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NATO SCIACCA

Nasce a Patti, provincia di Messina, l’8 gennaio 1907.
Nel 1935 va a Milano per frequentare il corso di scultura all’Accademia di Brera, e vi si fermerà fino al 1939.
Nel 1940 si trasferisce a Roma, dove continua l’attività di scultore e partecipa a diverse collettive.
Nel marzo del 1942 sposa Tina Vullo e rientra definitivamente a Marina di Patti, dove muore il 13 luglio 1995.
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Manifesto della mostra.
Messina, Monte di pietà, 2011

Dal catalogo della mostra "Nato Sciacca e l'arte astroabissale"

Consegniamo oggi alla stampa quanto si è riuscito a raccogliere della vita e dell’opera di Nato Sciacca, con la consapevolezza di chi salda parzialmente e dopo troppi anni il tributo che merita una personalità così alta e importante nel panorama artistico del nostro Novecento.
Asfissiata da un’inadeguata attenzione, che a tutt’oggi non ha consentito l’esame critico che la sua opera certamente merita, la figura artistica di Nato Sciacca è stata distratta da quella dell’inventore, forse perché ritenuta di più facile e popolare lettura. Ignorata dagli “addetti ai lavori”, lasciata nell’ambito angusto della provincia in cui ha vissuto, abbiamo lasciato scadere la personalità artistica di Nato Sciacca al livello di “personaggio”. L’intuizione e la genialità si sono inevitabilmente corrotte in estrosa o stravagante capacità inventiva.
Eccettuata qualche breve nota critica di Giancarlo Vigorelli, in occasione di una mostra milanese del 1939, e di un sintetico giudizio di Giovanni Joppolo (ora ampliato in questo volume da una mia intervista), nell’archivio di Nato Sciacca non si possiedono, oggi, ulteriori riflessioni sulla sua opera. Né la poca corrispondenza epistolare con i più significativi nomi dell’arte e della cultura del ’900, coi quali condivise gli anni della sua formazione milanese, aggiungono altro, che non si riferisca alla stima e profonda amicizia che li legavano a Nato Sciacca.
Abbiamo ritenuto opportuno, per una ricostruzione della figura umana ed artistica di Sciacca, pubblicare tutti quei brani che nella Doppia storia, romanzo di Beniamino Joppolo, suo cugino e compagno nella Milano di “Corrente”, ce lo propongono con lo pseudonimo di «Masino».
Mancando le indicazioni cronologiche che diano una datazione certa alle sue opere, e seguendo una ricostruzione biografica affidata quasi esclusivamente ad una tardiva e lacunosa memoria familiare, i criteri di chi oggi si trova a “pubblicare” non possono affidarsi che al sentimento attuale di chi, con stima affetto e sapienza di altro mestiere, ha un’occasione per dar luce alla vita e alle opere di Nato Sciacca.
Unico conforto, nell’incertezza di questa rischiosa fatica, la speranza che si tratti di un primo avvio, di un lavoro iniziale, utile almeno a documentare, ad un pubblico più attento e più vasto, il passaggio umano di una personalità di indiscutibile levatura.


Per le vie di Milano con Beniamino Joppolo (a destra) e un amico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 


Otan Sciacca

 

 

 

 

 

 

 




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Nato Sciacca a Venezia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nato Sciacca a Roma

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Fontana (plastico)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


MASINO
 
 

Abbiamo stralciato dal romanzo autobiografico La doppia storia di Beniamino Joppolo, quei passi che raccontano di Nato Sciacca (qui con lo pseudonimo di Masino) tentando di ricostruire qualche tratto del suo carattere e qualche episodio che lo ha visto calato nella familiarità del suo ambiente siciliano o nell’atmosfera milanese di Corrente (sono individuati altri artisti e intellettuali che ne fecero parte). Da una superficiale considerazione, la presenza di Masino-Nato risulta nel romanzo, corposa e ricca, tanto a significare l’importanza della figura del cugino-amico Nato nella ricca tormentata e complessa Storia di Joppolo.

