immagini che affiorano alla mia mente; in altre parole di visualizzare le più urgenti espressioni conscie ed inconsce che mi si affaccino. Per questa ragione la mia pittura è sempre stata orientata secondo un modulo grafico-plastico lontano da ogni razionalità e da ogni costruttivismo". E nel merito della sua collocazione, pur respingendo "le distinzioni in ‘scuole’ e ‘correnti’ (che non possono essere che arbitrarie e di comodo), egli preciserà di appartenere "a quella corrente di concretismo (o astrattismo che dir si voglia) organico e non geometrico"'.
[…]
Grande interesse, però, suscita l'intervallo allorquando si approssima a quella figura teorico-metodologica che è stata definita come campo compositivo – quasi per effetto di un involontario ricalco della Teoria della polarità, espressa da Paul Klee. Omologo al campo d'immanenza di natura filosofica, il campo compositivo è anch'esso una figura che esprime – secondo Gilles Deleuze e Fèlix Guattari, a cui si deve la definizione – una condizione ‘pre-filosofica’ e ‘pre-concettuale’ nella quale non si predispone la compiutezza dei concetti, bensì la loro dinamica, il movimento nell'infinitezza del finito. Proprio perchè il campo compositivo – si può precisare, sviluppando l'analogia – "è prefilosofico e non opera già con i concetti, esso implica una sorta di sperimentazione" in cui si danno solo eventi, tensioni, energie, in cui "il pensiero non pensa ancora". Un gesto supremo, d'altro canto, sarebbe "non tanto pensare il piano di immanenza (o il campo compositivo), quanto mostrare che esso è là (...). Pensarlo come il fuori e il dentro del pensiero, il fuori non esterno o il dentro non interno". Nel caso delle opere di Dorfles, questo gesto è certamente presente; e lo è nella consegna dell'intervallo alle distinte pulsioni e posizioni delle campiture, così come si attestano nel corso del loro divenire formalizzante.
Dietro le opere di Dorfles, tuttavia, non c'è solo il riflesso dell'Arte Concreta e del MAC; altri ne sono presupposti e altri ne conseguono, in ragione di quegli articolati riferimenti culturali la cui amplificazione negli anni ha delineato l'Erlebnis-Errfahrrng dell'autore. Un primo riflesso – come è ormai noto – è quello derivante da una giovanile esperienza di conoscenza per l'antropo-teosofia teorizzata da Rudolf Steiner. Realizzata nel 1934, durante un soggiorno a Dornach, nei pressi di Basilea, essa si determinò sulla finalità di porre ascolto ad un ciclo di conferenze tenute dagli allievi del filosofo austriaco, morto nel 1925. L'interesse di Dorfles, in parte polarizzato anche dalla qualità dei dipinti visti in quella sede, fu, però, "prevalentemente" – anzi, all'inizio, esclusivamente – teorico e critico. La caratterizzazione che ne conseguì fu una stesura fluidificata e mobile del colore, nelle cui sequenze di riverberi si scioglieva e sconfinava qualsiasi principio di distinzione, prevalendo la pura immaginazione della metamorfosi e del divenire. La caratterizzazione, inoltre, trovò un rispecchiamento nei titoli, anch'essi visionari, tra i quali, Paesaggio con volto umano, 1934, Entità benefiche e malefiche, 1935, Croce lunare, 1935, Due forze avverse, 1935, Forma blu console, 1935, Montagna incantata, 1936 Larve azzurre. 1937, Metamorfosi, 1938. Sono titoli – lo si constata subito – dietro i quali agisce una cosmologica di ispirazione steineriana, rivolta ad affermare il bisogno teleologico di un superamento della condizione degli opposti e degli inconciliabili, per pervenire ad una fusione intima e molecolare degli stessi – nel nucleo fenomenico della quale, su una totale assenza del tempo, simile a quella del mito al suo primo formarsi, è racchiusa l'unità spirituale dell'uomo con la natura, sentita e vissuta nella profondità dei suoi ritmi.
Tra gli avvenimenti, di grande importanza sarà la mostra Arte astratta e concreta tenutasi a Milano nell'inverno del 1947, sullo sfondo di vivaci fermenti culturali. Questa mostra, infatti – che era stata preceduta da quelle del 1945 e del 1946, rispettivamente presso le gallerie milanesi Bergamini e Ciliberti, e sarà seguita da quella ‘storicizzante’ organizzata da Max Bili nel 1960 – darà la possibilità di osservare una prima ed ampia panoramica delle tendenze nazionali ed internazionali.
Furono infatti esposte opere di Kandinskij, Vantongerloo, Vordemberge, Gildewart, Herbin, ma anche Arp, Bill, Klee, Bodmer, Graeser, Hinterreiter, Leuppi, Lohse, affiancate a quelle degli italiani Licini, Munari, Rho, Veronesi, Sottsass. Tali opere misero in evidenza sia le discontinuità e le continuità rispetto al recente passato, sia le potenzialità insite nelle nuove quanto diversificate posizioni della ricerca artistica del momento. In tale occasione, come era già evidente, Dorfles si riconfermerà più ampiamente nell'evoluzione dei suoi connotati di personalità, mostrando una pittura fatta di "immagini fantasticamente diramate, dove sono individuabili assonanze (...) e sintonie quanto mai tempestive con il clima europeo".
Ma prima ancora degli avvenimenti a cui si è accennato, che daranno spessore alla formazione di Dorfles, questa stessa era già decisamente attestata, anche dal punto di vista teorico, sul riferimento ad alcune personalità fondative delle avanguardie storiche e a quelle che ne prolungavano e ne rielaboravano i contenuti linguistici. Presenti sul tratto che si snoda dal Futurismo al Surrealismo, dalla Metafisica all'Astrazione, tali personalità costituirono una sorta di campo d'immanenza all'interno del quale fu possibile a Dorfles avviare l'esplorazione delle proposizioni artistiche, e con esse alle molteplici influenze ed intersezioni. Queste riguardarono, in particolare modo, le personalità di Van Doesburg, Kandinskij, Klee, Mirò, Arp; ma anche il trapassamento verso quelle di Tanguy, Kupka, e di altri, per non dire quelle di ambito nazionale.Se si vuole un riscontro a ciò, esso è tutto nelle assonanze e nelle frequentazioni stilistiche indotte; è – per dare un'indicazione di fondo – in tutte quelle opere nelle quali Dorfles applica lo stesso automatismo trascrittivo-metamorfico, o quasi, che consentì a Yves Tanguy e ad André Masson di realizzare, negli anni Venti, i Cadavres exquis.
Altrettanto determinanti, però, saranno per Dorfles le personalità di Kandinskij e di Klee. Osservate direttamente già nel 1929. in occasione di una mostra in Germania, le loro intersezioni riveleranno sia una comunanza di sensibilità per l'astrazione e per una fenomenologia rivolta ad una "merce volonté de dépasser les frontières expressives", sia le reciproche divaricazioni di metodo e di risoluzione linguistica.
[…]
E sarà proprio su una processualità così intesa che Dorfles concentrerà la sua attenzione, spostandone però l'accento sugli elementi formali e formativi che la rendono possibile; che vedrà, in particolare, l'insorgere della linea come vettore-valore temporalizzante, dotato della capacità di pro-durre la dinamica spaziale del campo compositivo: di intro-durre in esso le condizioni proprie del suo da farsi in un totale vuoto di storia. È quindi sulla linea e sulle modalità di attraversamento del campo compositivo che egli realizzerà il maggiore e forse più vero contatto con la poetica di Klee,artista – è bene ricordarlo – la cui produzione grafica supera di molto quella pittorica. In altri termini, è a partire dall'esempio di Klee – e dalle sue avventure di linee, per dirla con Henry Michaux – che Dorfles condividerà quel modo di "disegnare senza avere in mente alcun soggetto preciso", facendo un corto circuito tra la mano e l'occhio, innescato da "uno stimolo iniziale ed inconsapevole". Di conseguenza, pur nell'evidenza dei diversi presupposti teorici e metodologici, la linea di Dorfles tenderà a muoversi come un sismografo, creando liberamente ed apertamente un percorso di eventi in divenire, ricco di accidentali somiglianze.
Si vedano, quindi, i disegni, soprattutto quelli più recenti. Si veda, ad esempio, tra i tanti, quello in cui la frase-titolo – Ecco, ad es. come un punto può diventare la matrice di un volto – compare come condizione di sviluppo della linea. Questa, generata da un punto fermo – che è lo stesso nel quale Klee individua l'agente del movimento originario e dal quale deriva la ligia con le sue "aforistiche ramificazioni", – si curva, si spezza, si ricurva ancora, mostra i suoi profili e conquista la misura del campo compositivo; alla fine rilevando ed inglobando la frase-titolo, si trasforma in un volto amebico: in una matrice di volto (scimmiesco, mostruoso).
