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Ecco
come ad es. un punto può diventare la matrice di un volto
Con
Marcello Mascherini - Mostra al Castello di Trieste
Sovracoperta
di Dorfles per il numero di ottobre
1954 della rivista "Documenti d'Arte d'Oggi"
Gillo Dorfles con Marco Zanuso
Con
Lucio Fontana alla Galleria l'Indiano
Mostra di Fausta Squatriti - Milano 1964
Con
Giulio Carlo Argan al PAC
di Milano nel 1984
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GILLO
DORFLES
Ecco
come ad es. un punto può diventare la matrice di un volto.
Raffaele D'Andria
Un
fattore generativo ed auto-propulsivo. È questo, forse, l'aspetto
che maggiormente, oggi come in passato, sottende il rapporto tra
Gillo Dorfles e la sua opera pittorica – opera ormai ben conosciuta
in sè e nel suo valore di originalità, affermatasi
in parallelo con l'attività di critico militante e di estetologo,
ma soprattutto di critico del gusto. Ed è un rapporto, per
altro, dialogico ed osmotico in tutte le sue direzioni, sempre contraddistinto
– occorre dirlo a definizione immediata di un tale fattore
– da una stretta adesione trascrittiva dell'immaginario di
Dorfles, se non del suo istinto, a tutti gli elementi del fare pittorico.
Negli spessori dei segmenti, nei percorsi delle linee ondulate a
nastro, nell'estensione delle campiture ameboidi, nello stridore
per contrasto dei colori o nella loro uniformità, l'adesione
segue sempre procedure imprevedibili e spontanee. Indotte da un
certo automatismo - al quale non è estranea la conoscenza
della "scrittura" surrealista -, queste ultime innescano,
con combinazioni varie, sia l'inseguimento del segno da parte dell'artista
e viceversa, sia lo scavalcamento e la collisione tra segno e segno
su perimetrazioni intersecanti e su concatenamenti nitidi (non senza
un sentimento di piacevole ed elegante gioco, di sottile e provocatoria
ironia, proprio della personalità di Dorfles).
All'interno
di tali procedure ed annodato ad esse, vi è quindi una sorta
di filo illogico degli elementi – eosi lo definisce Paolo
Campiglio, in una recente riflessione –, un filo che entra
ed esce spesso all'insaputa dell'autore, dall'intima trama del dipinto,
che ne in-forma la consistenza e ne orienta le aperture di `crescita
figurale', in una condizione di continua instabilità dell'equilibro
compositivo. Per altro, lungo tale filo, il dispiegamento degli
elementi pittorici, anche quando sono tracciati con una più
o meno esplicita allusione di figuratività (e lo sono quasi
sempre, onde evitare di "cadere in una forma di nuclearismo
e di informale"), svuota questi stessi di ogni possibile senso
rappresentativo o contenuto simbolico, per rivendicare le inter
– relazioni nella loro paura autonomia, per qui essi sono,
e nell'essere tendono a significare; e questo, in coerenza con quel
concetto di Arte Concreta teorizzato da Dorfles a partire dal 1948,
sul riferimento alle contemporanee esperienze europee. A quell'anno,
infatti, risale – come è ormai ampiamente noto, ma
è sempre opportuno ricordarlo – il Movimento Arte
Concreta (MAC), la cui costituzione, decisa con personalità
molto eterogenee tra loro, se non contraddittorie, come Bruno Munari,
Atanasio Soldati e Gianni Monnet, veniva motivata dall'esigenza
di assumere una posizione di contrasto con la "tanto diffusa
voga dell'astrazione" di matrice geometrico-costruttivista
e neoplasticista.
Al
contrario di quest'ultima, l'Arte Concreta – ebbe a dire Dorfles
presentando la mostra di Galliano Mazzon alla Libreria Salto di
Milano – "è basata soltanto sulla realizzazione
e sull'oggettivazione delle intuizioni dell'artista, rese in concrete
immagini di forma/colore ...: (immagini) miranti a cogliere solo
quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è così
ricco il mondo dei colori –.
Qualche
anno dopo, rispondendo ad alcune domande poste da Tristan Sauvage,
Dorfles sarà ancora più esplicito. "La mia pittura
– dirà – trae la sua ragion d'essere, come è
ovvio, da un'intima necessità di manifestare, attraverso
un mezzo espressivo a me congeniale, le immagini che affiorano alla
mia mente; in altre parole di visualizzare le più urgenti
espressioni conscie ed inconsce che mi si affaccino. Per questa
ragione la mia pittura è sempre stata orientata secondo un
modulo grafico-plastico lontano da ogni razionalità e da
ogni costruttivismo". E nel merito della sua collocazione,
pur respingendo "le distinzioni in ‘scuole’ e ‘correnti’
(che non possono essere che arbitrarie e di comodo), egli preciserà
di appartenere "a quella corrente di concretismo (o astrattismo
che dir si voglia) organico e non geometrico"'.
[…]
Grande interesse, però, suscita l'intervallo allorquando
si approssima a quella figura teorico-metodologica che è
stata definita come campo compositivo – quasi per effetto
di un involontario ricalco della Teoria della polarità, espressa
da Paul Klee. Omologo al campo d'immanenza di natura filosofica,
il campo compositivo è anch'esso una figura che esprime –
secondo Gilles Deleuze e Fèlix Guattari, a cui si deve la
definizione – una condizione ‘pre-filosofica’
e ‘pre-concettuale’ nella quale non si predispone la
compiutezza dei concetti, bensì la loro dinamica, il movimento
nell'infinitezza del finito. Proprio perchè il campo compositivo
– si può precisare, sviluppando l'analogia –
"è prefilosofico e non opera già con i concetti,
esso implica una sorta di sperimentazione" in cui si danno
solo eventi, tensioni, energie, in cui "il pensiero non pensa
ancora". Un gesto supremo, d'altro canto, sarebbe "non
tanto pensare il piano di immanenza (o il campo compositivo), quanto
mostrare che esso è là (...). Pensarlo come il fuori
e il dentro del pensiero, il fuori non esterno o il dentro non interno".
Nel caso delle opere di Dorfles, questo gesto è certamente
presente; e lo è nella consegna dell'intervallo alle distinte
pulsioni e posizioni delle campiture, così come si attestano
nel corso del loro divenire formalizzante.
Dietro
le opere di Dorfles, tuttavia, non c'è solo il riflesso dell'Arte
Concreta e del MAC; altri ne sono presupposti e altri ne conseguono,
in ragione di quegli articolati riferimenti culturali la cui amplificazione
negli anni ha delineato l'Erlebnis-Errfahrrng dell'autore. Un primo
riflesso – come è ormai noto – è quello
derivante da una giovanile esperienza di conoscenza per l'antropo-teosofia
teorizzata da Rudolf Steiner. Realizzata nel 1934, durante un soggiorno
a Dornach, nei pressi di Basilea, essa si determinò sulla
finalità di porre ascolto ad un ciclo di conferenze tenute
dagli allievi del filosofo austriaco, morto nel 1925. L'interesse
di Dorfles, in parte polarizzato anche dalla qualità dei
dipinti visti in quella sede, fu, però, "prevalentemente"
– anzi, all'inizio, esclusivamente – teorico e critico.
La caratterizzazione che ne conseguì fu una stesura fluidificata
e mobile del colore, nelle cui sequenze di riverberi si scioglieva
e sconfinava qualsiasi principio di distinzione, prevalendo la pura
immaginazione della metamorfosi e del divenire. La caratterizzazione,
inoltre, trovò un rispecchiamento nei titoli, anch'essi visionari,
tra i quali, Paesaggio con volto umano, 1934, Entità benefiche
e malefiche, 1935, Croce lunare, 1935, Due forze avverse, 1935,
Forma blu console, 1935, Montagna incantata, 1936 Larve azzurre.
1937, Metamorfosi, 1938. Sono titoli – lo si constata subito
– dietro i quali agisce una cosmologica di ispirazione steineriana,
rivolta ad affermare il bisogno teleologico di un superamento della
condizione degli opposti e degli inconciliabili, per pervenire ad
una fusione intima e molecolare degli stessi – nel nucleo
fenomenico della quale, su una totale assenza del tempo, simile
a quella del mito al suo primo formarsi, è racchiusa l'unità
spirituale dell'uomo con la natura, sentita e vissuta nella profondità
dei suoi ritmi.