Un cugino della sua età viveva sempre al mare: Masino [Nato Sciacca], biondo alto forte snello. Lui lo seguiva e ammirava, sopratutto quando lo scopriva nel grande camerone a pianterreno dove dormiva con tanti fratelli, tra letti e letti. Lì, Masino gli sembrava una piccola deità in riposo. Certe volte, a tavola, don Pietro [Giovanni Joppolo, padre di Beniamino] declamava poesie amorose o eroiche, e tutti i bambini stavano ad ascoltarlo. I più grandi di loro spesso già facevano discorsi serii, isolandosi. Giacomo [Beniamino Joppolo] capiva, ma si vedeva trascurato, e di ciò non che soffrisse, ne provava malinconia.
[…]
Il giorno dopo, lui e Alberto [Diego, fratello di Beniamino], col cugino Masino, andarono a vedere la mattanza dei tonni. Sul mare c’era un grande sole abbagliante. Le barche a vapore giravano nere e rumorose. I pescatori gridavano, i tonni venivano spinti e ammassati al centro. A un tratto, da tutte le parti, furono lanciate contro le schiene nere le picche punture che si conficcavano nelle carni. I tonni si rivoltavano con guizzi e mostravano i ventri bianchi da grosse anguille, mentre il sangue arrossava le acque. Il cerchio delle barche stringeva sempre più i tonni dagli occhi disperati e dai musi imploranti, sottili come pugnali sconfitti. All’improvviso le barche irruppero tra i tonni, e i pescatori, con grosse mazze, urlando come invasati, a colpi poderosi, incominciarono a fracassarne le teste. Il mare era un grumo di sangue mosso a ondate pesanti, tra quei corpi lacerati, finalmente inerti.
[…]
Durante l’estate, la famiglia si trattenne al mare sul la solita spiaggia. Un giorno Giacomo e il cugino Masino, con un grande sole sul mare, si avventurarono in una lunga gita in barca. Remavano lentamente, in costume da bagno, e sempre più avevano l’impressione che i remi, loro e la barca si muovessero in un elemento che non era né solido né liquido né aeriforme perché non apparteneva a questo pianeta. A capo scoperto affrontavano sole e aria con la sensazione che le loro persone venissero sottoposte a una trasformazione che li rendeva adatti a quel nuovo elemento dove avrebbero dovuto rimanere per l’eternità, come sospesi in mezzo a un universo i cui soli componenti erano liberi spazii e liberi tempi fusi assieme in una sostanza unica, priva di sostanza e della qualità di sostanza. Solo le loro mani e le loro braccia seguivano una meccanica di movimenti che era come una eco che si andava sempre più spegnendo in spazii abbandonati che appena ricordavano. Gli occhi guardavano attorno la spiaggia e la terra come un ricordo assurdo di consistenze che non c’erano più. In questo stato di trasognamento approdarono alla villa di un amico dove rimasero qualche ora. Poi tornarono indietro.
Masino faceva lo scultore, formava figure in creta, forti ampie segrete come sassi e che si avviano a diventare esseri vivi o come esseri vivi che si avviano a diventare granito e minerale. Altri cugini e altre cugine, altri amici e altre amiche, che erano belli agili sorridenti, avevano indossato irriconoscibili abiti di carne diversa e non sorridevano più: negli occhi vuoti sembrava si meravigliassero che il tempo, invisibile, si divertisse a cambiar loro, sugli scheletri, i vestiti di carne, di ossa, di nervi, di sangue e di vene.
[…]
A Milano c’era anche Masino, che faceva lo scultore. Aveva ricevuto un lascito dalla nonna, col quale pensava di resistere per qualche tempo facendo l’artista. Lavorava nello studio di qualche scultore celebre e si affinava rapidamente. Era alto, bello, tutto ovale, con gli occhi celesti spigliati, biondo, la barbetta piena di vitalità. Giacomo lo vedeva spesso e trovava in lui un appoggio morale, e sapeva in più che, in caso estremo, sarebbe stato anche un appoggio materiale.
[…]
Spesso Giacomo e Masino andavano a mangiare in un’Opera Pia, un grande edificio antico costruito in mattoni rossi e situato ai margini di un canale secco, ormai tutto in cemento armato, del Vecchio Naviglio, antica opera di deviazione fluviale realizzata da Leonardo da Vinci. Prendevano dei tagliandi a prezzi molto bassi alla cassa e poi si portavano a tavola, dalla cucina, le pietanze corrispondenti, abbondanti fumanti forte odoranti in vapori spessi e densi. C’era una massa di vestiti, di occhi e di volti stralunati, alcolizzati esattamente come alcolizza l’alcool. Le risate sembravano autonome dalla catastrofe delle bocche e dei denti precipitanti da cui provenivano. Masino mangiava con allegria, girandosi su di un dito e mettendo in evidenza un anello d’oro con sopra una corona baronale, se ce l’aveva, o altrimenti lo girava immaginariamente e ne parlava, descrivendolo, lucente dignitoso pesante oro massiccio, ma assente perché temporaneamente al Monte di Pietà. Un giorno, un bruno crespo violento gli rivolse la parola, era un siciliano venditore ambulante di ogni merce, per chiedergli se egli non fosse il figlio del Cavaliere Tal dei Tali. Masino gli disse di si. Allora il crespo incominciò a farsi la croce sulla faccia bruna dagli occhi lucenti scandalizzati, e ripeteva:
– E cosa fa qui e cosa fa qui e cosa fa qui e cosa fa qui.
– Mangio.
– No dico cosa fa a Milano a Milano a Milano.
– Lo scultore.
– Lo scultore? Il marmo? Il legno? La terra? La creta? Il ferro? Il bronzo? L’acciaio? Un mestiere così vile e così pesante, un Cavaliere come lei? O Dio, Dio, Gesummaria, Gesummaria! E viene a mangiare all’Opera Pia? O povero padre suo! Se lo vede crepa, casca a terra fulminato dal dolore, per carità, per carità! Se ne ritorni a casa. – E si faceva la croce fissando Masino come un fenomeno sempre più inconcepibile.
Giacomo e Masino furono insieme presi da una risata convulsa, il crespo si immobilizzò come una statua di bronzo divenuta scema e inamovibile, e Giacomo scostava i piatti da Masino, perché gli era venuta paura che egli potesse prendere i resti delle pietanze e scagliarle sulla faccia del crespo: gli occhi infatti gli diventavano sempre più piccoli piccoli piccoli come cimici, e con le mani frugava l’aria bassa, esattamente come quella volta quando aveva preso le arancine e le aveva spappolate una dietro l’altra sulla faccia di luna di quel poveruomo padrone del caffè, su cui sugo e riso e carne scolavano mentre la bocca diceva agli occhi smarriti, con un dito disperato e impersuaso che picchiettava il petto: – A me questo? e perché? perché a me questo, che vi ho fatte le arancine? –. E tutti guardavano il crespo e i due, perplessi, ma infine vesti, stracci, gengive e denti franati nelle bocche terremotate proruppero in un baccanale di gesti e di risate che, mischiati all’afa degli odori, muovevano l’aria come una schiuma ubriacata, entro cui gli occhi a masse si coagulavano come lumache fuori del guscio.
[…]
Certi giorni Giacomo andava anche nella camera d’uno scultore, Otan [pseudonimo col quale si faceva chiamare, anche ufficialmente, Nato, anagrammando il suo nome], alto bello sottile e olivastro, e portava con sé del pane. Otan aveva una cassa di nocciole, che sembrava non dovesse mai finire. I due mangiavano molto pane con bocconcini di nocciola, cinque bocconcini per ogni nocciola in media, e intanto dissertavano a lungo sull’estremo potere nutritizio delle nocciole, che in una quantità minima contenevano quantità enormi di sapori piacevoli, di vitamine, di calorie e persino di sottili elementi erotici. Aggiungevano che chimicamente pane e nocciole fuse, davano una energia unica, e quindi bastava mangiarne molto poco, ed era anzi pericoloso abusarne. Sottolineavano anche che le nocciole contengono l’olio più fine che esista per bontà e per potere energetico. Dichiaravano che quest’olio viene usato per gli areoplani e per le macchine più delicate e più precise. E mettevano in evidenza anche che con la scorza delle nocciole si fa la polvere da sparo, sicché bisognava dedurne che anche nella polpa ci dovesse essere come nella scorza una certa forza da polvere da sparo, pirite esattamente. E avanzavano l’ipotesi che in fondo, con pazienza, avrebbero potuto ridurre a polpa la scorza e mangiarla, nel caso che se ne fosse presentata la necessità. E in tal modo non riuscivano a buttar via le scorze, ma le conservavano religiosamente in un’altra cassetta messa allato alla cassa delle nocciole, dicendo:
– Non si sa mai, per i giorni neri.
E non ridevano, veramente, non ridevano sul serio. Poi uscivano e passeggiavano a lungo per le strade, fermandosi a bere all’impiedi qualche bicchiere di vino in un bar, quando avevano i soldi per poterlo fare. Ma tutto ciò non toglieva che facessero tra di loro delle festicciole, con ragazze, danze e complicazioni amorose. Tutti loro, chi più chi meno, coscientemente o incoscientemente, in modo largo o ristretto, complottavano, e strisciavano dunque. Questo complottare e strisciare li rendeva fatalmente viscidi ambigui e viziosi, guardinghi e sfuggenti, anche se sul tronco d’una natura fondamentalmente sana e forte. Questa miscela di qualità, piena di reticenze, creava attorno a loro un certo fascino, soprattutto in ambienti fascisti e in ambienti alti dal punto di vista sociale ed economico. Diffondevano nell’aria un segreto che attraeva irritava e incuriosiva. Avevano preso l’abitudine di sorridere stranamente, senza parlare e rifiutandosi di aprire una qualunque discussione, guardandosi tra di loro in una carica di sottintesi che loro soli potevano capire, tutte le volte che incontravano qualche fascista. Questi finiva per trovarsi irretito nel disagio e nei dubbi. Lo trattavano con dolcezza estrema, come si può trattare un bambino infermo, debole di mente e di membra. E il tipo finiva, così, meccanicamente, col diventare per lo meno un fascista scontento quando non diventava addirittura un antifascista acceso e pieno del bisogno di rivalsa contro chi lo aveva sinora ingannato. Con i più resistenti facevano risultare che per pensarla in un certo modo, che non dicevano quale chiaramente ma che era esattamente quello fascista, era fatale dovere essere, proprio dal punto di vista clinico, un cretino. Figli e figlie di fascisti, di ambienti fascisti, venivano presi dalla frenesia di essere da loro redenti e si allontanavano in tal modo dalle loro famiglie, nei confronti delle quali finivano col diventare molto spesso dei nemici dichiarati e ufficiali. Sicché molti di essi avevano amiche belle, ben nutrite, colte, raffinate e svincolate e libere da ogni punto di vista, padrone assolute di loro stesse. Queste amavano riunirsi con loro, negli studi, nelle soffitte, nei seminterrati, ed anzi facevano di tutto per essere degne di loro. E vi trascinavano anche consanguinei del loro rango.
Il meticoloso intanto sfogliava Retour de l’URSS [di Gide] con l’aria di uno che capisce una lingua straniera, e contemporaneamente diceva, con ironica signorilità:
– Bene, bene, vedremo, intanto, per incominciare, lei legge libri stranieri.
Poi disse: – Ci segua – e fece un cenno agli altri che erano rimasti di guardia. Questi lo circondarono toccandolo. Egli provò ancora quel senso di contatto repugnante che aveva provato con Talella, Tanuzzi e Anteani, e pensava: «No, questa volta non supero la prova, è insostenibile, questa volta crepo, non ce la faccio, non potrò resistere». Ma improvvisamente entrò nello studio Masino, brandendo trionfante uno sgabello, che aveva il giorno prima promesso di portare a Giacomo. Vedendo tutta quella confusione capì subito e rimase con lo sgabello in aria come una statua che fermava bloccato uno sbotto di riso che stava per nascerle dal di dentro. I questurini lo afferrarono, lo perquisirono, mentre egli protestava:
– Ma cosa volete da me? Io non c’entro. Io lo scultore faccio.
Il meticoloso disse:
– Seguiteci.
Giacomo e Masino furono ammanettati e portati fuori, dove c’erano due grandi taxi con sopra altri questurini. Uno fu messo su un taxi; l’altro sull’altro. L’alba era già sorta. Il sole era tepido e giallo, la città dormiva ancora pigra. I taxi andavano l’uno dietro l’altro. Giacomo pensava: «Dove andiamo?».
[…]
Ad un tratto gli si presentò davanti il carcere di San Vittore. Alcuni raggi di fabbricati separati da vuoti ampi e nel mezzo la cupola d’una chiesa. Fu immediatamente certo di quello che stava per avvenirgli. Un grande portone si aprì, il taxi entrò, il portone si richiuse, il taxi si fermò, e Giacomo fu consegnato a dei carcerieri in divisa grigia. I questurini scomparvero. Giacomo fu portato in una stanza, dove gli tolsero cravatta, laccioli e oggetti di ogni specie dalle tasche, e fu invitato a seguire un carceriere. Il solito mazzo di chiavi enorme come un organo dai suoni di campana. […]
Il solito corridoio. Le solite porte incastrate nel muro, i soliti giri di chiave […], e Giacomo, ancora, si sentì richiudere dietro “le porte della galera”.
Incominciarono a chiamare per nome i carcerati, a cui davano il caffè del mattino. Giacomo tese l’udito.. C’erano tutti: Alisio [Aligi Sassu], Peppe [Giuseppe Migneco], Talenti [Italo Valenti], Tirolli [Renato Birolli], Lananzi [Lattanzi?]... Si trattava del raggio politico.
[…]
Proprio quella notte Masino era tornato a Milano e disponeva di una serie di abbaini in un grande palazzo di quel corso. Giacomo portò da lui la valigia e vi rimase a dormire per un paio di notti Venivano e andavano ragazze ridenti, sciolte, eleganti, colte e divertenti. Molte riunioni Giacomo fece con molti amici. E poi ripartì per la Sicilia. Masino gli disse di ritornare a Milano, lo avrebbe ospitato, ma con la promessa che non si sarebbe più occupato di politica. Giacomo rise e gli disse, salutandolo dal finestrino del treno, che ci avrebbe pensato su. Masino seguì, correndo, il treno, per salutarlo ancora.
[…]
A Milano [Joppolo] si mise ad abitare da Masino e passò dei mesi, scrivendo e distendendosi. Vedeva Peppe, Tirolli, Talenti, che ormai erano artisti ufficiali, arrivati. Faceva qualche lavoro per le gallerie d’arte e scriveva presentazioni a scultori e pittori. […] Intanto Giacomo, con Lagrata [Raffaele De Grada], continuava a svolgere il lavoro di stesura e di diffusione di manifesti, opuscoli e volantini. Lo faceva con una certa trepidazione, ma ormai anche con una certa meccanicità. E nascondeva tutto a Masino, che lo sospettava ridendo e che ora, oltre la scultura, faceva anche delle invenzioni. Nel piano degli abbaini, di cui diversi erano stati presi in affitto da Masino che vi abitava con altri artisti tra cui Giacomo e Talenti, abitavano anche degli artigiani e degli impiegati: un sarto con famiglia, un parrucchiere con moglie, un massaggiatore con la sposa, una massaggiatrice, e altri. In realtà quei locali non potevano essere abitati da artisti. Sicché i coinquilini facevano una lotta serrata a Masino e compagni, tranne la massaggiatrice che era troppo bionda delicata e sentimentale per avere la forza di fare ciò, e allora sorrideva come fosse permanentemente innamorata di tutto e di tutti. L’ultima trovata era stata quella di disturbarli mentre essi andavano al gabinetto. Si riunivano a frotte, gridavano,sferravano calci sulla porta, da sfondarla:

Principi e baron
tutti purcon.

Talenti non soffriva di ciò, perché vi andava solo a lavorare. Ma Giacomo e Masino, che ci vivevano, in un primo tempo si divertivano, ma poi, a poco a poco, furono tutti pervasi dalla intimidazione, sicché un bel giorno stabilirono di risolvere diversamente la questione: invece di andare al gabinetto accumulavano il loro materiale viscerale e renale in grandi scatole vuote di latta da conserva di pomodoro, che Masino usava per la creta, poi le mettevano in un grande baule che chiudevano ermeticamente. In quel periodo sia Masino che Giacomo ingaggiavano ragazze da ogni parte e avevano un complicato traffico di buoni che compravano per mangiare sicuramente ma che rivendevano quando avevano bisogno di danaro, come per Nanette e Betty che erano apparse sugli orizzonti del loro cerchio erotico come fate protese. Masino faceva delle belle sculture, avanzava, e nello stesso tempo creava un affilatoio, usando il quale una lametta per barba poteva durare per diverse generazioni. Giacomo aveva, con Tirolli e Talenti, fondato “la società dell’alcool”, secondo la quale era inutile fare dell’arte, perché l’organismo umano l’aveva assimilata rendendola ovvia meccanica e quindi sangue automatico, che era inutile esprimere direttamente essendo in tutti direttamente posseduto, mentre invece inedite e rivelatorie rimanevano ancora le emozioni che poteva offrire l’alcool trasportando l’organismo verso Dio in regioni ancora inesplorate. Essi predicavano questi concetti dappertutto seminando disagio e sgomento, tanto ne erano convinti (o dittatura!). Ed erano sempre sovreccitati ed ebbri. […]
Una sera Masino riunì nello studio amici ed amiche, per una festa con musiche e danze, vini e liquori, bibite e acqua. Le ragazze erano eleganti, felici di conoscere gli artisti nella intimità dei loro studi, disinvolte ed allegre. Ad un tratto, una di esse, aveva i guanti bianchi come latte lunghi sulle braccia in tutta la persona bruna e sfavillante, con una delle sue manine sollevò il coperchio del baule e disse: – E gli artisti, i cari artisti cosa tengono di prezioso in questo baule? –, ma subito abbandonò il coperchio che ricadde rumoroso, e retrocedette stravolta. Un’ondata calda e profonda di fetore ultramondano da viscere di cadavere invase l’atmosfera. Dopo il primo sbalordimento stralunato di tutti, sopravvenne subito uno sbotto di sovreccitazione clamorosa, divertita, implacabile, come le persone di tutti, lì dentro, fossero state e continuassero ad essere punzecchiate da cantaridi, da zanzare cariche di tutti gli stupefacenti più sconosciuti elaborati da tempo e velocità in un vortice folle e inevitabile. Ma, dopo la festa, Masino, Giacomo e Talenti sentirono che dovevano liberarsi del contenuto di quel baule, e chiesero l’aiuto di Peppe. I quattro stabilirono che nelle due ore dopo la una di notte avrebbero versato tutto quel materiale sulla strada, che era una delle più centrali della città. A quell’ora silenzio e solitudine sarebbero stati assoluti. Il fascismo aveva abolito spettacoli di ogni genere e aveva chiuso caffè e locali dopo la una di notte. Sicché a mezzanotte, Giacomo, Masino, Peppe e Talenti si trovarono assieme per aspettare il momento adatto alla operazione liberatoria. […]
E così Talenti, Giacomo, Masino e Peppe ritornarono sulla strada. Si misero a passeggiare su e giù. Gente passava sempre più rada. Finché si fece il deserto. Su di una bicicletta un vigile nero e curvo passò, controllò porte, lasciò biglietti nei negozi, disparve. Allora Masino e Talenti si misero di guardia sulla strada mentre Giacomo e Peppe salirono negli studi a prendere le latte colme, metterle nell’ascensore, portarle sulla strada e svuotarle. Ora, il fetore aveva il ritmo monotono, da serpente di acciaio strisciante verticalmente, dell’ascensore che andava su e giù, giù e su, ossessivo, inesorabile nel budello centrale della casa. Ad ogni latta svuotata e lasciata per terra i quattro avevano sguardi più liberi. Infine, terminata l’operazione, si sentirono del tutto allegri e incominciarono a passeggiare sul marciapiedi di fronte alla casa, aspettando l’alba. Di fronte a quello spettacolo di merde e di urine putrefatte letali in pieno centro della città, gli spazzini, i primi ad arrivare, incominciarono a bestemmiare, più sorpresi che arrabbiati, mentre con le grandi scope spingevano spingevano, e trovavano roba per tutte le traverse vicine.
– Ma chi è stato? – qui? – un gigante era – che stomaco che viscere – roba da matti – una botte umana doveva essere – incredibile – spaventoso – una cloaca – un pozzo nero.
Li prendeva quasi, a poco a poco, un terrore mitico, come sospettando l’esistenza di un mostro nascosto. Talenti, sfiorandoli, disse:
– C’era uno strano tipo, ieri sera, qui, sembrava una montagna.
Gli spazzini lo guardarono sgomenti.
[…]
Il maggior tempo lo trascorreva con Masino. Come un serpente, capiva quando Masino aveva soldi. Masino avrebbe voluto seguire un certo sistema nello spendere, per cui nascondeva a Giacomo i momenti floridi, per distribuire nel tempo il danaro. Ma Giacomo, avvelenato, ad un tratto lo afferrava per la giacca, lo scuoteva, stringeva i denti, lo fissava con le narici tese e gli gridava:
– Fuori i soldi.
Masino si contorceva:
– No, ti giuro...
– Vigliacco, capitalista, tu mentisci, fuori i soldi –. Masino si divincolava, rideva, si lamentava:
– Ma come fai a capirlo? Io non capisco. Io non capisco.
– Io non voglio neanche sporcarmi le mani con i tuoi sporchi soldi di mezzo barone siciliano decaduto, che paga il fio delle sue colpe feudatarie nei confronti dei contadini, jus primae noctis, e via di seguito, vergogna vergogna e vergogna delle vergogne, ci siamo capiti, furti, rapine, eredi eliminati, quei soldi maneggiali tu, andiamo subito a cambiare l’assegno che hai ricevuto.
– Ma ... ma ... come si può vivere con te? Come fai a sapere?
Masino cambiava l’assegno. Giacomo ordinava sigarette di lusso, liquori, pietanze, bevande raffinate, si dondolava, sbadigliava, girava case, aspettava Tirolli e Talenti per la vita della società, Masino maneggiava lui materialmente lo sporco danaro, e infine Giacomo si degnava di prendere materialmente del danaro da Masino lo pregava di prenderlo e crepava dal ridere dandoglielo, ma si rifiutava decisamente di entrare nella onorata società, perché faceva sculture e lavorava all’affilarasoio che doveva far durare una lametta, per le barbe più involute e più complicate, per generazioni e generazioni, e Masino questo lo spiegava sempre a tutti in tipi te le occasioni.
[…]
Così passò l’inverno e si avvicinò la primavera. Giacomo compilava e distribuiva manifestini e volantini, considerando ciò come un lavoro che lo giustificava come presenza sociale. Un giorno Masino gli disse:
– Partiamo per la Sicilia assieme a Tirolli. Andiamo a stare da me.
– D’accordo.
Masino aveva terminato di costruire il suo affilalamette e lo voleva portare a Roma per proporne lo sfruttamento ad un suo amico uomo d’affari. Il giorno della partenza, oltre le valigie, aveva bellamente sistemato la sua macchina in una cassettina. Scendendo le scale, la cassettina gli era sfuggita dalle mani e si era messa a rotolare per gli scalini, aprendosi e facendo precipitare la macchinetta. Allora lui era stato invasato dalla follia, si era messo a correre inseguendo la macchinetta e, con gli occhi stravolti, strappandosi i capelli, gridava:
– La mia macchinetta, il mio affilalamette, la mia invenzione, sono rovinato, sono rovinato, il mio lavoro, si frantuma, si frantuma, aiuto, aiuto.
Giacomo e Tirolli crepavano dal ridere e gli correvano dietro. Riuscì ad afferrare macchinetta e cassettina, si assicurò che tutto era a posto, le ricompose come prima, si incazzò con Giacomo e Tirolli perché ridevano e non capivano niente del suo dramma, poi rise anche lui, presero un taxi e andarono alla stazione, si comprarono un fiasco di vino e partirono per Roma verso la Sicilia.
A Roma, erano già ubriachi. Andarono dal capostazione e gli chiesero se alle sei del pomeriggio era disponibile un vagone speciale di terza classe, diretto in Sicilia, per il principe Amleto di Danimarca. Il capostazione li guardò in faccia, inizialmente sorpreso, ma subito dopo divertito e sorridente:
– Un vagone speciale di terza classe per il principe, Amleto di Danimarca, alle sei del pomeriggio? Ma un treno speciale con tutti vagoni di terza classe ci sarà pronto, per il Principe di Danimarca, tutti i giorni, a qualunque ora, basta che passiate dal mio ufficio. E ci metteremo anche delle panchette per la principessa Ofelia, se non si è ancora affogata.