A volte, però, la linea può essere generata da una lettera: ad esempio, da una Z che si prolunga per caduta formando delle piccole rientranze quadrate e delle sacche, di cui l'ultima è una dilatazione allusiva. Qui la linea si ricarica per una risalita verticale e per un intreccio con la precedente, a meno di un'improvvisa deviazione sotto forma di freccia nel tratto finale, in prossimità di una d minuscola con il numero 80, che è la sigla dell'autore e l'anno del disegno.
Questa d può anche costituire una sorta di leva iniziale nello svolgimento in risalita della linea. Anche in questo caso, essa si avvolge e forma delle anse, perde dei pezzi, si riavvolge ancora con un'inversione direzionale; così, nel tratto ultimo, forma un vaso-cuore dal quale fuoriesce una freccia – forse un inconscio ripensamento al mito eterno di Cupido. Si sarà notato, però, che in questi disegni, come in tanti altri, quasi sempre il percorso della linea è riconducibile a due movimenti o azioni motorie essenziali: il primo è di libera ‘andata’ o di ‘discesa’, con la realizzazione contestuale di un campo compositivo e del suo svuotamento rispetto ad ipotesi narrative di varia natura: ed è quindi un movimento desemantizzante. Il secondo, invece, di ‘ritorni’ o di ‘risalita’, impresso sul primo, se non da esso condizionato, è decisamente ri-semantizzante, essendo rivolto a molteplici aperture della trama segnica, con relativi effetti estetici. E tra le tante aperture – oltre quella che legge nel percorso della linea una sorta di continuità infinita, per cui essa si propone come il filo illogico che attraversa tutti i campi compositivi della grafica di Dorfles, andando anche oltre la stessa – vi è quella orientata verso un ritorno di più ampia portata, connotato da una ri-semantizzazione di risvolto, di piega. Ed è questo ciò che ottiene Dorfles – che così si offre nel contempo ad una risottolineatura delle coordinate complessive della sua formulazione, di materiale minino, nel quale convergono tutti i ‘ritorni’ della sua produzione grafica. Per materiale minimo – che è, ovviamente, un concetto estetologico valido per ogni artista, sia esso pittore o scultore, poeta o scrittore, attore o musicista – Dorfles intende lo schizzo, l'abbozzo, il non-finito, l'embrionale, il magmatico: tutto ciò che "può diventare la vera matrice di qualcosa di più – e forse di meglio – dell'Opus Magnum: il Poema, la Statua, il Romanzo, la Sinfonia. "Tutte le scorie che lo scrittore strappa al suo poema o al suo racconto; tutti i minuti arabeschi che il pittore cancella con le sovrapposte stesure del colore; tutti i ripensamenti poetici, musicali, pittorici, che rimangono lettera morta destinata al cestino dell'immondizie, sono invece spesso le uniche germinali intuizioni da cui può prendere l'avvio l'opera autentica. È allora, in questo intervallo tra il momento ancora miocinetico del gesto e quello ponderato della costruzione che si cela – non sempre ma spesso – l'unica traccia di quel tempuscolo o corpuscolo di nuovo, di genuino, di automatico, di cui noi stessi non c'eravamo accordi, ma che costituisce l'unica autentica base d'ogni nostra successive creazione". Il concetto di materiale minimo, tuttavia, non è assoluto nè limitato o limitante; bensi, esso ne contiene al suo interno altri, come quello della pausa intervallare, che è cosa evidente se solo si considera la problematicità del rapporto tra il materiale e l'opera finale a cui esso tende, che non è necessariamente quella compiuta; come quello, soprattutto, della contaminazione, che avviene anche sul semplice accostamento paratattico del segno all'immagine, della parola al segno, del suono alla parola pittore che non osa scrivere, lo scrittore che non osa disegnare, spesso riesce a ritrovare nel linguaggio che non gli è proprio, di cui non è schiavo (per antico mestiere o cristallizzata consuetudine) quella freschezza di espressione che solo l'ingenuo o l'inesperto possiedono. E il ritorno al naif dell'impervoluto; è la rivincita dello sgrammaticato, dell'asintattico, dell'ambiguo". In parallelo e a sostegno del concetto di materiale minimo, Dorfles ha realizzato anche un disegno-testo, in cui l'uno è forma e contenuto dell'altro. Coerente nella contiguità con il Der Hut di Beuys, o con il Dollar sign di Andy Warhol, o con la figura abbozzata di Samo (Basquiata J. M.), o con quella schizzata da Mimmo Paladino, esso consiste in una linea discendente curva che si trasforma in parole – un minimo di contaminazione / tra parola e immagine, tra Simmetrico e Asimmetrico, tra minimo – appunto – e massimo / non può realizzarsi che attraverso / l'espandersi del segno verbale / un segno grafico che non ne / sia l'equivalente, ma il proseguimento".
Le parole, a loro volta, si trasformano in un impreciso animale fantastico, che è una sorta di cavallo marino-drago-cervo-renna ottenuto su una sequenza di curve concave e convesse, terminanti con una voluta e con una d, affiancata all'anno 80. Non si può tralasciare, infine, un piccolo materiale minimo che è un disegno en marge, ma non per questo meno significativo, rappresentante una specie di figura alata, ottenuta con un tratto rapido, quasi infantile. Depositaria di un pensiero a fumetto – il sincronico batterà sempre il diacronico –, la figura è quindi un anghelos, vale a dire un `messaggero'. Come tale, essa rimanda alle immagini e ai disegni di angeli che percorrono insistentemente l'opera di Klee; rimanda, in particolare, a quell'Angelus Novus che, acquistato da Walter Benjamin nel 1920, ne accompagnerà l'infelice esistenza come oggetto di meditazione. Per Benjamin l'Angelus Novus di Klee è soprattutto quello della storia, il quale ha il viso rivolto al passato. Ma non solo: laddove "davanti a noi appare una catena di eventi, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre i frammenti. Ma dal paradiso soffia una bufera (...). Questa lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre il cumulo delle macerie cresce verso il cielo davanti a lui. Ciò che chiamiamo il progresso è – dice Benjamin – questa bufera. La figura dell'angelo, quindi, naufraga rovinosamente `nell'immanenza della storia', che è per sua definizione diacronica. Solo un balzo – che Benjamin intravede nella rivoluzione-rivelazione – può superare un tale naufragio, a condizione però che "non salvi il passato storico in una ‘immagine eterna’ di esso, ma lo tragga fuori dal suo continuum nel tempo-ora", svuotandolo e ricollocandolo nella sincronia dell'evento. Ed è questo della sincronia, dopotutto, anche il senso di un ultimo disegno, realizzato da Dorfles nell'estate del 2005, dopo aver curato la mostra di Arnaldo Pomodoro sulle mura greche di Paestum. Si tratta di un'incisione leggermente acquerellata in seppia, con la quale Dorfles ha voluto rileggere il motivo della Tomba del tuffatore, datata al 480-470 a.C. ed esposta nel locale Museo Archeologico. Anche in questo caso l'opera è riconducibile al principio del materiale minimo, essendo stata rapidamente risolta su profilature separate e a linea continua, allusive agli elementi che configurano la celebre lastra tombale. Contenuti in una cornice perimetrale – che è il ricalco del limite decorativo e fisico della lastra – gli elementi sono forme sinuose ed ampie di alberi e di altro, bloccate nel loro movimento ondulatorio neli'attimo di un'eterna attesa. A ben vedere, però, quella del tuffatore di Dorfles non è solo una sospensione nello spazio vuoto del mito – di un mito che, per altro, rincorre circolarmente se stesso, lasciando di ciò una traccia che ha i colori sbiaditi e terrosi della lastra; è anche la testimonianza di un'avvenuta immersione disperdente, con la conquista di un insondabile spazio liquido. Ed è facile capire che un tale spazio è placentare e che il liquido è densamente amniotico; che entrambi sono il prodotto di una ‘risalita’: non verso un'origine, bensì verso un ‘evento’ estremo e biologico, infinitamente distante da una qualsivoglia preistoria.