Tra
gli avvenimenti, di grande importanza sarà la mostra Arte
astratta e concreta tenutasi a Milano nell'inverno del 1947, sullo
sfondo di vivaci fermenti culturali. Questa mostra, infatti –
che era stata preceduta da quelle del 1945 e del 1946, rispettivamente
presso le gallerie milanesi Bergamini e Ciliberti, e sarà
seguita da quella ‘storicizzante’ organizzata da Max
Bili nel 1960 – darà la possibilità di osservare
una prima ed ampia panoramica delle tendenze nazionali ed internazionali.
Furono infatti esposte opere di Kandinskij, Vantongerloo, Vordemberge,
Gildewart, Herbin, ma anche Arp, Bill, Klee, Bodmer, Graeser, Hinterreiter,
Leuppi, Lohse, affiancate a quelle degli italiani Licini, Munari,
Rho, Veronesi, Sottsass. Tali opere misero in evidenza sia le discontinuità
e le continuità rispetto al recente passato, sia le potenzialità
insite nelle nuove quanto diversificate posizioni della ricerca
artistica del momento. In tale occasione, come era già evidente,
Dorfles si riconfermerà più ampiamente nell'evoluzione
dei suoi connotati di personalità, mostrando una pittura
fatta di "immagini fantasticamente diramate, dove sono individuabili
assonanze (...) e sintonie quanto mai tempestive con il clima europeo".
Ma
prima ancora degli avvenimenti a cui si è accennato, che
daranno spessore alla formazione di Dorfles, questa stessa era già
decisamente attestata, anche dal punto di vista teorico, sul riferimento
ad alcune personalità fondative delle avanguardie storiche
e a quelle che ne prolungavano e ne rielaboravano i contenuti linguistici.
Presenti sul tratto che si snoda dal Futurismo al Surrealismo, dalla
Metafisica all'Astrazione, tali personalità costituirono
una sorta di campo d'immanenza all'interno del quale fu possibile
a Dorfles avviare l'esplorazione delle proposizioni artistiche,
e con esse alle molteplici influenze ed intersezioni. Queste riguardarono,
in particolare modo, le personalità di Van Doesburg, Kandinskij,
Klee, Mirò, Arp; ma anche il trapassamento verso quelle di
Tanguy, Kupka, e di altri, per non dire quelle di ambito nazionale.Se
si vuole un riscontro a ciò, esso è tutto nelle assonanze
e nelle frequentazioni stilistiche indotte; è – per
dare un'indicazione di fondo – in tutte quelle opere nelle
quali Dorfles applica lo stesso automatismo trascrittivo-metamorfico,
o quasi, che consentì a Yves Tanguy e ad André Masson
di realizzare, negli anni Venti, i Cadavres exquis.
Altrettanto
determinanti, però, saranno per Dorfles le personalità
di Kandinskij e di Klee. Osservate direttamente già nel 1929.
in occasione di una mostra in Germania, le loro intersezioni riveleranno
sia una comunanza di sensibilità per l'astrazione e per una
fenomenologia rivolta ad una "merce volonté de dépasser
les frontières expressives", sia le reciproche divaricazioni
di metodo e di risoluzione linguistica.
[…]
E
sarà proprio su una processualità così intesa
che Dorfles concentrerà la sua attenzione, spostandone però
l'accento sugli elementi formali e formativi che la rendono possibile;
che vedrà, in particolare, l'insorgere della linea come vettore-valore
temporalizzante, dotato della capacità di pro-durre la dinamica
spaziale del campo compositivo: di intro-durre in esso le condizioni
proprie del suo da farsi in un totale vuoto di storia. È
quindi sulla linea e sulle modalità di attraversamento del
campo compositivo che egli realizzerà il maggiore e forse
più vero contatto con la poetica di Klee,artista –
è bene ricordarlo – la cui produzione grafica supera
di molto quella pittorica. In altri termini, è a partire
dall'esempio di Klee – e dalle sue avventure di linee, per
dirla con Henry Michaux – che Dorfles condividerà quel
modo di "disegnare senza avere in mente alcun soggetto preciso",
facendo un corto circuito tra la mano e l'occhio, innescato da "uno
stimolo iniziale ed inconsapevole". Di conseguenza, pur nell'evidenza
dei diversi presupposti teorici e metodologici, la linea di Dorfles
tenderà a muoversi come un sismografo, creando liberamente
ed apertamente un percorso di eventi in divenire, ricco di accidentali
somiglianze.
Si vedano, quindi, i disegni, soprattutto quelli più recenti.
Si veda, ad esempio, tra i tanti, quello in cui la frase-titolo
– Ecco, ad es. come un punto può diventare la matrice
di un volto – compare come condizione di sviluppo della linea.
Questa, generata da un punto fermo – che è lo stesso
nel quale Klee individua l'agente del movimento originario e dal
quale deriva la ligia con le sue "aforistiche ramificazioni",
– si curva, si spezza, si ricurva ancora, mostra i suoi profili
e conquista la misura del campo compositivo; alla fine rilevando
ed inglobando la frase-titolo, si trasforma in un volto amebico:
in una matrice di volto (scimmiesco, mostruoso).
A
volte, però, la linea può essere generata da una lettera:
ad esempio, da una Z che si prolunga per caduta formando delle piccole
rientranze quadrate e delle sacche, di cui l'ultima è una
dilatazione allusiva. Qui la linea si ricarica per una risalita
verticale e per un intreccio con la precedente, a meno di un'improvvisa
deviazione sotto forma di freccia nel tratto finale, in prossimità
di una d minuscola con il numero 80, che è la sigla dell'autore
e l'anno del disegno.
Questa
d può anche costituire una sorta di leva iniziale nello svolgimento
in risalita della linea. Anche in questo caso, essa si avvolge e
forma delle anse, perde dei pezzi, si riavvolge ancora con un'inversione
direzionale; così, nel tratto ultimo, forma un vaso-cuore
dal quale fuoriesce una freccia – forse un inconscio ripensamento
al mito eterno di Cupido. Si sarà notato, però, che
in questi disegni, come in tanti altri, quasi sempre il percorso
della linea è riconducibile a due movimenti o azioni motorie
essenziali: il primo è di libera ‘andata’ o di
‘discesa’, con la realizzazione contestuale di un campo
compositivo e del suo svuotamento rispetto ad ipotesi narrative
di varia natura: ed è quindi un movimento desemantizzante.
Il secondo, invece, di ‘ritorni’ o di ‘risalita’,
impresso sul primo, se non da esso condizionato, è decisamente
ri-semantizzante, essendo rivolto a molteplici aperture della trama
segnica, con relativi effetti estetici. E tra le tante aperture
– oltre quella che legge nel percorso della linea una sorta
di continuità infinita, per cui essa si propone come il filo
illogico che attraversa tutti i campi compositivi della grafica
di Dorfles, andando anche oltre la stessa – vi è quella
orientata verso un ritorno di più ampia portata, connotato
da una ri-semantizzazione di risvolto, di piega. Ed è questo
ciò che ottiene Dorfles – che così si offre
nel contempo ad una risottolineatura delle coordinate complessive
della sua formulazione, di materiale minino, nel quale convergono
tutti i ‘ritorni’ della sua produzione grafica. Per
materiale minimo – che è, ovviamente, un concetto estetologico
valido per ogni artista, sia esso pittore o scultore, poeta o scrittore,
attore o musicista – Dorfles intende lo schizzo, l'abbozzo,
il non-finito, l'embrionale, il magmatico: tutto ciò che
"può diventare la vera matrice di qualcosa di più
– e forse di meglio – dell'Opus Magnum: il Poema, la
Statua, il Romanzo, la Sinfonia. "Tutte le scorie che lo scrittore
strappa al suo poema o al suo racconto; tutti i minuti arabeschi
che il pittore cancella con le sovrapposte stesure del colore; tutti
i ripensamenti poetici, musicali, pittorici, che rimangono lettera
morta destinata al cestino dell'immondizie, sono invece spesso le
uniche germinali intuizioni da cui può prendere l'avvio l'opera
autentica. È allora, in questo intervallo tra il momento
ancora miocinetico del gesto e quello ponderato della costruzione
che si cela – non sempre ma spesso – l'unica traccia
di quel tempuscolo o corpuscolo di nuovo, di genuino, di automatico,
di cui noi stessi non c'eravamo accordi, ma che costituisce l'unica
autentica base d'ogni nostra successive creazione". Il concetto
di materiale minimo, tuttavia, non è assoluto nè limitato
o limitante; bensi, esso ne contiene al suo interno altri, come
quello della pausa intervallare, che è cosa evidente se solo
si considera la problematicità del rapporto tra il materiale
e l'opera finale a cui esso tende, che non è necessariamente
quella compiuta; come quello, soprattutto, della contaminazione,
che avviene anche sul semplice accostamento paratattico del segno
all'immagine, della parola al segno, del suono alla parola pittore
che non osa scrivere, lo scrittore che non osa disegnare, spesso
riesce a ritrovare nel linguaggio che non gli è proprio,
di cui non è schiavo (per antico mestiere o cristallizzata
consuetudine) quella freschezza di espressione che solo l'ingenuo
o l'inesperto possiedono. E il ritorno al naif dell'impervoluto;
è la rivincita dello sgrammaticato, dell'asintattico, dell'ambiguo".