E, fatta una piroetta, scomparve con un disco rosso in mano, verso i binari. I tre si smontarono. E non erano più ubriachi. Come una doccia fredda. Subito per rimontarsi andarono in una trattoria e ordinarono, irritati, tre bistecche. Intanto che aspettavano le bistecche bevvero molto. Si sentirono rimontati e incominciarono, a voce alta, a parlare male di Mussolini, del re, e del papa. Il padrone, naso lungo a triangolo acuto, colore olivastro trasudato e corpo secco curvo, si avvicinò a loro e disse, pacifico e violento (Lenin):
– Se volete parlare male del duce, io me ne frego accomodatevi pure. Se vi piace parlare male del re, io me ne frego due volte, e accomodatevi pure cinquecento volte. Ma se parlate male del papa, dico il papa, potete andarvene dalla mia trattoria, io la bistecca non ve la servo.
Altra doccia fredda. Si rismontarono. Di nuovo non erano più ubriachi. Ancora una volta il destino li sfotteva. Il destino: quel padrone della trattoria. Mangiarono e bevvero con rabbia, ma non parlarono, erano inibiti. Caricarono le valigie su di un taxi e se ne andarono da Bartolo [Manlio], il fratello di Masino, commilitone di Giacomo sotto le armi. Bartolo li accolse molto lieto e disse loro che potevano rimanere da lui quanto volevano. Si sentirono rianimati. Bartolo uscì. Rimasti soli, la ubriacatura li riprese, rimontò.
Poi fecero un bagno tutti e tre. Era sera. Si guardavano reciprocamente e ridevano soddisfatti. Infine Tirolli disse:
– Usciamo. Facciamo una passeggiata.
– Si – fece Masino.
[…]
Si trovarono in una grande piazza piena di movimento. Molti autobus andavano in tutte le direzioni circolari, perché la piazza era rotonda. Masino fece un salto per salvarsi da un autobus, che stava per metterlo sotto. L’autobus ripartì. Ma Masino si mise a corrergli dietro. La fermata successiva era il capo linea. Giacomo e Tirolli correvano dietro Masino. Quando l’autobus si fu fermato, Masino incominciò a gridare, mentre i passeggeri scendevano:
– Da Porta San Paolo ci segue. È saltato sul marciapiedi, è sceso, ha volato, ci ha corso dietro, ci ha pedinati, tamponati, abbiamo dovuto strisciare, sgusciare come serpi per salvarci, voleva ammazzarci, massacrarci, eliminarci dalla faccia della terra.
E Giacomo:
– Eh sì, siamo vivi per miracolo.
E Tirolli:
– Per puro miracolo. Ringraziamo Iddio, mi vengono i sudori freddi a pensarci.
E Tirolli con un fazzoletto si scavava tutto per asciugare un sudore freddo inesistente. La gente faceva ampio circolo e ascoltava con un senso di meraviglia. E Masino incalzava:
– Morti ci voleva. Siamo artisti noi. Forse è pagato da artisti gelosi, perché grandi artisti siamo noi, capaci di suscitare gelosie mostruose.
E Giacomo:
– Evidentemente. O, semplicemente, non gli piaccio no i nostri nasi.
E Tirolli:
– Non può essere diversamente. Uno dei due casi, ma io penso al primo.
Il ragazzo autista impallidiva sempre di più, tremava, diventava livido, si sentiva offeso, profondamente, tanto più, strano strano davvero, che la gente ascoltava con serietà un discorso assurdo su cui si sarebbe dovuto ridere soltanto (o dittatura o deformazione puerile degli animi!), e ad un tratto reagì:
– Si vede che non siete romani, che siete provinciali, io sono un pubblico ufficiale nelle sue funzioni e non vi permetto...
Giacomò si esaltò:
– Ecco, a Roma tutti credono di essere dei duci, la solita frase, pubblico ufficiale nelle sue funzioni.
Si fece rapido avanti un console della milizia, smilzo con barba smilza e gambali smilzi, e disse con una energia smilza:
– Bene bene, cosa c’è? Chi parla del duce? – Smarrimento dei tre di fronte a un pericolo. Ma Giacomo si riprese subito:
– Questo giovane autista ci dà dei provinciali e parla di pubblico ufficiale nelle sue funzioni come se fosse il duce.
Il console carezzando la barba come fosse una donnola allungata:
– Il duce, il duce, attenzione, giovanotto, a pronunziare il nome del duce, così, a vuoto, a sproposito.
E Giacomo, energico:
– Noi rispondiamo che di duce ce n’è uno solo, e che, dopo il duce, che ha fatto dell’Italia un’unità perfetta sindacalistica corporativistica e imperialistica, non è consentito parlare di provincia e di non provincia, poiché siamo tutti una falange, gli italiani.
E Masino:
– Da Porta San Paolo ci segue, e voleva schiacciarci, maciullarci.
E Tirolli:
– Non si sa poi per quali segrete trame.
Il giovane autista era annichilito, avvilito, annullato, tremava terreo e non parlava più. Il console si lisciò la barba e disse soddisfatto:
– Bravi giovanotti.
E, rivolgendosi all’autista:
– E voi non tentate più di fare simili scherzi.
E, smilzo come era affiorato, altrettanto smilzo disparve soddisfatto e disinvolto. I tre si allontanarono. Tirolli disse:
– Partiamo stanotte per la Sicilia, non ne posso più, per carità. Non facciamo come quei tali che, dovendo partire da Milano non so per dove, stettero quindici giorni tra casa loro e la stazione, girando osterie alberghi e ristoranti prima di partire. Ceniamo con Bartolo e partiamo subito. Io non ne posso più.
Gli altri due furono d’accordo. Sicché, finito che ebbero di cenare, partirono per la Sicilia, forniti sempre di un fiasco di vino. Da Roma a Napoli si assopirono. Di tanto in tanto si risvegliavano, si guardavano ebeti e meravigliati di trovarsi lì assieme col rumore strisciante del treno sulle rotaie, sorseggiavano dal fiasco e si riassopivano.
[…]
«Sveglia, sveglia, qui si dorme troppo».
Tutti lo guardarono appena, ostili, e si ripiegarono nel sonno. Ma Tirolli e Masino si alzarono, svegli anch’essi, e andarono nel corridoio a raggiungere Giacomo. Tirolli teneva abbracciato il fiasco sul petto. Il treno ripartì. I tre bevevano a turno. Ad un tratto si misero ad andare in su e in giù per i corridoi, guardando ora fuori dei finestrini ora nell’interno degli scompartimenti. Fuori sfilavano luci, campagne, strade, paesi, fianchi calcinosi, montagne lontane e vicine. Dentro c’erano teste chine e volti disagiati e stanchi.
[…]
Il treno precipitava nella notte, gallerie rumorose, fischi, strisciare, curve. Ad un tratto un tipo magro e livido che sembrava avesse solo dormito chiese a Tirolli, piano:
– Artisti, eh?
La sua voce era ammirativa. Per cui Tirolli soddisfatto:
– Si. Pittore.
E l’altro:
– Pittore. Bravo.
– Eh, cosa vuole...
– E lei le dipinge, eh, le rose sfatte, le viole sfatte, le margherite sfatte, la merda putrefatta, eh, neh?
E si voltò dall’altra parte con un profondo disprezzo tutto concentrato nelle spalle. I tre si smontarono e ritornarono nel vagone in cui avevano le valigie. Il treno precipitava. Bevvero ancora per rimontare. Finalmente il mondo enorme, il sud, il mezzogiorno, sconfinato, cataclismato, angosciante, inebriante, divinamente sputtanato. Giacomo, per la prima volta, lo guardò con ebbrezza da ubriaco. I giardini, il mare, sugli alberi, rossi e gialli, le arance e i limoni a globi e ad ovuli. La gente pensosa e trasognata. Il sole si fece a poco a poco caldo. Il mare, a destra, mostrava in fondo la Sicilia.
[…]
Chi doveva ospitare Tirolli? Un fratello di Masino sposava e tutta la sua casa era in subbuglio. Ma Masino seppe strisciare e temporeggiare bene. Il matrimonio si fece, con lo sposino in divisa e la sposina bianca con i fiori d’arancio e il visino da caramella sorridente e rosea. Tirolli era ospitato un po’ qua e un po’ là, interessava tutti, persino don Bernardino, e infine si stabili in casa di Masino. Il padre di questi, a capotavola, era disteso colto intelligente. Tirolli sproloquiava contro il fascismo. E il padre di Masino, che non era stato mai fascista, ma al fascismo era stato sempre ostile, si faceva serio e gli diceva:
– Il fascismo, caro amico, è come una sigaretta.
– Ma la sigaretta è buona – protestava Tirolli.
– È buona? Ammettiamolo. Anche il sigaro è buono. Io fumo sigari.
– Lo vedo.
– Eppure il fascismo è come una sigaretta.
– E come?
– La appoggi pure sul portacenere o anche ai margini di un tavolo, la lasci tranquilla, non si occupi di essa, e vedrà che si spegne da sé. Il fascismo, in conclusione, è come una sigaretta che si spegne da sé.
– E può anche bruciare la casa.
– Brucerà la casa, ammettiamolo pure, ma ciò non toglie che non si spenga da sé.
E tutti brindavano.
Tirolli dormiva con sempre sul comodino una bottiglia di vino ambrato, fatto da don Giuseppe a termini enologici, e con un piatto di passoloni. I passoloni sono grosse ulive nere, ammuffite per malattia sull’albero: il gorgonzola delle ulive. Quel vino ambrato era filtrato ed essenziato di carruba, sicché era secco e nello stesso tempo dolce e profumato su estensioni di fiori fantastici oltre che su estensioni di viti e di uva. La notte Tirolli si svegliava, beveva vino, mangiava passoloni e diceva trasognato:
– Il nettare degli dei innaffia la m..., provocando essenze e sapori del tutto inediti e scoperti dal nulla dallo zio biblico Giuseppe.
Lo zio Giuseppe era felice di questo successo del suo vino e rideva. La frase di Tirolli circolava per il paese, sicché gli procurava inviti e simpatia, assieme agli amici, da parte di tutti, come forestiero, come artista e come uomo di spirito.