 

 

 


Con Lea Vergine e Henry Martin

 

 

Dopo l'intervallo
Martina Corgnati


Historia Naturalis. Lungo e affusolato, la caratteristica testa a uncino e la spalla prensile, il Fustigatore avanza nell'azzurro con passo sicuro ed elastico. Alle sue spalle, penzolanti dal braccio destro, corpi ameboidi in forma di girandola sembrano scaturire dal suo gesto ampio per ricollegarsi poi all'appendice trioculare che s'innesta direttamente sulle protuberanze inferiori. Oscillante, ondulatorio, curvilineo, il moto si propaga per onde gialle dalla frequenza irregolare. La tipica appendice prensile, artiodattile, sostiene senza sforzo un corpo filamentoso in vibrazione: è lo staffile, di cui il fustigatore si avvale nelle sue prestazioni quotidiane. Il tono rosso-freddo, elegante, appare diluito e solcato da striature gialle lungo il rizoide, mentre si concentra verso l'estremità superiore, rendendo manifesto così lo stato di relativa eccitazione in cui l'esemplare si trova, malgrado l'anteride conservi una consistenza gelatinosa e la coloritura giallo-viola dei gameti immaturi.
Ecco l'ultimo nato nella numerosa famiglia di personaggi che Gillo Dorfles ha dipinto negli ultimi venticinque anni circa, vale a dire da quando ha ripreso a pieno ritmo l'attività pittorica. Per scherzare, abbiamo voluto provare a descriverlo con fraseggio e terminologia ironicamente pseudo-scientifica, come se non si trattasse di una creatura d'invenzione ma piuttosto di un organismo scoperto da poco, magari con l'ausilio del microscopio elettronico o di altri strumenti che consentono quella visione dell'infinitamente piccolo verso cui Dorfles ha sempre dimostrato una spiccata curiosità e interesse. Una suggestione analoga è offerta infatti da un altro dipinto, Palude (anch'essa dell'estate 2006), un coagulo di forme ameboidi dalla consistenza incerta che sembrano galleggiare nel liquido amniotico e riprodurre uno di quei paesaggi d'aspetto vagamente surreale che si formano sui vetrini in laboratorio. Gillo Dorfles, dicevo, è sempre stato incuriosito da questo genere di visioni di cui ha sottolineato in più occasioni il potenziale immaginifico: "[...] l'uomo è divenuto cosciente di tutto un nuovo ‘panorama’ (quello appunto che Gyorgy Kepes ha definito "New Landscape") che prima dell'avvento di questo medium (la fotografia scientifica) gli era del tutto ignoto. Si tratta dell'immenso frasario di forme che si cela nel microscopio e nel telescopio: le forme – un tempo studiate soltanto dal punto di vista scientifico – dei batteri, degli infusori, delle cellule, degli atomi, dei microcristalli, e quelle remote e gigantesche delle nebulose, delle comete [...] l'uomo che, nella sua rivolta contro il naturalismo pittorico, s'era svincolato dalla rappresentazione del mondo esterno rifugiandosi nella creazione di immagini astratte, senza addentellati con la natura, si vede nuovamente obbligato a tener conto di questa inesauribile fonte di forme, più o meno invisibili a occhio nudo, che costituisce una miniera di inedite e singolari possibilità espressive."
Con questa lunga citazione non si vuole però certo insinuare l'idea che il lavoro del Dorfles artista si basi tutto o in parte sulla traduzione pittorica di immagini prelevate dal mondo della fotografia scientifica e che quindi si proponga, fra l'altro, come un'espressione tutto sommato segretamente realista benché d'apparenza astratta; si vuole, piuttosto, richiamare l'attenzione sulla complessità di stratificazioni e di implicazioni di un discorso pittorico in superficie così felicemente compatto e addirittura semplice, "curioso, onnidivorante e spensieratamente logico" secondo la brillante aggettivazione di Roberto Sanesi, e che però si è alimentato e continua ad alimentarsi di interessi vastissimi, curiosità insaziabili e spirito critico pervicace.

 


Gillo Dorfles al pianoforte

Pittore e non. Scandita in tre lunghe fasi più o meno (anni trenta e quaranta – epoca del MAC – dalla metà degli anni ottanta a oggi), suddivise da lunghe pause di silenzio creativo ed espositivo punteggiate soltanto da qualche sporadica avventura grafica e disegnativa del tutto privata, la produzione artistica di Gillo Dorfles dovrebbe essere finalmente osservata con serenità da parte di una critica sempre segretamente imbarazzata dal confronto con il collega e soprattutto con l'eccelso teorico del gusto, e valorizzata come un autentico e profondo filo di Arianna: il "filo illogico" che ha sostanziato d'una sotterranea costanza e continuità tutte le frequentazioni dell'intellettuale, le tempestive intuizioni del teorico, le polimorfe curiosità del critico e del filosofo, contribuendo così non a disperdere ma anzi a tenere insieme tutte le sfaccettature di una personalità senza paralleli né seguaci in Italia, (non solo in Italia). Questa produzione, in cui Dorfles ha riposto forse le sue energie più preziose e le sue ambizioni più inconfessabili, nonostante la dedizione all'attività didattica e alla stesura dei suoi numerosi e brillantissimi saggi, è incominciata nell'infanzia, vissuta fra Genova e Trieste, le città dei suoi genitori: "ho dipinto da sempre, si può dire", racconta, "al ginnasio facevo degli sgorbi sui margini dei libri di testo. Dico sgorbi ma in realtà li tenevo da conto anche allora e alcuni compagni li ammiravano molto: difatti erano originali. Ho continuato a disegnare finché ho fatto veri e propri quadri intorno ai vent'anni. A tempera a olio. Li tenevo per me, aspettando il futuro.” Forse la passione di forme e colori gli viene instillata dalla madre, pittrice dilettante; la tecnica invece la impara "a bottega", frequentando lo studio di Leonardo Borgese dove studia disegno dal vero. Ma intanto, nell'adolescenza triestina e più tardi frequentando l'università a Milano e Roma, Dorfles fa anche altri incontri che saranno fondamentali per la sua formazione e le sue scelte future.