In parallelo e a sostegno del concetto di materiale minimo, Dorfles
ha realizzato anche un disegno-testo, in cui l'uno è forma
e contenuto dell'altro. Coerente nella contiguità con il
Der Hut di Beuys, o con il Dollar sign di Andy Warhol, o con la
figura abbozzata di Samo (Basquiata J. M.), o con quella schizzata
da Mimmo Paladino, esso consiste in una linea discendente curva
che si trasforma in parole – un minimo di contaminazione /
tra parola e immagine, tra Simmetrico e Asimmetrico, tra minimo
– appunto – e massimo / non può realizzarsi che
attraverso / l'espandersi del segno verbale / un segno grafico che
non ne / sia l'equivalente, ma il proseguimento".
Le parole, a loro volta, si trasformano in un impreciso animale
fantastico, che è una sorta di cavallo marino-drago-cervo-renna
ottenuto su una sequenza di curve concave e convesse, terminanti
con una voluta e con una d, affiancata all'anno 80. Non si può
tralasciare, infine, un piccolo materiale minimo che è un
disegno en marge, ma non per questo meno significativo, rappresentante
una specie di figura alata, ottenuta con un tratto rapido, quasi
infantile. Depositaria di un pensiero a fumetto – il sincronico
batterà sempre il diacronico –, la figura è
quindi un anghelos, vale a dire un `messaggero'. Come tale, essa
rimanda alle immagini e ai disegni di angeli che percorrono insistentemente
l'opera di Klee; rimanda, in particolare, a quell'Angelus Novus
che, acquistato da Walter Benjamin nel 1920, ne accompagnerà
l'infelice esistenza come oggetto di meditazione. Per Benjamin l'Angelus
Novus di Klee è soprattutto quello della storia, il quale
ha il viso rivolto al passato. Ma non solo: laddove "davanti
a noi appare una catena di eventi, egli vede un'unica catastrofe,
che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai
suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre
i frammenti. Ma dal paradiso soffia una bufera (...). Questa lo
spinge irresistibilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle,
mentre il cumulo delle macerie cresce verso il cielo davanti a lui.
Ciò che chiamiamo il progresso è – dice Benjamin
– questa bufera. La figura dell'angelo, quindi, naufraga rovinosamente
`nell'immanenza della storia', che è per sua definizione
diacronica. Solo un balzo – che Benjamin intravede nella rivoluzione-rivelazione
– può superare un tale naufragio, a condizione però
che "non salvi il passato storico in una ‘immagine eterna’
di esso, ma lo tragga fuori dal suo continuum nel tempo-ora",
svuotandolo e ricollocandolo nella sincronia dell'evento. Ed è
questo della sincronia, dopotutto, anche il senso di un ultimo disegno,
realizzato da Dorfles nell'estate del 2005, dopo aver curato la
mostra di Arnaldo Pomodoro sulle mura greche di Paestum. Si tratta
di un'incisione leggermente acquerellata in seppia, con la quale
Dorfles ha voluto rileggere il motivo della Tomba del tuffatore,
datata al 480-470 a.C. ed esposta nel locale Museo Archeologico.
Anche in questo caso l'opera è riconducibile al principio
del materiale minimo, essendo stata rapidamente risolta su profilature
separate e a linea continua, allusive agli elementi che configurano
la celebre lastra tombale. Contenuti in una cornice perimetrale
– che è il ricalco del limite decorativo e fisico della
lastra – gli elementi sono forme sinuose ed ampie di alberi
e di altro, bloccate nel loro movimento ondulatorio neli'attimo
di un'eterna attesa. A ben vedere, però, quella del tuffatore
di Dorfles non è solo una sospensione nello spazio vuoto
del mito – di un mito che, per altro, rincorre circolarmente
se stesso, lasciando di ciò una traccia che ha i colori sbiaditi
e terrosi della lastra; è anche la testimonianza di un'avvenuta
immersione disperdente, con la conquista di un insondabile spazio
liquido. Ed è facile capire che un tale spazio è placentare
e che il liquido è densamente amniotico; che entrambi sono
il prodotto di una ‘risalita’: non verso un'origine,
bensì verso un ‘evento’ estremo e biologico,
infinitamente distante da una qualsivoglia preistoria.
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Con Lea Vergine e Henry Martin
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Dopo
l'intervallo
Martina Corgnati
Historia Naturalis. Lungo e affusolato, la caratteristica
testa a uncino e la spalla prensile, il Fustigatore avanza nell'azzurro
con passo sicuro ed elastico. Alle sue spalle, penzolanti dal braccio
destro, corpi ameboidi in forma di girandola sembrano scaturire
dal suo gesto ampio per ricollegarsi poi all'appendice trioculare
che s'innesta direttamente sulle protuberanze inferiori. Oscillante,
ondulatorio, curvilineo, il moto si propaga per onde gialle dalla
frequenza irregolare. La tipica appendice prensile, artiodattile,
sostiene senza sforzo un corpo filamentoso in vibrazione: è
lo staffile, di cui il fustigatore si avvale nelle sue prestazioni
quotidiane. Il tono rosso-freddo, elegante, appare diluito e solcato
da striature gialle lungo il rizoide, mentre si concentra verso
l'estremità superiore, rendendo manifesto così lo
stato di relativa eccitazione in cui l'esemplare si trova, malgrado
l'anteride conservi una consistenza gelatinosa e la coloritura giallo-viola
dei gameti immaturi.
Ecco l'ultimo nato nella numerosa famiglia di personaggi che Gillo
Dorfles ha dipinto negli ultimi venticinque anni circa, vale a dire
da quando ha ripreso a pieno ritmo l'attività pittorica.
Per scherzare, abbiamo voluto provare a descriverlo con fraseggio
e terminologia ironicamente pseudo-scientifica, come se non si trattasse
di una creatura d'invenzione ma piuttosto di un organismo scoperto
da poco, magari con l'ausilio del microscopio elettronico o di altri
strumenti che consentono quella visione dell'infinitamente piccolo
verso cui Dorfles ha sempre dimostrato una spiccata curiosità
e interesse. Una suggestione analoga è offerta infatti da
un altro dipinto, Palude (anch'essa dell'estate 2006), un coagulo
di forme ameboidi dalla consistenza incerta che sembrano galleggiare
nel liquido amniotico e riprodurre uno di quei paesaggi d'aspetto
vagamente surreale che si formano sui vetrini in laboratorio. Gillo
Dorfles, dicevo, è sempre stato incuriosito da questo genere
di visioni di cui ha sottolineato in più occasioni il potenziale
immaginifico: "[...] l'uomo è divenuto cosciente di
tutto un nuovo ‘panorama’ (quello appunto che Gyorgy
Kepes ha definito "New Landscape") che prima dell'avvento
di questo medium (la fotografia scientifica) gli era del tutto ignoto.