In quattro partirono una mattina per una grande gita a piedi. Attraversarono l’altipiano ondulato a rughe di terre rosse, di messi ancora verdi, e salirono su di un monte dove sorgeva una villa dello zio Gerolamo. La villa era proprio sulla cima del monte. La terra stava sotto. Attorno ad essa gravitavano sole acqua e aria. Anche le montagne lontane sembravano arie nebbiose con l’ombra di qualche forma nel cielo, compresa l’Etna che era piú lontana. Il mare cullava come nubi le isole Eolie verso l’orizzonte. Di faccia il Tindari macerioso grigio baluginante e turbato da un tempio massiccio e rettangolare precipitante a picco sul mare. I quattro trovarono nella villa un bar riccamente fornito. Chiesero a un contadino una botticina di circa tre litri e l’ebbero. Versarono i liquori nella bottícina, ne fecero un cocktail e partirono. Ridiscesero il monte verso il Tindari. I dorsi dei colli e il mare giravano come cerchi luminosi incastrati ai cerchi fantastici delle montagne che avevano un movimento profondo sotterraneo dal di dentro, che poteva far supporre, in sede di pensiero, velocità inconcepibili, ma che in sede di percezione mostrava velocità limitate nei confronti della velocità dei cerchi luminosi dei colli e del mare. Scesi a valle risalirono il monte del Tindari la cui terra grigia sabbiosa sembrava la continuazione vegetale, a tappeto, degli ulivi grigi e sabbiosi. Girarono la città antica, piena di pietre e di archi millenari che sembrava amalgamassero intervalli e silenzi storici fermi sospesi nell’aria. Il teatro grecoromano faceva un arco rotto dal mare e dall’aria precipitanti, e come delimitatrici aveva le costiere di due montagne sollevate come ali che, distese, cascano dritte e nette sul collo di un uccello addormentato.