 

 

 

 

 

 


Con Enrico Baj, 1983

Ritratto dell'artista da giovane. Trieste. "Ho lasciato Trieste a due riprese: quando avevo tre o quattro anni perché era scoppiata la Prima Guerra Mondiale, per cui l'infanzia l'ho trascorsa a Genova, la città di mia madre. Poi ho lasciato Trieste dopo il ginnasio e il liceo per andare all'università. Si tratta di due ricordi molto diversi. Del primo abbandono di Trieste ho soltanto una viva memoria: il giallo e il nero della città imbandierata dagli austriaci. Questo particolare mi è rimasto impresso nel tempo perché l'accordo giallo e nero ancora oggi è uno dei rapporti di colore che mi piace di più." Dopo la ritirata strategica a Genova, Dorfles dunque trascorre a Trieste la giovinezza, frequentandovi ginnasio e liceo. All'epoca la città, diventata nel frattempo italiana e percorsa da altre bandiere comprese quelle dannunziane, era particolarmente vivace dal punto di vista culturale: c'erano Svevo, Umberto Saba, Edoardo Weiss, allievo diretto di Freud, che introdusse precocemente la psicoanalisi nella città adriatica; Joyce vi aveva abitato per dieci anni; nell'ambiente artistico, complessivamente tardo-ottocentesco e simbolista, spiccava la personalità di Arturo Nathan, che lascia un segno evidente sullo stile in formazione del giovane Dorfles, Carlò Sbisà e alcune brillanti promesse come Leonor Fini e Leo Castelli, futuro gallerista della Pop Art. In questo giro di amicizie, artistico, psicoanalitico e letterario, oltre che teosofico, si individua uno snodo cruciale della cultura e della personalità di Dorfles che, non a caso, sceglie di studiare medicina e specializzarsi in psichiatria, coltivando però anche la critica (dagli anni trenta collabora alla "Fiera Letteraria" e alle "Tre Arti") e tentando di migliorare le sue naturali doti di disegnatore, a quanto pare non troppo pronunciate. Intanto a Trieste il suo sguardo si rivolge a Nathan, che esordisce nel 1928 esponendo alla Biennale di Venezia e a Milano e che si muove, in quel momento, fra un simbolismo vicino alla Secessione di Monaco e la Metafisica, con un linguaggio inizialmente suggestivo, introverso e non lontano da certe immagini fiabesche e visionarie della Von Werefkin (per esempio in Fiume tropicale), poi sempre più assorto e italiano nelle memorie classiche pur immerse in nordiche luci livide e plumbee d'irrequietezza. Un linguaggio che piaceva a De Chirico, e di cui Dorfles critico esordiente nota "la serietà tecnica, la classe e lo stile", oltre che la preziosità dei colori e la sapienza degli impasti. Il Dorfles pittore però da Nathan non prende solo gli impasti ma la morfologia innaturale di certe rocce e paesaggi, l'atmosfera visionaria e, tralasciate le memorie classiche che non lo riguardano affatto, l'afflato fiabesco, innaturale, in alcuni casi molto prossimo agli esiti coevi della Von Werefkin, non per nulla anche lei antroposofa e vicina a temi e modi espressivi dei circoli steineriani.
Da Nathan passa però anche la "variante triestina" della strada che porta in direzione del Surrealismo, imboccata infatti da Leonor Fini (1907-1996) seppure con qualche riserva. Nata a Buenos Aires da padre argentino e madre triestina, che la porta in Italia piccolissima per fuggire da un marito violento e repressivo, Leonor Fini esordisce a Milano appena un anno dopo Nathan e in quella fase partecipa con lui e con Sbisà a diverse collettive. Poco dopo il Trenta si trasferisce a Parigi dove, a contatto con i surrealisti, mette a punto tino stile onirico, bizzarro e inquietante, prossimo al realismo magico, le cui radici prime potrebbero essere da rintracciare però proprio a Trieste, nell'influenza di Nathan e nell'amicizia con Dorfles, più giovane di soli due anni. Non a caso anche lui si muove inizialmente nella stessa orbita, con un'accentuazione però degli aspetti esoterici e della funzione in qualche misura rivelatrice dell'immagine, che già nel 1935 appare del tutto affrancata da qualunque tratto o ricordo naturalistico. Se, infatti, la Metafisica "classica", di De Chirico, Savinio e in parte anche di Nathan, tende a innestare il cuneo del paradosso logico e visivo entro le coordinate di un'apparente normalità spazio-temporale, fino al cortocircuito che paralizza la coscienza nella rigidità dell'istante sospeso, Dorfles interviene sullo spazio e sulle forme confondendo sostanze aeree, liquide, solide e proiettando fantasmi fluttuanti in un etere denso di forme simboliche e corpi celesti. Questi primi paesaggi (Paesaggio iperboreo, Forane glaciali, Croce lunare, Forma blu con sole, Cavallo giallo e radice viola) sono visioni cosmiche dove si muovono entità agitate da forze puramente spirituali e dove presto si rivela una sotterranea tendenza all'astrazione: a sostituire, cioè, una sintassi inizialmente narrativa con semplici intrecci di forme organiche e inquieti moti lineari talvolta non privi di un certo valore decorativo, più evidente in seguito. D'altra parte, in questa fase (anni trenta), i numerosi contatti con gli ambienti intellettuali più avanzati della penisola (Dorfles, che si muove in lungo e in largo per l'Italia e non solo, incontra e frequenta il circolo di Felice Casorati a Torino, i più avanzati artisti romani, da Cagli a Mafai a Capogrossi e gli astrattisti del Milione a Milano) consentono al giovane artista e critico di aggiornarsi coltivando nuove curiosità e nuovi gusti, e di affilare nel contempo le sue armi critiche e interpretative. La guerra divide sorti e destini: Nathan, colpito dalle leggi razziali, è costretto al confino nelle Marche e poi deportato dopo l'8 settembre a Bergen Belsen. Muore subito dopo la liberazione per le sofferenze patite, a cinquantaquattro anni. Leonor Fini è ormai stabilmente a Parigi. Dorfles invece trascorre gli anni della guerra in Toscana, nel minuscolo borgo di Lajatico, dove scrive poesie, dipinge tele dagli eleganti intrecci lineari e modella alcune piccole terrecotte invetriate, dal sapore organico e i volumi morbidi, memori in qualche misura di Arp. Sono corpi dalla consistenza asimmetrica, vagamente antropomorfa, che sembrano sempre sul punto di trasformarsi in virtù di un segreto e sotterraneo processo metamorfico.