Si tratta dell'immenso frasario di forme che si cela nel microscopio
e nel telescopio: le forme – un tempo studiate soltanto dal
punto di vista scientifico – dei batteri, degli infusori,
delle cellule, degli atomi, dei microcristalli, e quelle remote
e gigantesche delle nebulose, delle comete [...] l'uomo che, nella
sua rivolta contro il naturalismo pittorico, s'era svincolato dalla
rappresentazione del mondo esterno rifugiandosi nella creazione
di immagini astratte, senza addentellati con la natura, si vede
nuovamente obbligato a tener conto di questa inesauribile fonte
di forme, più o meno invisibili a occhio nudo, che costituisce
una miniera di inedite e singolari possibilità espressive."
Con questa lunga citazione non si vuole però certo insinuare
l'idea che il lavoro del Dorfles artista si basi tutto o in parte
sulla traduzione pittorica di immagini prelevate dal mondo della
fotografia scientifica e che quindi si proponga, fra l'altro, come
un'espressione tutto sommato segretamente realista benché
d'apparenza astratta; si vuole, piuttosto, richiamare l'attenzione
sulla complessità di stratificazioni e di implicazioni di
un discorso pittorico in superficie così felicemente compatto
e addirittura semplice, "curioso, onnidivorante e spensieratamente
logico" secondo la brillante aggettivazione di Roberto Sanesi,
e che però si è alimentato e continua ad alimentarsi
di interessi vastissimi, curiosità insaziabili e spirito
critico pervicace.
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Gillo Dorfles al
pianoforte
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Pittore
e non. Scandita in tre lunghe fasi più o meno (anni
trenta e quaranta – epoca del MAC – dalla metà
degli anni ottanta a oggi), suddivise da lunghe pause di silenzio
creativo ed espositivo punteggiate soltanto da qualche sporadica
avventura grafica e disegnativa del tutto privata, la produzione
artistica di Gillo Dorfles dovrebbe essere finalmente osservata
con serenità da parte di una critica sempre segretamente
imbarazzata dal confronto con il collega e soprattutto con l'eccelso
teorico del gusto, e valorizzata come un autentico e profondo filo
di Arianna: il "filo illogico" che ha sostanziato d'una
sotterranea costanza e continuità tutte le frequentazioni
dell'intellettuale, le tempestive intuizioni del teorico, le polimorfe
curiosità del critico e del filosofo, contribuendo così
non a disperdere ma anzi a tenere insieme tutte le sfaccettature
di una personalità senza paralleli né seguaci in Italia,
(non solo in Italia). Questa produzione, in cui Dorfles ha riposto
forse le sue energie più preziose e le sue ambizioni più
inconfessabili, nonostante la dedizione all'attività didattica
e alla stesura dei suoi numerosi e brillantissimi saggi, è
incominciata nell'infanzia, vissuta fra Genova e Trieste, le città
dei suoi genitori: "ho dipinto da sempre, si può dire",
racconta, "al ginnasio facevo degli sgorbi sui margini dei
libri di testo. Dico sgorbi ma in realtà li tenevo da conto
anche allora e alcuni compagni li ammiravano molto: difatti erano
originali. Ho continuato a disegnare finché ho fatto veri
e propri quadri intorno ai vent'anni. A tempera a olio. Li tenevo
per me, aspettando il futuro.” Forse la passione di forme
e colori gli viene instillata dalla madre, pittrice dilettante;
la tecnica invece la impara "a bottega", frequentando
lo studio di Leonardo Borgese dove studia disegno dal vero. Ma intanto,
nell'adolescenza triestina e più tardi frequentando l'università
a Milano e Roma, Dorfles fa anche altri incontri che saranno fondamentali
per la sua formazione e le sue scelte future. |
Con Enrico Baj, 1983
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Ritratto
dell'artista da giovane. Trieste. "Ho lasciato Trieste
a due riprese: quando avevo tre o quattro anni perché era
scoppiata la Prima Guerra Mondiale, per cui l'infanzia l'ho trascorsa
a Genova, la città di mia madre. Poi ho lasciato Trieste
dopo il ginnasio e il liceo per andare all'università. Si
tratta di due ricordi molto diversi. Del primo abbandono di Trieste
ho soltanto una viva memoria: il giallo e il nero della città
imbandierata dagli austriaci. Questo particolare mi è rimasto
impresso nel tempo perché l'accordo giallo e nero ancora
oggi è uno dei rapporti di colore che mi piace di più."
Dopo la ritirata strategica a Genova, Dorfles dunque trascorre a
Trieste la giovinezza, frequentandovi ginnasio e liceo. All'epoca
la città, diventata nel frattempo italiana e percorsa da
altre bandiere comprese quelle dannunziane, era particolarmente
vivace dal punto di vista culturale: c'erano Svevo, Umberto Saba,
Edoardo Weiss, allievo diretto di Freud, che introdusse precocemente
la psicoanalisi nella città adriatica; Joyce vi aveva abitato
per dieci anni; nell'ambiente artistico, complessivamente tardo-ottocentesco
e simbolista, spiccava la personalità di Arturo Nathan, che
lascia un segno evidente sullo stile in formazione del giovane Dorfles,
Carlò Sbisà e alcune brillanti promesse come Leonor
Fini e Leo Castelli, futuro gallerista della Pop Art. In questo
giro di amicizie, artistico, psicoanalitico e letterario, oltre
che teosofico, si individua uno snodo cruciale della cultura e della
personalità di Dorfles che, non a caso, sceglie di studiare
medicina e specializzarsi in psichiatria, coltivando però
anche la critica (dagli anni trenta collabora alla "Fiera Letteraria"
e alle "Tre Arti") e tentando di migliorare le sue naturali
doti di disegnatore, a quanto pare non troppo pronunciate. Intanto
a Trieste il suo sguardo si rivolge a Nathan, che esordisce nel
1928 esponendo alla Biennale di Venezia e a Milano e che si muove,
in quel momento, fra un simbolismo vicino alla Secessione di Monaco
e la Metafisica, con un linguaggio inizialmente suggestivo, introverso
e non lontano da certe immagini fiabesche e visionarie della Von
Werefkin (per esempio in Fiume tropicale), poi sempre più
assorto e italiano nelle memorie classiche pur immerse in nordiche
luci livide e plumbee d'irrequietezza. Un linguaggio che piaceva
a De Chirico, e di cui Dorfles critico esordiente nota "la
serietà tecnica, la classe e lo stile", oltre che la
preziosità dei colori e la sapienza degli impasti. Il Dorfles
pittore però da Nathan non prende solo gli impasti ma la
morfologia innaturale di certe rocce e paesaggi, l'atmosfera visionaria
e, tralasciate le memorie classiche che non lo riguardano affatto,
l'afflato fiabesco, innaturale, in alcuni casi molto prossimo agli
esiti coevi della Von Werefkin, non per nulla anche lei antroposofa
e vicina a temi e modi espressivi dei circoli steineriani.
Da Nathan passa però anche la "variante triestina"
della strada che porta in direzione del Surrealismo, imboccata infatti
da Leonor Fini (1907-1996) seppure con qualche riserva. Nata a Buenos
Aires da padre argentino e madre triestina, che la porta in Italia
piccolissima per fuggire da un marito violento e repressivo, Leonor
Fini esordisce a Milano appena un anno dopo Nathan e in quella fase
partecipa con lui e con Sbisà a diverse collettive. Poco
dopo il Trenta si trasferisce a Parigi dove, a contatto con i surrealisti,
mette a punto tino stile onirico, bizzarro e inquietante, prossimo
al realismo magico, le cui radici prime potrebbero essere da rintracciare
però proprio a Trieste, nell'influenza di Nathan e nell'amicizia
con Dorfles, più giovane di soli due anni. Non a caso anche
lui si muove inizialmente nella stessa orbita, con un'accentuazione
però degli aspetti esoterici e della funzione in qualche
misura rivelatrice dell'immagine, che già nel 1935 appare
del tutto affrancata da qualunque tratto o ricordo naturalistico.