 

 

 

 

IL POETA DELL’ARTE ASTROABISSALE

Messina, Marzo. Parlare con Nato Sciacca è impresa molto facile, basta andare in Sicilia e fermarsi a Marina di Patti. Lui è là, e non c’è caso di sbagliarsi perché è la figura più tipica e caratteristica del paese. Lo vedi subito che è un pittore, e non solo per qualche [?] sulle mani o sugli abiti trasandati, ma per quel suo atteggiamento quasi estatico che lo fa sostare largamente ad osservare il particolare tono di un’ombra o il giuoco del sole tra le barche in secca sulla spiaggia. E se non è sulla spiaggia è in casa, in una vecchia dìmora patrizia assai logorata dagli anni e dall’incuria. Incuria anche sua, ma lui non se ne preoccupa, e sostiene che è tutto superfluo ciò che non è strettamente essenziale alla vita di ogni giorno. Fa quasi uno strano effetto incontrarsi e conversare con lui, apparentemente fermo nel tempo, mentre intorno ci si affanna in una gara di rinnovamento. Diresti che sogna, e forse sogna davvero, in ogni ora della sua giornata, seguendo pensieri che poi esprime in piccolo tele dove non trovi figure ma sottile armonia di linee, come di un firmamento tutto suo, e delicati accostamenti di colori che non son mai orgiastici anche quando toccano le tonalità maggiori.
Ciò che davvero ti sorprende è sapere che è proprietario di un cinema nella vicina Barcellona dove ogni tanto si reca per dare un’occhiata. A1 cinema? Forse no, perché ha trovato il modo di sistemare anche lì, accanto alla sala di proiezioni, uno studio di pittura. Ma il cinema prospera anche senza di lui, ed è questo, oltre ai terreni, che lo rassicura per i figli; perché si rifiuta di credere che l’opera d’arte possa ad un certo momento diventare elemento di commercio e quindi fonte di guadagno. È una concezione un po’ troppo rigorosa, un po’ troppo fuori della realtà per essere valida ai nostri giorni, e non soltanto ai nostri. Ma Nato Sciacca non si preoccupa di alcuna sollecitazione degli amici, sorride tranquillo come chi la sa lunga più di noi, e se insisti lo trovi già svagato, distratto, a seguire i suoi pensieri: oppure attacca a parlare con entusiasmo giovanile
di un argomento tutto diverso dove ti è difficile seguirlo perché forse non pensavi che potesse esistere.
I suoi cinquant’anni non sembrano trascorsi per lui, e ti racconta le vicende della sua vita artistica di Milano, e dei suoi studi all’accademia di Brera, come di un recentissimo passato e di un sistema di vita che prima o dopo dovrà pur riprendere. E si tratta degli anni dal ’35 al ’40 quando frequentò l’accademia, dopo gli studi classici seguiti a Patti. Poi rimase a Milano nello studio dello scultore Arturo Martini, e fece parte del gruppo molto vicino a Joppolo, Fontana, Sassu, Migneco, Birolli.
In quel periodo espose varie volte alla quadriennale d’arte di Milano, e nel ’39 – era ancora all’accademia di Brera – Giancarlo Vigorelli s’interessò positivamente delle sue opere e vide in lui giovanissimo una sicura promessa per l’arte italiana. Così infatti scrisse di lui Vigorelli:
«Presiede al lavoro di Nato Sciacca già una misura, un ordine, in un giovanissimo sorprendente quasi al punto di legittimare una esitazione: cioé che egli voglia chiudere in fretta e anzitempo. E non è. Invece Sciacca sa favorire il suo lavoro fuori di ogni polemica, di ogni cifra: infatti, sotto il suo ordine, fresca ancora è l’inquietudine, la piega di ricerca, lo stimolo. Appunto – come i giovani oggi più pronti – desiste da una coltivazione acre d’una citata modernità, e con fiducia e franchezza svolge invece una naturale “contemporaneità”. In queste notizie non è dato descrivere le intere risorse di Sciacca. Vogliamo almeno precisare un suo speciale luogo poetico, una brusca dolcezza a sorprendere il mondo, a meritarsi con forza quella dolcezza. La sua indipendenza ha già i segni di un risultato in proprio e di una assai corredata misura morale e poetica».
Nello stesso anno 1539, in occasione di una nuova mostra collettiva a Milano, così Raffaele De Grada scrisse sul “Corriere della Sera”: «In tanto avvilente panorama plastico, una sola opera è degna di essere notata, ed è la Maschera in cera di Nato Sciacca che denota una grande delicatezza».
È superfluo riportare altri giudizi della critica qualificata anche perché dureremmo a lungo: abbiamo scelto di proposito due brani del ’39, quando Sciacca era ancora giovanissimo e riusciva più di altri a suscitare interesse.
Abbiamo detto che Nato Sciacca sembra un personaggio fermo nel tempo, ma ci siamo riferiti alla vita dell’uomo e non già dell’artista. I1 pensiero dell’artista si è infatti costantemente proiettato nel futuro, in ciò che sarà, in ciò che potrà essere, in ciò che forse non sappiamo ancora come e che cosa sarà.
Fin dal 1950 infatti ha chiamato la sua pittura “arte astro-abissale”, una definizione decisamente suggestiva che involontariamente ci trasferisce sul piano magico di una fantascienza allora non pur definita.
Il movimento spaziale fondato a Milano nel ’54 è successivo di 4 anni alla corrente di Nato Sciacca che ha dimostrato di interpretare con buon anticipo quali sarebbero state le sollecitazioni degli artisti suoi coetanei o di lui più giovani.
Ora Nato Sciacca prosegue, sempre costante, nello sviluppo delle sue concezioni pittoriche dell’arte astro-abissale che lo impegna in una ricerca metodica, ìn profondità, estraniandolo dalla nostra realtà quotidiana, dal momento che vive in una sfera surrealista da lui stesso creata e dove forse lui solo sa operare.
Il nostro rammarico semmai – se di vero rammarico possiamo parlare – va ricercato nel suo volontario isolamento che priva il movimento artistico contemporaneo di un nome su cui decisamente puntare e non gli consente dì arricchirsi delle sue esperienze attraverso l’espressione di un’opera profondamente valida.

Pandemonio [Ennio Salvo D’Andria]
(“Pandemonio”, 11 marzo 1960).


Nato e la moglie Tina Vullo

 

 

 

 

 

 