Gillo Dorfles, 2006


 

 

 

 

 


Con Renzo Piano - Berna 2006

 

 

 


MAC. Poco dopo la guerra, l'attività pittorica di Gillo Dorfles, ormai insediato stabilmente a Milano, acquisisce una dimensione pubblica nell'ambito del MAC Movimento Arte Concreta, fondato dallo stesso Dorfles nel 1948 insieme a Gianni Monnet, Atanasio Soldati e Bruno Munari: artisti quanto mai differenti l'uno dall'altro per intenzioni espressive, stile e posizioni teoriche oltre che storia personale e generazione, ma accomunati da una comune volontà di agitare le acque un po' stantie della cultura artistica italiana alla luce delle importanti esperienze astratte compiute fra il Ventennio e il dopoguerra in ambito svizzero, tedesco e francese, mostrate per la prima volta in Italia nella storica mostra "Arte astratta e concreta" allestita al Palazzo Reale di Milano nel 1947. Dorfles, che conosce bene le lingue e frequenta con disinvoltura alcuni fra gli ambienti d'oltralpe più intellettualmente avanzati, condividendone argomenti e letture e importandone esigenze d'aggiornamento e di superamento di questioncelle provinciali e banalmente ideologiche come la querelle tutta italiana fra "astratti" e "figurativi", trova nel MAC lo strumento adatto per veicolare istanze teoriche molto avanzate, non identificabili né con il concretismo d'anteguerra né con il neoplasticismo e gli esperimenti europei nell'ambito di De Stjil e del Bauhaus vecchio e nuovo; e per dare respiro a un lavoro pittorico ormai ben definito, a questo punto, nell'ambito della più aggiornata tendenza concretista europea (e non astratta), che, cioè, non mirava a "creare opere d'arte togliendo lo spunto o il pretesto dal mondo esterno e astraendone una successiva immagine pittorica, ma che anzi andava alla ricerca di forme pure, primordiali, da porre alla base del dipinto senza che la loro possibile analogia con alcunché di naturalistico avesse la minima importanza." Benché sospettoso e insofferente di schemi geometrici troppo rigidi per una fantasia davvero libera e spontanea, di formule matematiche e di meccanismi compositivi pianificabili e ripetibili, Dorfles aderisce al concretismo perché in quel momento è la corrente in assoluto meno provinciale e più internazionale in Italia, sufficientemente agguerrita sul piano teorico per potersi distinguere al primo sguardo da quella fumosa e disordinata messe di tentativi che molti pittori italiani dell'epoca andavano praticando, più o meno confusamente, e che sarebbero di lì a poco confluiti nell'alveo quasi omnicomprensivo dell'informale e dei suoi parenti più prossimi. Per questo, forse, in una fase storica caratterizzata da un'entusiastica apertura sul futuro e dalla fiducia che l'arte potesse incidere sul mondo, sulla società e sulle relazioni umane, Dorfles mette a fuoco in una serie di scritti le matrici e le ragioni del fare artistico proprio e degli altri membri del Movimento, sottolineandone l'autenticità, l'essenza sorgiva assolutamente individuale, affondata nel cuore di un subconscio che il Dorfles intellettuale aveva tentato di circumnavigare anche con gli strumenti dello scienziato e dello psichiatra. Infatti gli elementi decorativi ricorrenti nei suoi dipinti, anche quando prelevati di peso da repertori ben consolidati e quasi universali (per esempio volute, spirali, greche e ondulazioni a S), risultano in qualche modo necessari, "psicologicamente oggettivi"" per parafrasare Paolo Fossati. Dorfles li giustifica così: “è la ricerca precisa e lucida di una determinata forma a guidare la matita e il pennello: forma che parte da alcunché di già sperimentato o a quello tende, sia che la mano tracci un segno preso a prestito da un elemento reale (ma non però copia d'oggetto naturalistico), sia che si valga di alcuni schemi formali sempre ricorrenti che, a mio avviso, si possono considerare come i progenitori di ogni espressione grafica, conscia o inconscia [...] potremo assistere alla proiezione di archetipi formativi, restati a lungo inutilizzati, e che oggi riappaiono, diventando i generatori di nuovi spunti plastici." Questi archetipi generativi si rinvengono ad abundantiam nelle opere degli anni quaranta e cinquanta, talora come puri elementi lineari ben separati da sfondi monocromi e piatti, talora come forme, intarsi di colore che occupano l'intera superficie pittorica; oppure ancora come semplici capricci della mano, arabeschi di segni che affiorano e si irradiano attraverso il tessuto denso e sensibile dello sfondo pittorico, qualche volta particolarmente prezioso e ricercato come in Senza titolo (rosa) del 1952 oppure in Composizione turchese del 1955. L'attenzione alla grana, alla materia della pittura traspare, però, soprattutto laddove meno la si aspetta, cioè nei Monotipi, una serie di grafiche realizzate a intermittenza per molti anni fino a tempi assai recenti, imprimendo sulla carta un originale eseguito su tela o vetro (poi distrutto), secondo una tecnica sperimentale apprezzata comprensibilmente in una fase aperta alla sperimentazione e curiosa di tecniche nuove come gli anni cinquanta. In queste opere Dorfles tenta di interpretare la superficie come un campo unitario, luogo compatto dove il fenomeno della pittura si manifesta senza alcuna discontinuità o possibile separatezza fra linea e superficie, primo piano e sfondo, segno e colore. Il visibile è un avvenimento che si offre tutto insieme e in cui Dorfles si immerge con fiducia, forse anche perché protetto da una distanza data appunto dal procedimento indiretto, dall'interposizione di un tempo, di un filtro. Patrizia Serra, che per prima ha scritto di questi materiali e li ha esposti, ha parlato di un "assottigliamento" della soglia dell'immagine che in essi si manifesta, e dell'intuizione di un "vuoto" come spazio ulteriore lasciato alla sensibilità, spazio di senso possibile ancora tutto “da riempire". Ed è, però, proprio in questo vuoto, in questa rarefazione prodotta dalla tecnica stessa che la superficie acquista profondità, compattezza, paradossalmente "pittoricità". Caratteristiche che ritornano anche nelle ultime, recentissime esperienze grafiche, ad acquaforte e acquatinta, dove curve, spirali, arabeschi diventano centri d'irradiazione che sembrano ripercuotesi intorno in un riverbero d'intensità decrescente, fra concrezioni di colore addensato e sfumature morbide, senza traccia di linee o clementi troppo netti, troppo nitidi, troppo separati. Lavorare in negativo, in altre parole, permette a Dorfles di bruciare le tappe e di annullare la distanza fra sfondo e superficie, fra prima e dopo. La tecnica grafica fornisce le condizioni adatte ad attuare il mescolamento di elementi inizialmente forse disomogenei che nella ricaduta, nella messa in forma indiretta, trovano una propria saldatura migliore e più compatta che nella versione pittorica, diretta.