Se, infatti, la Metafisica "classica", di De Chirico,
Savinio e in parte anche di Nathan, tende a innestare il cuneo del
paradosso logico e visivo entro le coordinate di un'apparente normalità
spazio-temporale, fino al cortocircuito che paralizza la coscienza
nella rigidità dell'istante sospeso, Dorfles interviene sullo
spazio e sulle forme confondendo sostanze aeree, liquide, solide
e proiettando fantasmi fluttuanti in un etere denso di forme simboliche
e corpi celesti. Questi primi paesaggi (Paesaggio iperboreo, Forane
glaciali, Croce lunare, Forma blu con sole, Cavallo giallo e radice
viola) sono visioni cosmiche dove si muovono entità agitate
da forze puramente spirituali e dove presto si rivela una sotterranea
tendenza all'astrazione: a sostituire, cioè, una sintassi
inizialmente narrativa con semplici intrecci di forme organiche
e inquieti moti lineari talvolta non privi di un certo valore decorativo,
più evidente in seguito. D'altra parte, in questa fase (anni
trenta), i numerosi contatti con gli ambienti intellettuali più
avanzati della penisola (Dorfles, che si muove in lungo e in largo
per l'Italia e non solo, incontra e frequenta il circolo di Felice
Casorati a Torino, i più avanzati artisti romani, da Cagli
a Mafai a Capogrossi e gli astrattisti del Milione a Milano) consentono
al giovane artista e critico di aggiornarsi coltivando nuove curiosità
e nuovi gusti, e di affilare nel contempo le sue armi critiche e
interpretative. La guerra divide sorti e destini: Nathan, colpito
dalle leggi razziali, è costretto al confino nelle Marche
e poi deportato dopo l'8 settembre a Bergen Belsen. Muore subito
dopo la liberazione per le sofferenze patite, a cinquantaquattro
anni. Leonor Fini è ormai stabilmente a Parigi. Dorfles invece
trascorre gli anni della guerra in Toscana, nel minuscolo borgo
di Lajatico, dove scrive poesie, dipinge tele dagli eleganti intrecci
lineari e modella alcune piccole terrecotte invetriate, dal sapore
organico e i volumi morbidi, memori in qualche misura di Arp. Sono
corpi dalla consistenza asimmetrica, vagamente antropomorfa, che
sembrano sempre sul punto di trasformarsi in virtù di un
segreto e sotterraneo processo metamorfico.
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Gillo Dorfles,
2006
Con
Renzo Piano - Berna 2006
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MAC.
Poco dopo la guerra, l'attività pittorica di Gillo Dorfles,
ormai insediato stabilmente a Milano, acquisisce una dimensione
pubblica nell'ambito del MAC Movimento Arte Concreta, fondato dallo
stesso Dorfles nel 1948 insieme a Gianni Monnet, Atanasio Soldati
e Bruno Munari: artisti quanto mai differenti l'uno dall'altro per
intenzioni espressive, stile e posizioni teoriche oltre che storia
personale e generazione, ma accomunati da una comune volontà
di agitare le acque un po' stantie della cultura artistica italiana
alla luce delle importanti esperienze astratte compiute fra il Ventennio
e il dopoguerra in ambito svizzero, tedesco e francese, mostrate
per la prima volta in Italia nella storica mostra "Arte astratta
e concreta" allestita al Palazzo Reale di Milano nel 1947.
Dorfles, che conosce bene le lingue e frequenta con disinvoltura
alcuni fra gli ambienti d'oltralpe più intellettualmente
avanzati, condividendone argomenti e letture e importandone esigenze
d'aggiornamento e di superamento di questioncelle provinciali e
banalmente ideologiche come la querelle tutta italiana fra "astratti"
e "figurativi", trova nel MAC lo strumento adatto per
veicolare istanze teoriche molto avanzate, non identificabili né
con il concretismo d'anteguerra né con il neoplasticismo
e gli esperimenti europei nell'ambito di De Stjil e del Bauhaus
vecchio e nuovo; e per dare respiro a un lavoro pittorico ormai
ben definito, a questo punto, nell'ambito della più aggiornata
tendenza concretista europea (e non astratta), che, cioè,
non mirava a "creare opere d'arte togliendo lo spunto o il
pretesto dal mondo esterno e astraendone una successiva immagine
pittorica, ma che anzi andava alla ricerca di forme pure, primordiali,
da porre alla base del dipinto senza che la loro possibile analogia
con alcunché di naturalistico avesse la minima importanza."
Benché sospettoso e insofferente di schemi geometrici troppo
rigidi per una fantasia davvero libera e spontanea, di formule matematiche
e di meccanismi compositivi pianificabili e ripetibili, Dorfles
aderisce al concretismo perché in quel momento è la
corrente in assoluto meno provinciale e più internazionale
in Italia, sufficientemente agguerrita sul piano teorico per potersi
distinguere al primo sguardo da quella fumosa e disordinata messe
di tentativi che molti pittori italiani dell'epoca andavano praticando,
più o meno confusamente, e che sarebbero di lì a poco
confluiti nell'alveo quasi omnicomprensivo dell'informale e dei
suoi parenti più prossimi. Per questo, forse, in una fase
storica caratterizzata da un'entusiastica apertura sul futuro e
dalla fiducia che l'arte potesse incidere sul mondo, sulla società
e sulle relazioni umane, Dorfles mette a fuoco in una serie di scritti
le matrici e le ragioni del fare artistico proprio e degli altri
membri del Movimento, sottolineandone l'autenticità, l'essenza
sorgiva assolutamente individuale, affondata nel cuore di un subconscio
che il Dorfles intellettuale aveva tentato di circumnavigare anche
con gli strumenti dello scienziato e dello psichiatra. Infatti gli
elementi decorativi ricorrenti nei suoi dipinti, anche quando prelevati
di peso da repertori ben consolidati e quasi universali (per esempio
volute, spirali, greche e ondulazioni a S), risultano in qualche
modo necessari, "psicologicamente oggettivi"" per
parafrasare Paolo Fossati. Dorfles li giustifica così: “è
la ricerca precisa e lucida di una determinata forma a guidare la
matita e il pennello: forma che parte da alcunché di già
sperimentato o a quello tende, sia che la mano tracci un segno preso
a prestito da un elemento reale (ma non però copia d'oggetto
naturalistico), sia che si valga di alcuni schemi formali sempre
ricorrenti che, a mio avviso, si possono considerare come i progenitori
di ogni espressione grafica, conscia o inconscia [...] potremo assistere
alla proiezione di archetipi formativi, restati a lungo inutilizzati,
e che oggi riappaiono, diventando i generatori di nuovi spunti plastici."
Questi archetipi generativi si rinvengono ad abundantiam nelle opere
degli anni quaranta e cinquanta, talora come puri elementi lineari
ben separati da sfondi monocromi e piatti, talora come forme, intarsi
di colore che occupano l'intera superficie pittorica; oppure ancora
come semplici capricci della mano, arabeschi di segni che affiorano
e si irradiano attraverso il tessuto denso e sensibile dello sfondo
pittorico, qualche volta particolarmente prezioso e ricercato come
in Senza titolo (rosa) del 1952 oppure in Composizione turchese
del 1955. L'attenzione alla grana, alla materia della pittura traspare,
però, soprattutto laddove meno la si aspetta, cioè
nei Monotipi, una serie di grafiche realizzate a intermittenza per
molti anni fino a tempi assai recenti, imprimendo sulla carta un
originale eseguito su tela o vetro (poi distrutto), secondo una
tecnica sperimentale apprezzata comprensibilmente in una fase aperta
alla sperimentazione e curiosa di tecniche nuove come gli anni cinquanta.
In queste opere Dorfles tenta di interpretare la superficie come
un campo unitario, luogo compatto dove il fenomeno della pittura
si manifesta senza alcuna discontinuità o possibile separatezza
fra linea e superficie, primo piano e sfondo, segno e colore. Il
visibile è un avvenimento che si offre tutto insieme e in
cui Dorfles si immerge con fiducia, forse anche perché protetto
da una distanza data appunto dal procedimento indiretto, dall'interposizione
di un tempo, di un filtro. Patrizia Serra, che per prima ha scritto
di questi materiali e li ha esposti, ha parlato di un "assottigliamento"
della soglia dell'immagine che in essi si manifesta, e dell'intuizione
di un "vuoto" come spazio ulteriore lasciato alla sensibilità,
spazio di senso possibile ancora tutto “da riempire".