STRANE LINEE

La parte spettantegli dell’eredità della nonna gli fornisce i mezzi per recarsi a Milano. Fino a quel momento ha vissuto gli anni della giovinezza a Patti, figlio di famiglia benestante non costretto a pensare di trovarsi un lavoro, affrontando qualche viaggio per raggiungere Roma e soggiornarvi dal fratello Manlio.
Beniamino Joppolo, più anziano, è il compagno preferito di Fortunato Sciacca ventenne. Con lui discute di arte e di letteratura, presta attento orecchio ad ogni esile notizia che provenga dalla Francia, per superare i limiti culturali e materiali dell’arte ufficializzata dal fascismo. Joppolo, che diverrà militante clandestino della sinistra, s’interessa già di politica. Nato, no. Non ne ha mai fatta, né allora né dopo. Eppure nel 1939 per motivi politici finirà a S. Vittore.
Modella la creta, ricrea animali e cavalli, scolpisce pietre tenere. Certe superfici morbide e levigate del Donatello e di Canova lo invogliano a trovare forme dal chiaroscuro plastico suggeritore del movimento. Il modernismo futurista, ridotto a pura accademia, non soddisfa le giovani intelligenze che non vogliono essere messe a tacere attraverso i littorali. «Non eravamo disposti a diventare anche noi pagliacci di una società come era capitato agli ultimi futuristi » (R. De Grada).
Parte, dunque, in terza classe, dopo aversi fatto confezionare, a spese del padre, quanti più vestiti possibile, per premunirsi dei tempi magri che non tarderanno infatti a manifestarsi presto, malgrado l’assegno mensile che Manlio gli spediva da Roma. Nella Doppia storia è lo stesso Joppolo – che Nato venticinquenne si recava a ritrovare a Milano – che racconta dell’arrivo dell’assegno a Masino e del concorrere di tutti gli amici per assicurarsi l’utile di un pasto e di una serata al caffè, fin che i soldi duravano.
A Milano alloggia in una pensione di Piazza Solferino. La padrona, la signora Giuditta, la fiorentina alla quale Ravel ha dedicato il celebre Bolero, si circonda di persone amanti della musica e del canto. La sua voce baritonale attira l’attenzione del direttore Pieraccioni che vuole costringerlo a studiare al Conservatorio, che cerca di fargli accettare con insistenti proposte offrendosi di esentarlo dal pagamento della retta. Il Nostro preferisce frequentare le libere scuole di nudo dell’Accademia di Brera, consumare i
pasti alla cucina economica «ai Bastioni», vivere l’intensa vita serale con Joppolo ed i suoi amici, vendere qualche disegno a conoscenti del fratello a Roma e lo spunto di una barzelletta perché Angelo Migneco abilmente la traduca graficamente per il “Settebello”.
Gli amici che frequenta sono tutti di grande qualità e di intenso temperamento, fermenti, diversi e contrastanti, uomini liberi e civili alla ricerca di un messaggio non retorico né decorativo: Piovene, Vigorelli, Zavattini, De Grada e Rognoni, Jolli (padre e figlio), Nando e Manzi, per citarne alcuni il cui nome ritorna alla memoria, che si interessavano di critica e di letteratura. Badodi, Treccani, Fontana, Birolli, Sassu, Guttuso, Peppino Migneco, Manzù, Cassinari, Italo Valenti, quelli che esercitavano la pittura e la scultura.
Per non vedersi costretto a diventare baritono, cambia pensione e cade dalla padella nella brace. In quella nuova, dove divide la stanza con l’inseparabile Joppolo, i padroni s’interessano alla parapsicologia. Le serate sono occasione di sedute alle quali i nuovi pigionanti sono costretti a partecipare, per condividere le emozioni – procurate dalle apparizioni che i medium – alcuni di fama europea – suscitano, proiettando ombre ed ectoplasmi su una parete.
Vivono questa strana atmosfera di presenze, Nato disegnando e modellando, Joppolo correggendo bozze per Francesco Flora e scrivendo stupende novelle che è costretto a far pubblicare ricorrendo a pseudonimi, per ovviare a possibili veti della censura fascista. Un bel giorno si trasferiscono in un ampio cantinato con più vani che diventa lo «studio» di Nato Sciacca. Qui possono ricevere amici e tenere riunioni, dove tutti gli argomenti che contano sono discussi: il messaggio di Picasso, l’arte «degenerata» degli artisti tedeschi, la poesia di Garcia Lorca, gli echi postumi dell’impressionismo, le proposte di un gruppo di giovani di Roma tra i quali emergono i nomi di Cagli e di Mafai.
Il rifiuto di soluzioni espressive convenzionali e la verifica delle proposte che l’avanguardia suggerisce, il recupero della capacità critica e la ricerca della verità, non sono soltanto occasione per confrontarsi sul piano artistico e letterario ma anche su quello politico. Per qualcuno di loro, l’impegno si concretizza in azione politica antifascista. Una sera, Sciacca, Joppolo e Sassu, mentre stanno per uscire dallo studio, ricevono un corriere che viene dalla Svizzera un pacco di manifestini da distribuirsi agli operai della Breda. Il pacco, che era stato lì per lì posto in un angolo, viene immediatamente recuperato da Sassu, richiamato da Sciacca che gli riferisce quanto il portiere dello stabile gli dice in stretto dialetto milanese: guardi che si sono visti in giro strani signori. Sassu sale sui tetti, in cima, oltre l’abbaino dove vive e dipinge, e nasconde il pacco in una fessura. L’indomani l’Ovra li arresta tutti e tre e recupera, andando diritto al posto, il pacco svizzero: sicuramente una spiata. Dopo diciotto giorni trascorsi a S. Vittore, in interrogatorii e lunghe angosciose attese, Sciacca riesce a convincere della sua estraneità ad ogni ideale politico. Più pesante è la sorte di Sassu che subisce dal Tribunale speciale la condanna ad undici anni di carcere, meno grave quella di Joppolo che se la cava con sei mesi di confino, pur essendo recidivo di altri periodi di confinamento in Lucania.
Uscendo dal carcere Nato Sciacca è incapace di trovare lo stato d’animo adatto per reinserirsi nell’ambiente. Egli che nei concorsi di Brera è stato segnalato (Bonardi, De Grada) come scultore di «un certo temperamento», che ha studiato con Martini, non ha maturato la forza che gli permetta di affrontare la realtà che in Italia si sta creando. Raggiunge a Gorizia il fratello Arnaldo dipendente di quella Prefettura, quasi a trovare protezione e significare obbedienza al regime, egli che si è tenuto sempre fuori della politica. Acquietato l’animo parte per Roma, dove Manlio lo accoglie con l’affetto di sempre e l’aiuta ad affittare un abbaino nello stesso stabile.
Sono due anni di sereno lavoro. Dal legno e dalla creta nascono forme e gruppi statuari di ispirazione biblica o suggeriti dagli atti di vita quotidiana. Sono opere serene e distese maturate nella mente di un giovane che vive il tempo del fidanzamento con la donna che sposerà, costruite ed armoniche a rispecchiare la condizione vitale che intende realizzare per se stesso e la costituenda famiglia. Torna a Patti e l’ambiente non tarda a risucchiarlo per interessarlo a progetti di interesse immediato, distogliendolo all’arte e alla ideatività.
Joppolo scrittore ha stima di Sciacca scultore: «premessa di tutto ciò una grande stima di te artista ed uomo». Ma Nato Sciacca non capisce l’avvertimento; costruisce una sala cinematografica a Barcellona ma la gestisce con la mente distratta dall’inseguire sogni di ricchezza che dovrebbero derivargli da brevetti meccanici che gli maturano improvvisi e lo costringono a lambiccarsi per concretizzarli e a disperdere le forze e le capacità per vederli riconosciuti.
Gli affari non rendono ed egli è costretto ad indebitarsi. «La grana col G. è nata da un pregiudizio: un borghesuccio barcellonese non potrà mai affrontare uno Sciacca figlio di una Jannelli...», gli scrive Beniamino, che vuole convincere Nato: «il tuo lato più importante è quello di essere artista» e lo incita ricordandogli «e l’arte in questi casi si vendica crudelmente».
Sarà proprio così. Gli eventi della vita incalzeranno. La famiglia si farà e si disfarà. I brevetti non rinnovati scadranno. E, nel fluttuare altalenante della quotidianità, Nato Sciacca rimane a Marina di Patti, rispondendo a chi glielo chiede che spera di affidare la cura dei beni rimasti al figlio per raggiungere in Toscana lo studio di uno scultore.
Ma, egli stesso, ci crede poco e, quasi a discolparsi, mostra la mano sinistra dicendo: «Vedi queste strane linee. Una chiromante famosa – aveva letto anche la mano a Churchill ed a Mussolini – mi disse: ci sono segnate due vite e l’una cancellerà l’altra».

Michele Spadaro
(“Il punto”, dicembre 1978)