Gillo Dorfles fotografato da De Marco

 

 

 

 

 

 

 


Gillo Dorfles fotografato da De Marco

 

 

 

 

 

 

 


Gillo Dorfles fotografato da De Marco

 

 

 

 

 

 

 


Gillo Dorfles fotografato da De Marco

In clandestinità. Con la conclusione, storica e inevitabile, dell'esperienza del MAC, l'infittirsi degli impegni critici e teorici e la nuova posizione di docente universitario assunta nei primi anni sessanta, Dorfles decide di abbandonare l'attività pittorica e fino al 1985 circa limita le sue esigenze creative a una produzione grafica occasionale e comunque del tutto privata. Perché? Lo stesso Dorfles si è espresso varie volte in proposito, richiamando tutte le ragioni e le circostanze esterne di quella scelta che deve essere stata tutto fuorché indolore: il tempo che mancava, l'abito dell'estetologo che andava indossato fino in fondo, la diffidenza della cultura italiana nei confronti degli irregolari multitalented come lui. Qui non si vuole certo né questionare, né riprendere questi argomenti già ben noti ma solo mettere in evidenza un aspetto finora forse poco osservato e cioè che la fine del MAC e dell'attività pittorica di Dorfles coincide con un brusco cambiamento di rotta dell'arte figurativa, descrivibile per sommi capi come il passaggio dal predominio dell'espressionismo astratto/informale a quello della Pop Art nelle sue varie versioni, americane ed europee. In quella fase, cioè, l'arte incomincia ad assumere nelle proprie strutture sintattiche elementi tratti di peso dal mondo della cultura bassa, consumistica, pubblicitaria; non esita a cavalcare espedienti promozionali presi in prestito dal giovane mondo dei mass media e a dare spettacolo. Dorfles teorico segue gli avvenimenti con la consueta curiosità e apertura ma non gli sfugge che quel mondo non è più il suo e che le periodiche oscillazioni stanno portando il gusto del momento lontano dall'apprezzamento di un discorso pittorico come il suo, se non di un discorso pittorico tout court. […]
Gillo Dorfles si era accorto subito dell'intorbidamento concettuale inerente all'operazione pop e già nel 1968 ne aveva segnalato almeno una parte del rischio: "Codesto fenomeno, dell'assunzione nell'empireo dell'arte d'élite di prodotti triviali sottratti alla produzione standardizzata e disindividualizzata, deve essere considerato positivo o non significa piuttosto che lo stesso artista d'avanguardia predilige talvolta quel genere d'arte che in apparenza, ufficialmente, disprezza?” si domanda preoccupato il critico. Intanto il pittore, a questo punto, si era già ritirato in un dignitoso silenzio. Interrotto soltanto verso la metà degli anni ottanta, con l'esaurirsi delle incombenze universitarie e l'aprirsi di una nuova stagione delle arti visive, all'insegna di una piena efflorescenza neoespressionista e transavanguardista. Narrazioni. In questi ultimi venticinque anni, specialmente ricchi e felici sul piano creativo, Dorfles ha prodotto opere che mostrano un'intensificazione della valenza apertamente narrativa o illustrativa tanto da configurarsi come veri e propri frammenti di "racconto attraverso le immagini", costruiti con grande libertà riassemblando insieme pezzi dell'antico e sperimentato repertorio simbolico e segnico di arabeschi, grafemi, lessemi, macchie e ghirigori.
Da questo precipitato continuamente variabile di unità compositive sono nati i personaggi ironici e talvolta caricaturali cui accennavo all'inizio (oltre al Fustigatore c'è anche l'altrettanto recente Giocoliere dall'aria melliflua, le guance flaccide e le dita adunche) ma anche superfici puramente astratte, libere articolazioni di segni, forme e colori senza alcun riferimento alla realtà, oppure invece raccolte intorno a una qualche specie di significato riconoscibile, più o meno cosparso di accessori simbolici. Ultimamente poi, come si è detto, la componente narrativa e l'invenzione spiritosa, oppure addirittura grottesca, tende a conquistare spazi crescenti nella fantasia di Dorfles e a farsi prevalente rispetto alle espressioni puramente grafiche o astratte. D'altra parte questa vena narrativa non va ovviamente confusa con un'imprevista insorgenza rappresentativa e in nessun modo realista, tendenza quella fortemente ideologica, anzi impregnata di ideologismo conformista, retorico e acritico, nei confronti della quale Dorfles ha espresso sempre (già nell'immediato dopoguerra) tutta la propria diffidenza e fastidio. No. Si tratta piuttosto di una sottile licenza al gioco, all'insinuazione e, al tempo stesso, a portare un punto o una linea fino alle estreme conseguenze aforistiche, come scrive D'Andria, citando a questo proposito l'emblematico titolo di un disegno del 1982, Ecco, ad es., come un punto può diventare la matrice di un volto.
I personaggi scaturiscono dunque per una specie di generazione spontanea, "il percorso di un detective che non avendo ancora una prova certa lascia sul terreno qualche traccia, o ipotesi, senza rinunciare nemmeno per un attimo, con un notevole senso dell'humour, a nessuno dei frammenti di possibilità rilevati, diceva Sanesi; è una specie di deduzione, non dell'intelligenza però, ma della mano e dei suoi movimenti spontanei, sospinti da una soggettività profonda e imperscrutabile, che produce dei tipi strani, elastici, polimorfi e ubiquitari. "Sono ovunque e altrove", continua Sanesi, "ruotano su se stessi: se si gira il foglio si ritrovano dalla parte giusta come misirizzi.”
Spetta certamente al compianto critico e poeta l'aver precisato, con la consueta grazia, le origini almeno parzialmente antiquarie di queste creature variopinte, l'aver svelato la loro segreta parentela con certi mobili e pezzi d'arredo ghirigoreggianti e un po' demodé ("tanto è vero che appena mi accade di incontrare un pleyel o un Louis Seize o un capitonné, malgrado la loro aria leggermente antiquata, mi sembrano familiari", aggiunge), mentre è merito di Luciano Caramel d'aver accennato a una loro speciale sensualità, talvolta esplicita, come nell'allegra Composizione azzurra (fine anni quaranta), oppure in Dolci seni (1985), Personaggio rosso e verde (1987), Due profili con due mani (1987), Robot grigio (1992), Proboscidato con seni (1992), Coniugazioni eteroclite (1993) e innumerevoli altri. La sensualità e la sessualità fanno (per fortuna) parte del gioco (della vita) e Dorfles accenna alla faccenda senza moralismi né esibizionismo, anzi con gioiosa spontaneità e fragranza. Così attributi dotati di una certa ambiguità, segni che insinuano, più che rappresentare, mammelle ed elementi fallici, affiorano qua è là con vitalità e leggerezza per poi affondare di nuovo nel magmatico caos da cui sono venuti. Tanto Dorfles procede cercando di lasciar fare alla mano, di coltivare una specie di riflesso automatico che lo guida con sicurezza da un quadro all'altro, apparentemente senza scosse, lungo un solco ininterrotto (il "filo illogico" lo definisce efficacemente Campiglio) costituito da un tema unico continuamente variato, da cui è ancora e sempre possibile far apparire, come dal cappello del giocoliere, un motivo nuovo e diverso, serio o piacevole o talora quasi grottesco e fumettistico.
Si tratta di un modo di procedere che alcuni hanno associato al gesto automatico surrealista, paragonando infatti i risultati ottenuti con i cadavres exquis. Un riferimento indubbiamente suggestivo anche se, a nostro parere, è necessario introdurre un netto distinguo fra il segno di Dorfles e il tratto dei cadavres, concepito come mezzo per provocare una germinazione grafica esuberante e piena di significato ma limitata a un settore ben circoscritto della superficie dal quale il tratto fuoriesce solo come appendice protesa verso un campo ignoto, destinato infatti a un'altra mano che da quel segmento interrotto riprende una nuova e imprevedibile efflorescenza. In altre parole: un'opera grafica collettiva dove prevale evidentemente l'hazard, scandita da rarefazioni che corrispondono ai passaggi fra le diverse mani, intervalli, per usare una terminologia cara a Dorfles, non solo espressivi ma operativi, non può costituire un parametro di confronto completamente convincente per una superficie intesa sempre come campo compositivo unitario, per dirla con Raffaele D'Andria, da attraversare e percorrere mediante una linea ininterrotta, "sismografo che crea liberamente e apertamente un percorso di eventi in divenire, ricco di accidentali somiglianze. Quello di Dorfles è un percorso dunque, non molti percorsi autonomi uno dall'altro: una sola linea non molte linee protese, a volte con evidente forzatura, l'una verso l'altra. E poi non va minimizzata la differenza che c'è fra disegni o espressioni grafiche come i cadavres exquis di Masson o Tanguy e dipinti come quelli di Dorfles, dove colore, tono, contrasto e spesso anche sfumature, densità e trasparenze hanno un ruolo importante, primario, cioè non derivato dalla creatività intrinseca di linee e segni. Si intende dire che la scelta pittorica, invece che grafica, ha un preciso valore estetico e un significato operativo che non va minimizzato. Dorfles, inoltre, pur manifestando come critico e teorico da sempre un'esplicita curiosità per le invenzioni surrealiste, non ha mai incoraggiato un'interpretazione dei suoi quadri troppo sbilanciata in quella direzione, evidenziando invece un proprio appassionato interesse nei confronti di Kandinsky e ancora più di Klee, sfociato in un insieme di autentiche affinità elettive coltivate "esaltando le spontanee ricorrenze di elementi semplici, ripetitivi, dotati di un valore simbolico e grafico in cui, in qualche misura, si arriva a riconoscere qualcosa di universale"; e rivendicando infine, giustamente, l'originalità del proprio lavoro e l'autonomia dall'ambiente artistico che lo ha circondato nel tempo.
Un'originalità fondata su elementi molto profondi, almeno in parte innati e affatto individuali (quali per esempio la calligrafi) ma che naturalmente si sono precisati nel tempo, assumendo la loro forma definitiva a contatto con un bagaglio di cultura via via sempre più ricco. Questa combinazione unica ha prodotto "opere autonome, al di là di ogni raffronto [...] di cui sono persuaso che siano soltanto mie e che, di conseguenza, rappresentino qualcosa di unico".
Osservandole, in effetti, appare chiaro quanto poco Dorfles artista si sia adoperato per assorbire o rispondere in qualche modo agli imperativi stilistici e formali provenienti dal contesto culturale che lo ha circondato e lo circonda e abbia, invece, concentrato tutti i suoi sforzi per elaborare uno stile proprio, appunto originale, tornandovi sopra per anni e anni e procedendo per scarti minimi, per accorgimenti progressivi, senza strappi bruschi né passaggi ardui.
Una riprova di tutto questo è che, in fondo, ogni opera appare intimamente concatenata a tutte le altre, come la tappa di un ininterrotto percorso metamorfico, come un enunciazione sempre intrinsecamente provvisoria, fase di un processo e non mai punto d'arrivo stabile, oltre al quale sia opportuno o necessario inserire un bel punto a capo. Giustamente diceva Sanesi che a Dorfles interessa il processo non l’arrivo, il lavoro, potremmo aggiungere, e non l'opera nel senso di masterpiece e meno che meno di monumento. Anzi, questi quadri sembrano sempre sul punto di trascolorare o di metamorfizzare l'uno nell'altro, sono immagini dotate sì di equilibrio e significato individuale (dal punto di vista simbolico e compositivo), ma sempre in qualche misura provvisorie e non veramente separate dal flusso fantastico e inventivo che in profondità continua a scorrere. Insomma, instabilità nella continuità: qualche anno fa Mirella Bandivi collegava questa modalità poetica e operativa alla teoria dell'Urpflanze formulata da Goethe e ampiamente ripresa da pensatori e filosofi di lingua tedesca, ben noti a Dorfles già dagli anni trenta.
Resta da chiedersi quali siano le connotazioni specifiche, i caratteri unificanti di questo procedere lieve e ininterrotto da una tela all'altra e da un disegno all'altro. Si tratta, a mio parere, dell'asimmetria, della leggerezza o levità e dell'intervallo, cioè della sua tendenza ad alternare pieni e vuoti, volumi e spazi, "forti" e "pianissimi" (metaforicamente intesi). Elementi, per così dire, di poetica, chiavi per comprendere la pittura ma anche molte posizioni del Dorfles critico e teorico del gusto. Infatti ad essi sono dedicate pagine e pagine di acute osservazioni, che tentano di favorirne la comprensione e introdurli in qualche modo non solo nell'arte attuale ma, in generale, nelle forme visibili, nei costumi e negli stili di vita adottati dalla nostra società: dall'architettura al design, dall'abbigliamento alla musica, dalle tecniche di comunicazione ai comportamenti quotidiani.