Ed è, però, proprio in questo vuoto, in questa rarefazione
prodotta dalla tecnica stessa che la superficie acquista profondità,
compattezza, paradossalmente "pittoricità". Caratteristiche
che ritornano anche nelle ultime, recentissime esperienze grafiche,
ad acquaforte e acquatinta, dove curve, spirali, arabeschi diventano
centri d'irradiazione che sembrano ripercuotesi intorno in un riverbero
d'intensità decrescente, fra concrezioni di colore addensato
e sfumature morbide, senza traccia di linee o clementi troppo netti,
troppo nitidi, troppo separati. Lavorare in negativo, in altre parole,
permette a Dorfles di bruciare le tappe e di annullare la distanza
fra sfondo e superficie, fra prima e dopo. La tecnica grafica fornisce
le condizioni adatte ad attuare il mescolamento di elementi inizialmente
forse disomogenei che nella ricaduta, nella messa in forma indiretta,
trovano una propria saldatura migliore e più compatta che
nella versione pittorica, diretta.
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Gillo
Dorfles fotografato
da De Marco
Gillo
Dorfles fotografato
da De Marco
Gillo
Dorfles fotografato
da De Marco
Gillo
Dorfles fotografato
da De Marco
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In
clandestinità. Con la conclusione, storica e inevitabile,
dell'esperienza del MAC, l'infittirsi degli impegni critici e teorici
e la nuova posizione di docente universitario assunta nei primi
anni sessanta, Dorfles decide di abbandonare l'attività pittorica
e fino al 1985 circa limita le sue esigenze creative a una produzione
grafica occasionale e comunque del tutto privata. Perché?
Lo stesso Dorfles si è espresso varie volte in proposito,
richiamando tutte le ragioni e le circostanze esterne di quella
scelta che deve essere stata tutto fuorché indolore: il tempo
che mancava, l'abito dell'estetologo che andava indossato fino in
fondo, la diffidenza della cultura italiana nei confronti degli
irregolari multitalented come lui. Qui non si vuole certo né
questionare, né riprendere questi argomenti già ben
noti ma solo mettere in evidenza un aspetto finora forse poco osservato
e cioè che la fine del MAC e dell'attività pittorica
di Dorfles coincide con un brusco cambiamento di rotta dell'arte
figurativa, descrivibile per sommi capi come il passaggio dal predominio
dell'espressionismo astratto/informale a quello della Pop Art nelle
sue varie versioni, americane ed europee. In quella fase, cioè,
l'arte incomincia ad assumere nelle proprie strutture sintattiche
elementi tratti di peso dal mondo della cultura bassa, consumistica,
pubblicitaria; non esita a cavalcare espedienti promozionali presi
in prestito dal giovane mondo dei mass media e a dare spettacolo.
Dorfles teorico segue gli avvenimenti con la consueta curiosità
e apertura ma non gli sfugge che quel mondo non è più
il suo e che le periodiche oscillazioni stanno portando il gusto
del momento lontano dall'apprezzamento di un discorso pittorico
come il suo, se non di un discorso pittorico tout court. […]
Gillo Dorfles si era accorto subito dell'intorbidamento concettuale
inerente all'operazione pop e già nel 1968 ne aveva segnalato
almeno una parte del rischio: "Codesto fenomeno, dell'assunzione
nell'empireo dell'arte d'élite di prodotti triviali sottratti
alla produzione standardizzata e disindividualizzata, deve essere
considerato positivo o non significa piuttosto che lo stesso artista
d'avanguardia predilige talvolta quel genere d'arte che in apparenza,
ufficialmente, disprezza?” si domanda preoccupato il critico.
Intanto il pittore, a questo punto, si era già ritirato in
un dignitoso silenzio. Interrotto soltanto verso la metà
degli anni ottanta, con l'esaurirsi delle incombenze universitarie
e l'aprirsi di una nuova stagione delle arti visive, all'insegna
di una piena efflorescenza neoespressionista e transavanguardista.
Narrazioni. In questi ultimi venticinque anni, specialmente ricchi
e felici sul piano creativo, Dorfles ha prodotto opere che mostrano
un'intensificazione della valenza apertamente narrativa o illustrativa
tanto da configurarsi come veri e propri frammenti di "racconto
attraverso le immagini", costruiti con grande libertà
riassemblando insieme pezzi dell'antico e sperimentato repertorio
simbolico e segnico di arabeschi, grafemi, lessemi, macchie e ghirigori.
Da questo precipitato continuamente variabile di unità compositive
sono nati i personaggi ironici e talvolta caricaturali cui accennavo
all'inizio (oltre al Fustigatore c'è anche l'altrettanto
recente Giocoliere dall'aria melliflua, le guance flaccide e le
dita adunche) ma anche superfici puramente astratte, libere articolazioni
di segni, forme e colori senza alcun riferimento alla realtà,
oppure invece raccolte intorno a una qualche specie di significato
riconoscibile, più o meno cosparso di accessori simbolici.
Ultimamente poi, come si è detto, la componente narrativa
e l'invenzione spiritosa, oppure addirittura grottesca, tende a
conquistare spazi crescenti nella fantasia di Dorfles e a farsi
prevalente rispetto alle espressioni puramente grafiche o astratte.
D'altra parte questa vena narrativa non va ovviamente confusa con
un'imprevista insorgenza rappresentativa e in nessun modo realista,
tendenza quella fortemente ideologica, anzi impregnata di ideologismo
conformista, retorico e acritico, nei confronti della quale Dorfles
ha espresso sempre (già nell'immediato dopoguerra) tutta
la propria diffidenza e fastidio. No. Si tratta piuttosto di una
sottile licenza al gioco, all'insinuazione e, al tempo stesso, a
portare un punto o una linea fino alle estreme conseguenze aforistiche,
come scrive D'Andria, citando a questo proposito l'emblematico titolo
di un disegno del 1982, Ecco, ad es., come un punto può diventare
la matrice di un volto.
I personaggi scaturiscono dunque per una specie di generazione spontanea,
"il percorso di un detective che non avendo ancora una prova
certa lascia sul terreno qualche traccia, o ipotesi, senza rinunciare
nemmeno per un attimo, con un notevole senso dell'humour, a nessuno
dei frammenti di possibilità rilevati, diceva Sanesi; è
una specie di deduzione, non dell'intelligenza però, ma della
mano e dei suoi movimenti spontanei, sospinti da una soggettività
profonda e imperscrutabile, che produce dei tipi strani, elastici,
polimorfi e ubiquitari. "Sono ovunque e altrove", continua
Sanesi, "ruotano su se stessi: se si gira il foglio si ritrovano
dalla parte giusta come misirizzi.”
Spetta certamente al compianto critico e poeta l'aver precisato,
con la consueta grazia, le origini almeno parzialmente antiquarie
di queste creature variopinte, l'aver svelato la loro segreta parentela
con certi mobili e pezzi d'arredo ghirigoreggianti e un po' demodé
("tanto è vero che appena mi accade di incontrare un
pleyel o un Louis Seize o un capitonné, malgrado la loro
aria leggermente antiquata, mi sembrano familiari", aggiunge),
mentre è merito di Luciano Caramel d'aver accennato a una
loro speciale sensualità, talvolta esplicita, come nell'allegra
Composizione azzurra (fine anni quaranta), oppure in Dolci seni
(1985), Personaggio rosso e verde (1987), Due profili con due mani
(1987), Robot grigio (1992), Proboscidato con seni (1992), Coniugazioni
eteroclite (1993) e innumerevoli altri. La sensualità e la
sessualità fanno (per fortuna) parte del gioco (della vita)
e Dorfles accenna alla faccenda senza moralismi né esibizionismo,
anzi con gioiosa spontaneità e fragranza. Così attributi
dotati di una certa ambiguità, segni che insinuano, più
che rappresentare, mammelle ed elementi fallici, affiorano qua è
là con vitalità e leggerezza per poi affondare di
nuovo nel magmatico caos da cui sono venuti. Tanto Dorfles procede
cercando di lasciar fare alla mano, di coltivare una specie di riflesso
automatico che lo guida con sicurezza da un quadro all'altro, apparentemente
senza scosse, lungo un solco ininterrotto (il "filo illogico"
lo definisce efficacemente Campiglio) costituito da un tema unico
continuamente variato, da cui è ancora e sempre possibile
far apparire, come dal cappello del giocoliere, un motivo nuovo
e diverso, serio o piacevole o talora quasi grottesco e fumettistico.
Si tratta di un modo di procedere che alcuni hanno associato al
gesto automatico surrealista, paragonando infatti i risultati ottenuti
con i cadavres exquis. Un riferimento indubbiamente suggestivo anche
se, a nostro parere, è necessario introdurre un netto distinguo
fra il segno di Dorfles e il tratto dei cadavres, concepito come
mezzo per provocare una germinazione grafica esuberante e piena
di significato ma limitata a un settore ben circoscritto della superficie
dal quale il tratto fuoriesce solo come appendice protesa verso
un campo ignoto, destinato infatti a un'altra mano che da quel segmento
interrotto riprende una nuova e imprevedibile efflorescenza. In
altre parole: un'opera grafica collettiva dove prevale evidentemente
l'hazard, scandita da rarefazioni che corrispondono ai passaggi
fra le diverse mani, intervalli, per usare una terminologia cara
a Dorfles, non solo espressivi ma operativi, non può costituire
un parametro di confronto completamente convincente per una superficie
intesa sempre come campo compositivo unitario, per dirla con Raffaele
D'Andria, da attraversare e percorrere mediante una linea ininterrotta,
"sismografo che crea liberamente e apertamente un percorso
di eventi in divenire, ricco di accidentali somiglianze. Quello
di Dorfles è un percorso dunque, non molti percorsi autonomi
uno dall'altro: una sola linea non molte linee protese, a volte
con evidente forzatura, l'una verso l'altra. E poi non va minimizzata
la differenza che c'è fra disegni o espressioni grafiche
come i cadavres exquis di Masson o Tanguy e dipinti come quelli
di Dorfles, dove colore, tono, contrasto e spesso anche sfumature,
densità e trasparenze hanno un ruolo importante, primario,
cioè non derivato dalla creatività intrinseca di linee
e segni. Si intende dire che la scelta pittorica, invece che grafica,
ha un preciso valore estetico e un significato operativo che non
va minimizzato. Dorfles, inoltre, pur manifestando come critico
e teorico da sempre un'esplicita curiosità per le invenzioni
surrealiste, non ha mai incoraggiato un'interpretazione dei suoi
quadri troppo sbilanciata in quella direzione, evidenziando invece
un proprio appassionato interesse nei confronti di Kandinsky e ancora
più di Klee, sfociato in un insieme di autentiche affinità
elettive coltivate "esaltando le spontanee ricorrenze di elementi
semplici, ripetitivi, dotati di un valore simbolico e grafico in
cui, in qualche misura, si arriva a riconoscere qualcosa di universale";
e rivendicando infine, giustamente, l'originalità del proprio
lavoro e l'autonomia dall'ambiente artistico che lo ha circondato
nel tempo.
Un'originalità fondata su elementi molto profondi, almeno
in parte innati e affatto individuali (quali per esempio la calligrafi)
ma che naturalmente si sono precisati nel tempo, assumendo la loro
forma definitiva a contatto con un bagaglio di cultura via via sempre
più ricco. Questa combinazione unica ha prodotto "opere
autonome, al di là di ogni raffronto [...] di cui sono persuaso
che siano soltanto mie e che, di conseguenza, rappresentino qualcosa
di unico".
Osservandole, in effetti, appare chiaro quanto poco Dorfles artista
si sia adoperato per assorbire o rispondere in qualche modo agli
imperativi stilistici e formali provenienti dal contesto culturale
che lo ha circondato e lo circonda e abbia, invece, concentrato
tutti i suoi sforzi per elaborare uno stile proprio, appunto originale,
tornandovi sopra per anni e anni e procedendo per scarti minimi,
per accorgimenti progressivi, senza strappi bruschi né passaggi
ardui.
Una riprova di tutto questo è che, in fondo, ogni opera appare
intimamente concatenata a tutte le altre, come la tappa di un ininterrotto
percorso metamorfico, come un enunciazione sempre intrinsecamente
provvisoria, fase di un processo e non mai punto d'arrivo stabile,
oltre al quale sia opportuno o necessario inserire un bel punto
a capo. Giustamente diceva Sanesi che a Dorfles interessa il processo
non l’arrivo, il lavoro, potremmo aggiungere, e non l'opera
nel senso di masterpiece e meno che meno di monumento. Anzi, questi
quadri sembrano sempre sul punto di trascolorare o di metamorfizzare
l'uno nell'altro, sono immagini dotate sì di equilibrio e
significato individuale (dal punto di vista simbolico e compositivo),
ma sempre in qualche misura provvisorie e non veramente separate
dal flusso fantastico e inventivo che in profondità continua
a scorrere. Insomma, instabilità nella continuità:
qualche anno fa Mirella Bandivi collegava questa modalità
poetica e operativa alla teoria dell'Urpflanze formulata da Goethe
e ampiamente ripresa da pensatori e filosofi di lingua tedesca,
ben noti a Dorfles già dagli anni trenta.
Resta da chiedersi quali siano le connotazioni specifiche, i caratteri
unificanti di questo procedere lieve e ininterrotto da una tela
all'altra e da un disegno all'altro. Si tratta, a mio parere, dell'asimmetria,
della leggerezza o levità e dell'intervallo, cioè
della sua tendenza ad alternare pieni e vuoti, volumi e spazi, "forti"
e "pianissimi" (metaforicamente intesi). Elementi, per
così dire, di poetica, chiavi per comprendere la pittura
ma anche molte posizioni del Dorfles critico e teorico del gusto.
Infatti ad essi sono dedicate pagine e pagine di acute osservazioni,
che tentano di favorirne la comprensione e introdurli in qualche
modo non solo nell'arte attuale ma, in generale, nelle forme visibili,
nei costumi e negli stili di vita adottati dalla nostra società:
dall'architettura al design, dall'abbigliamento alla musica, dalle
tecniche di comunicazione ai comportamenti quotidiani.
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Gillo Dorfles a San Bernardino, 2007
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Intervallo.
Alla necessità dell'intervallo Dorfles ha dedicato un intero
libro e nel corso nel suo lungo itinerario di saggista e critico
non ha perso occasione di tornare sull'argomento, sottolineando
continuamente i rischi della perdita di questo elemento prezioso
quanto inosservato. Cito soltanto una fra le riflessioni più
recenti "[...] attraverso la meccanizzazione, attraverso questi
fenomeni mostruosi della nostra civiltà, abbiamo finito per
perdere quell'intervallarità fra noi e il mondo o tra noi
e il futuro e il passato che una volta esisteva e che si poteva
identificare nell'esistenza di un intervallo, di una pausa di riflessione,
della possibilità che tra noi e il lavoro, l'opera d'arte,
pittorica e musicale, ci fosse una separazione e nello stesso tempo
un vuoto: nel fatto stesso che entro il dipinto, entro il brano
musicale, ci fosse la pausa, che ne permetteva l'audizione o la
visione. Questa mancanza dell'intervallo porta con sé il
caos, l'accelleramento dei tempi, il continuum temporale: quindi,
non più la durata discontinua, quella discontinuità
della durata di cui Bachelard parla in La dialectique de la durée,
e che invece viene a mancare ai nostri giorni in quello che è
il nostro rapporto con l'opera d'arte, non solo, ma in quella che
è la creazione dell'opera d'arte da parte dell'artista dei
nostri giorni."
Si potrebbe dire quasi che l'artista abbia raccolto le preoccupazioni
del teorico (o non è piuttosto il contrarlo? E il filosofo
dell'estetica ad aver costruito una teoria sulle scelte compiute
dall'artista?) elaborandone una precipua sintassi, resa esplicita
anche in alcuni titoli come Custodire l’intervallo, assegnato
infatti a un grande dipinto del 1997. Ma cos'è l'intervallo
nella pittura di Dorfles? Suggeriamo di pensarlo come una tendenza
a non occludere le superfici e ad alternare forme, e soprattutto
ritmiche, lineari ad altre tondeggianti, spigoli a curve, divertissement
narrativi e figurativi a purissime costruzioni astratte.
Così, non c'è mai da annoiarsi; nessun lavoro è
prevedibile a partire da un altro e ancora meno ne è la ripetizione,
la copia. Dorfles diffida sommamente della ripetizione così
come della pesantezza, intesa in questo caso come monumentalità,
stabilità, rigidità; la presunzione, in una parola,
di sottrarre l'opera al suo destino di mutamento e di transitorietà.