 


Gillo Dorfles a San Bernardino, 2007

 

Intervallo. Alla necessità dell'intervallo Dorfles ha dedicato un intero libro e nel corso nel suo lungo itinerario di saggista e critico non ha perso occasione di tornare sull'argomento, sottolineando continuamente i rischi della perdita di questo elemento prezioso quanto inosservato. Cito soltanto una fra le riflessioni più recenti "[...] attraverso la meccanizzazione, attraverso questi fenomeni mostruosi della nostra civiltà, abbiamo finito per perdere quell'intervallarità fra noi e il mondo o tra noi e il futuro e il passato che una volta esisteva e che si poteva identificare nell'esistenza di un intervallo, di una pausa di riflessione, della possibilità che tra noi e il lavoro, l'opera d'arte, pittorica e musicale, ci fosse una separazione e nello stesso tempo un vuoto: nel fatto stesso che entro il dipinto, entro il brano musicale, ci fosse la pausa, che ne permetteva l'audizione o la visione. Questa mancanza dell'intervallo porta con sé il caos, l'accelleramento dei tempi, il continuum temporale: quindi, non più la durata discontinua, quella discontinuità della durata di cui Bachelard parla in La dialectique de la durée, e che invece viene a mancare ai nostri giorni in quello che è il nostro rapporto con l'opera d'arte, non solo, ma in quella che è la creazione dell'opera d'arte da parte dell'artista dei nostri giorni."
Si potrebbe dire quasi che l'artista abbia raccolto le preoccupazioni del teorico (o non è piuttosto il contrarlo? E il filosofo dell'estetica ad aver costruito una teoria sulle scelte compiute dall'artista?) elaborandone una precipua sintassi, resa esplicita anche in alcuni titoli come Custodire l’intervallo, assegnato infatti a un grande dipinto del 1997. Ma cos'è l'intervallo nella pittura di Dorfles? Suggeriamo di pensarlo come una tendenza a non occludere le superfici e ad alternare forme, e soprattutto ritmiche, lineari ad altre tondeggianti, spigoli a curve, divertissement narrativi e figurativi a purissime costruzioni astratte.
Così, non c'è mai da annoiarsi; nessun lavoro è prevedibile a partire da un altro e ancora meno ne è la ripetizione, la copia. Dorfles diffida sommamente della ripetizione così come della pesantezza, intesa in questo caso come monumentalità, stabilità, rigidità; la presunzione, in una parola, di sottrarre l'opera al suo destino di mutamento e di transitorietà.

 


Monumento. Il Dorfles teorico del gusto non ha mai fatto mistero del suo sospetto, se non del suo aperto imbarazzo nei confronti dei monumenti e ancora di più nei confronti di coloro che pensano di volerne e poterne realizzare. "L'aere perennius", scrive, "andava bene per Mecenate e per i monumenti romani che, effettivamente, hanno resistito fino a oggi; ma non per le realizzazioni dei tempi nostri, delle quali, in un lontano futuro, resisteranno probabilmente soltanto alcune strutture meccaniche ormai inservibili, alcuni bunker atomici, alcune centrali nucleari in disuso, affogate nel cemento, con il loro carico di veleno irrecuperabile e intramontabile (questo sì aere perennius!)." Tanto vale accontentarsi, rinunciare alle "lettere eterne di bronzo", su cui si appuntava il sarcasmo amaro di Brecht, e percorrere gioiosamente a passi lievi le strade di un'arte che già secondo Lucio Fontana, artista molto apprezzato dal Dorfles critico e compagno di strada negli anni del MAC, non poteva che essere "aerea, universale, sospesa". Una maniera che fra l'altro consente, se non di evitare il Kitsch (vera e propria bestia nera di Dorfles, oggetto di un'ossessione pervasiva che riaffiora continuamente), almeno di non renderlo permanente, come una fonte di inquinamento visivo perenne sulla superficie del pianeta già sovraccarica e satura di orrori e di mostruosità".
Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché Dorfles non ha coltivato fino in fondo il suo gusto per la transitorietà e le immagini fluide, assecondando in questo le aperture e le curiosità del teorico per i cosiddetti "nuovi linguaggi", e non ha cercato di movimentare davvero le sue forme e le sue linee, magari con l'ausilio dell'elettronica o di tecniche di animazione di qualche tipo? Semplice, perché la manualità in arte resta cosa necessaria e quanto mai preziosa, in un'epoca in cui le mani non si usano più, gli occhi (cioè lo spirito critico ma anche il piacere, goloso, di guardare) neppure, e i fruitori, ma anche i produttori dell'arte, sono immobilizzati in una posizione di passività estrema, senza precedenti. Il teorico non ha dubbi e osserva con preoccupazione il divorzio fra arte e corpo: "se sono d'accordo nel consentire il diritto di cittadinanza a forme d'arte elettroniche, sono però persuaso che il legame tra corpo umano e creazione artistica sia qualcosa di insuperabile e di insostituibile almeno in quelle forme espressive che richiedono un coinvolgimento della nostra corporeità, intesa ovviamente nel senso più globale e non solo fisico; come avviene nel teatro e nella danza ma anche in pittura e in scultura [...1 in altre parole: quella sorta di prolungamento del proprio io che si traduce in segno non può essere realizzato che attraverso una estrinsecazione corporea. " – " Peraltro in arte, l'ipertrofia di sistemi e forme espressive hi-tech rischia di non essere nemmeno il frutto di una passione spontanea e autentica, ma soltanto il sintomo di un adeguamento coatto alla moda di un'epoca, non peggiore né migliore di altre,`. Ma benché l'arte debba essere indubbiamente "figlia del suo tempo", Dorfles non ha mai nascosto la sua antipatia per le forme creative (nelle arti visive come nella musica, nel design come nell'architettura), che supinamente si adeguano, cioè conformiste, tanto da dedicarvi uno dei più feroci capitoli del suo recente libretto Conformisti. E c'è anche, testimoniata già nel 1968 in un passaggio illuminante del celebre testo dedicato al Kitsch, la preoccupazione per un condizionamento ancora più sottile e sfuggente messo in atto dall'arte di tipo industriale cioè legata, per struttura e modalità di diffusione, agli strumenti della comunicazione di massa; preoccupazione relativa al destino dell'immaginario umano più intimo e privato: "[...] ma il tipo di industrializzazione culturale su cui mi preme di soffermarmi ancora brevemente [...] è quello che si rivolge al panorama immaginifico o, se possiamo così esprimerci, all'attività fantastica e creativa dell'uomo: quell'attività che di solito era, o avrebbe dovuto essere, patrimonio gelosamente privato di ogni singolo individuo e che invece - proprio attraverso alcuni massmedia – si è venuto trasformando in un'attività altrettanto `pubblica' di tutte le altre. Le immagini, i sogni, la marea indistinta e imprecisata della nostra attività fantastica, diventando preda dei nuovi mezzi meccanici di trasmissione e di comunicazione, ne diventano tosto anche succubi."
A questa irruzione indebita e sistematica negli spazi del privato, a questo depauperamento delle risorse dell'immaginario, Dorfles ha risposto dunque con un'implicita ecologia dell'immagine, con una tenace difesa della manualità5i, della riflessione, della lentezza, tanto nell'esecuzione come nella fruizione del lavoro artistico. Con questa egli sembra custodire gelosamente anche una risorsa preziosissima per la propria vita, il poter manifestare, o articolare se si preferisce, un'espressività preverbale, sorgiva, spontanea, un gesto che viene prima del pensiero e al pensiero prepara il terreno, che viene prima della forma e contribuisce alla messa in atto della forma.
Il gesto, insomma, originario e responsabile che lo ha aiutato, forse, a non annegare in quei mari di virgolette in cui il critico si muove da sempre.

 

Asimmetria. E veniamo così alla terza caratteristica, l'asimmetria o disarmonia. Dice Sanesi: "Dorfles vive quasi con felicità quella perdita di un centro che è stata vissuta dai contemporanei come una tragedia [... ] Dorfles diffida degli schemi e, quando li usa, li usa perché per smontarli è pur necessario percorrerli.” Non c'è infatti un solo dipinto, e un solo disegno, in cui si intuisca la presenza di uno schema simmetrico o speculare esatto, e nemmeno di una struttura concepita apriori sulla base di quei principi di simmetria e di proporzionalità che hanno governato il gusto rinascimentale, specie in Italia. Ogni volta il pittore ricomincia da capo, rischia di sbagliare, affronta la perdita dell'equilibrio, l'irregolarità, convinto che "la simmetria, in qualche modo, annulla la possibilità del movimento. Basta che si abbia un'asimmetria, per quanto minima, per avere la sensazione del movimento e questo comporta l'esistenza di spazio disponibile."" Comporta, in altre parole, che possa succedere ancora qualcos'altro. D'altra parte il Dorfles teorico, non per niente innamorato dell'estetica giapponese wabi, dell'asimmetrico ne ha fatto una questione addirittura antropologica: in un ampio saggio del 1971, Premesse antropologiche a un'estetica dell'asimmetrico, prende il toro per le corna e affronta l'argomento non soltanto sul piano artistico o estetico ma mitico e fisiologico, facendo della consapevole tensione verso l'asimmetrico una questione addirittura di evoluzione della civiltà umana e mettendo l'asimmetria in rapporto con la scoperta da parte dell'uomo del suo vero "sé". "L'uomo, dunque, tende oggi sempre più verso l'asimmetrico perché i legami e le implicazioni che la – solo parziale – sua costituzione simmetrica gli impongono, non gli permetterebbero una feconda evoluzione [...] in questo istante, dove la durata si arresta, dove il tempo mitico si consolida, dove il superamento del Simmetrico diventa totalità esperienziale, l'uomo può forse vedere finalmente `through the looking glass' quel se stesso che di solito ha solo contemplato `in the looking glass'; quel se stesso non più falsificato dalla specularità.”
Possiamo allora, forse insinuare che la pittura ha aiutato Gillo Dorfles a trovare se stesso e a non perdersi negli ingannevoli riflessi degli specchi e delle loro diaboliche simmetrie. E farci venire in mente quel folgorante passo di Borges all'inizio di TIon Uqbar, Orbis Tertius: "Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini [...].