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Monumento.
Il Dorfles teorico del gusto non ha mai fatto mistero del suo sospetto,
se non del suo aperto imbarazzo nei confronti dei monumenti e ancora
di più nei confronti di coloro che pensano di volerne e poterne
realizzare. "L'aere perennius", scrive, "andava bene
per Mecenate e per i monumenti romani che, effettivamente, hanno
resistito fino a oggi; ma non per le realizzazioni dei tempi nostri,
delle quali, in un lontano futuro, resisteranno probabilmente soltanto
alcune strutture meccaniche ormai inservibili, alcuni bunker atomici,
alcune centrali nucleari in disuso, affogate nel cemento, con il
loro carico di veleno irrecuperabile e intramontabile (questo sì
aere perennius!)." Tanto vale accontentarsi, rinunciare alle
"lettere eterne di bronzo", su cui si appuntava il sarcasmo
amaro di Brecht, e percorrere gioiosamente a passi lievi le strade
di un'arte che già secondo Lucio Fontana, artista molto apprezzato
dal Dorfles critico e compagno di strada negli anni del MAC, non
poteva che essere "aerea, universale, sospesa". Una maniera
che fra l'altro consente, se non di evitare il Kitsch (vera e propria
bestia nera di Dorfles, oggetto di un'ossessione pervasiva che riaffiora
continuamente), almeno di non renderlo permanente, come una fonte
di inquinamento visivo perenne sulla superficie del pianeta già
sovraccarica e satura di orrori e di mostruosità".
Ma allora, ci si potrebbe chiedere, perché Dorfles non ha
coltivato fino in fondo il suo gusto per la transitorietà
e le immagini fluide, assecondando in questo le aperture e le curiosità
del teorico per i cosiddetti "nuovi linguaggi", e non
ha cercato di movimentare davvero le sue forme e le sue linee, magari
con l'ausilio dell'elettronica o di tecniche di animazione di qualche
tipo? Semplice, perché la manualità in arte resta
cosa necessaria e quanto mai preziosa, in un'epoca in cui le mani
non si usano più, gli occhi (cioè lo spirito critico
ma anche il piacere, goloso, di guardare) neppure, e i fruitori,
ma anche i produttori dell'arte, sono immobilizzati in una posizione
di passività estrema, senza precedenti. Il teorico non ha
dubbi e osserva con preoccupazione il divorzio fra arte e corpo:
"se sono d'accordo nel consentire il diritto di cittadinanza
a forme d'arte elettroniche, sono però persuaso che il legame
tra corpo umano e creazione artistica sia qualcosa di insuperabile
e di insostituibile almeno in quelle forme espressive che richiedono
un coinvolgimento della nostra corporeità, intesa ovviamente
nel senso più globale e non solo fisico; come avviene nel
teatro e nella danza ma anche in pittura e in scultura [...1 in
altre parole: quella sorta di prolungamento del proprio io che si
traduce in segno non può essere realizzato che attraverso
una estrinsecazione corporea. " – " Peraltro in
arte, l'ipertrofia di sistemi e forme espressive hi-tech rischia
di non essere nemmeno il frutto di una passione spontanea e autentica,
ma soltanto il sintomo di un adeguamento coatto alla moda di un'epoca,
non peggiore né migliore di altre,`. Ma benché l'arte
debba essere indubbiamente "figlia del suo tempo", Dorfles
non ha mai nascosto la sua antipatia per le forme creative (nelle
arti visive come nella musica, nel design come nell'architettura),
che supinamente si adeguano, cioè conformiste, tanto da dedicarvi
uno dei più feroci capitoli del suo recente libretto Conformisti.
E c'è anche, testimoniata già nel 1968 in un passaggio
illuminante del celebre testo dedicato al Kitsch, la preoccupazione
per un condizionamento ancora più sottile e sfuggente messo
in atto dall'arte di tipo industriale cioè legata, per struttura
e modalità di diffusione, agli strumenti della comunicazione
di massa; preoccupazione relativa al destino dell'immaginario umano
più intimo e privato: "[...] ma il tipo di industrializzazione
culturale su cui mi preme di soffermarmi ancora brevemente [...]
è quello che si rivolge al panorama immaginifico o, se possiamo
così esprimerci, all'attività fantastica e creativa
dell'uomo: quell'attività che di solito era, o avrebbe dovuto
essere, patrimonio gelosamente privato di ogni singolo individuo
e che invece - proprio attraverso alcuni massmedia – si è
venuto trasformando in un'attività altrettanto `pubblica'
di tutte le altre. Le immagini, i sogni, la marea indistinta e imprecisata
della nostra attività fantastica, diventando preda dei nuovi
mezzi meccanici di trasmissione e di comunicazione, ne diventano
tosto anche succubi."
A questa irruzione indebita e sistematica negli spazi del privato,
a questo depauperamento delle risorse dell'immaginario, Dorfles
ha risposto dunque con un'implicita ecologia dell'immagine, con
una tenace difesa della manualità5i, della riflessione, della
lentezza, tanto nell'esecuzione come nella fruizione del lavoro
artistico. Con questa egli sembra custodire gelosamente anche una
risorsa preziosissima per la propria vita, il poter manifestare,
o articolare se si preferisce, un'espressività preverbale,
sorgiva, spontanea, un gesto che viene prima del pensiero e al pensiero
prepara il terreno, che viene prima della forma e contribuisce alla
messa in atto della forma.
Il gesto, insomma, originario e responsabile che lo ha aiutato,
forse, a non annegare in quei mari di virgolette in cui il critico
si muove da sempre.
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Asimmetria.
E veniamo così alla terza caratteristica, l'asimmetria o disarmonia.
Dice Sanesi: "Dorfles vive quasi con felicità quella perdita
di un centro che è stata vissuta dai contemporanei come una
tragedia [... ] Dorfles diffida degli schemi e, quando li usa, li
usa perché per smontarli è pur necessario percorrerli.”
Non c'è infatti un solo dipinto, e un solo disegno, in cui
si intuisca la presenza di uno schema simmetrico o speculare esatto,
e nemmeno di una struttura concepita apriori sulla base di quei principi
di simmetria e di proporzionalità che hanno governato il gusto
rinascimentale, specie in Italia. Ogni volta il pittore ricomincia
da capo, rischia di sbagliare, affronta la perdita dell'equilibrio,
l'irregolarità, convinto che "la simmetria, in qualche
modo, annulla la possibilità del movimento. Basta che si abbia
un'asimmetria, per quanto minima, per avere la sensazione del movimento
e questo comporta l'esistenza di spazio disponibile."" Comporta,
in altre parole, che possa succedere ancora qualcos'altro. D'altra
parte il Dorfles teorico, non per niente innamorato dell'estetica
giapponese wabi, dell'asimmetrico ne ha fatto una questione addirittura
antropologica: in un ampio saggio del 1971, Premesse antropologiche
a un'estetica dell'asimmetrico, prende il toro per le corna e affronta
l'argomento non soltanto sul piano artistico o estetico ma mitico
e fisiologico, facendo della consapevole tensione verso l'asimmetrico
una questione addirittura di evoluzione della civiltà umana
e mettendo l'asimmetria in rapporto con la scoperta da parte dell'uomo
del suo vero "sé". "L'uomo, dunque, tende oggi
sempre più verso l'asimmetrico perché i legami e le
implicazioni che la – solo parziale – sua costituzione
simmetrica gli impongono, non gli permetterebbero una feconda evoluzione
[...] in questo istante, dove la durata si arresta, dove il tempo
mitico si consolida, dove il superamento del Simmetrico diventa totalità
esperienziale, l'uomo può forse vedere finalmente `through
the looking glass' quel se stesso che di solito ha solo contemplato
`in the looking glass'; quel se stesso non più falsificato
dalla specularità.”
Possiamo allora, forse insinuare che la pittura ha aiutato Gillo Dorfles
a trovare se stesso e a non perdersi negli ingannevoli riflessi degli
specchi e delle loro diaboliche simmetrie. E farci venire in mente
quel folgorante passo di Borges all'inizio di TIon Uqbar, Orbis Tertius:
"Dal fondo remoto del corridoio lo specchio ci spiava. Scoprimmo
(a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi
hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che
uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi e la
copula sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli
uomini [...]. |
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