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SUI
DISEGNI DI IGNAZIO MONCADA
All'esteriorità
del colore rispetto al Soggetto, sembra contrapporsi la relazione
di prossimità, e quasi di intimità, del disegno. Col
disegno, il Soggetto traccia meno una figura del mondo che una figura
di sé, anche là dove il disegno sia il presupposto
di una rappresentazione pittorica che ne ricalcherà l'impianto
e le strutture come nei grandi pittori del Cinquecento, ma anche
come in alcuni grandi della nostra modernità. Si pensi, per
esempio, a Morandi, presso il quale il disegno, che sembra uscito
dal respiro medesimo dell'artista, è spesso la fonte dei
quadri, ove la superba, incomparabile sostanza cromatica si dà
nella distanza più altera, più obiettiva nei riguardi
del Soggetto. In Morandi, come in tutta la grande pittura, il rapporto
del Soggetto al colore, all'esteriorità del colore, include
la stipulazione di una equivalenza rispetto a uno stato interiore
di cui solo l'equivalenza è in grado di tradurre la profondità;
mentre il disegno tende a coincidere con questo stato, a seguirne
le modulazioni e gli assestamenti. E quanto succede con questa serie
di disegni di Ignazio Moncada. La pittura di Moncada, pur nelle
varie fasi della sua evoluzione, è sempre improntata al massimo
di obiettività e, per ciò stesso, di esteriorità
rispetto al Soggetto. È la festa della carne variegata del
mondo (come direbbe Merleau-Ponty), che il Soggetto fa svolgere
davanti a sé, e il cui più alto esempio può
essere individuato in Matisse.
Ebbene, in questi disegni - che costituiscono, per Moncada, una
dimensione non consueta della sua attività -, l'artista sembra
chinarsi su di sé, speculare all'interno del proprio mondo,
mentale o emotivo, al fine di cogliere quelle forme germinali, arcaiche,
frammentarie e magari approssimative, destinate a costituire gli
equivalenti formali, esterni e obiettivati, della visione pittorica.
Interamente coinvolte in una straordinaria simbiosi con gli stati
del Soggetto, queste forme sembrano alludere a una "figuratività"
da principio del mondo, vale a dire a una figuratività senza
figura, ove il visibile si dia come anteriore alle nozioni acquisite
delle cose e degli esseri, ove l'antropomorfico non si distingua
dal naturale (roccia o tronco d'albero), e viceversa.
Si tratta, in definitiva, di un rapporto con una sorta di matrice
del visibile, diciamo pure col fantasma di una visibilità
originaria, ove le forme, libere sia da ogni mimesi sia da ogni
riduzione astrattiva, si presentano sotto le specie di "simulacri":
vale a dire in quanto forme pure, interiorizzate, non solo prive
di modelli ma anche immuni da derive concettuali d'ordine sintetizzante.
A questo punto, si potrebbe ipotizzare che il limite ultimo di questa,
per così dire, intimità regressiva della pratica del
disegno in Moncada, sia costituito da uno stato di procurata "cecità":
lo sguardo è sottoposto all'abbaglio dell'Origine. Il che
consentirebbe di assegnare alle configurazioni formali che abbiamo
descritto, una loro posizione di sintomatica complicità nei
confronti di alcuni filoni, fra i più suggestivi ed anche
più problematici, della riflessione speculativa contemporanea.
(Mantova 2004)
Stefano
Agosti
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NATURA,
EMOZIONE, MITO
Natura, emozione, mito sono tra i fattori principali del "composto"
Ignazio Moncada pittore. Fattori, perché non si tratta solo
di referenti in senso lato, né di strette "categorie"
tematiche, come del resto l'inclusione in una posizione di raccordo
tra due dati diciamo così oggettivi, natura e mito appunto,
di un terzo invece squisitamente soggettivo vuole indicare, ad evidenziare
il registro del fare dell'artista, e la chiave per entrarvi. Che
l'artista medesimo ci suggerisce attraverso i titoli delle opere
esposte in questa e nelle altre sue recenti personali, ma anche
in tempi più remoti, prima dell'adozione di un ermetico,
o almeno reticente, Senza titolo, anch'esso d'altronde da non intendere
come indice di autoriflessività linguistico-formale.
Troviamo infatti, nei dipinti tra anni ottanta e inizio novanta,
rimandi "tematici" a I segni del vento e del tempo, ad
Alesa e i segni del vento, oppure ad un Avvenimento a Panarea, ben
meno espliciti, tuttavia, di quelli delle opere presentate tre anni
fa nello Spazio Annunciata di Sergio Grossetti in una mostra che
di questa nuova uscita di Moncada è l'immediato precedente,
e non solo in termini cronologici. Tanto che nell'introduzione del
catalogo edito per l'occasione (all'insegna, non mia, de La rappresentazione
del mito che, per l'uso della parola "rappresentazione",
poteva generare equivoci fuorvianti), mi capitò di osservare
che, prima ancora di conoscere i titoli dei quadri (Polifemo - Etna
e dintorni, La residenza di Afrodite era un gran palazzo in fondo
al mare, Mari cieli acque della terra, Il vento che sembra spirare
dal nulla, per citarne qualcuno) ci si sente immersi, guardandoli,
in quella totalità partecipata di realtà fisica e
di sovrasenso mitico che ci comunicano i rossi e i gialli dominanti,
con tutti gli altri colori, con sorprendenti effetti sinestetici;
col risultato di una stimolazione dell'immaginazione, della fantasia
e della memoria, che esalta il ruolo attivo della pittura, fuori
di passività connesse alla registrazione naturalistica.
Ancora con la premessa della non necessità di un siffatto
supporto, per l'eloquenza interna alle opere, può tuttavia
avere un senso sottolineare la continuità di una siffatta
temperie negli stessi titoli di questa esposizione, ricordandone
qualcuno: da I giardini di Galatea a cui la mostra è intitolata,
e da La dimora di Poseidone, a Sulle tracce di Orfeo ed Euridice,
Le felci di Galatea, Eros anteros, Solaria, Il tridente di Poseidone.
Pure qui il protagonismo del colore, che tutto coinvolge su di un
registro appunto largamente comprensivo di una natura carica di
risonanze mitiche vissuta e proposta sulla tela con forte partecipazione
emotiva. Che può essa stessa essere riferita, come i temi
richiamati, a quella mediterraneità ripetutamente attribuita
con fondamento a Moncada e ai suoi lavori. Una mediterraneità
di cultura, anzitutto, che coinvolge l'invenzione attraverso anche,
certo, l'emozione, per l'influsso medesimo dei luoghi in cui l'artista
è nato e s'è formato.
Sempre, quindi, natura, emozione, mito, con l'aggiunta di quel "mediterraneo"
che va chiarito. Ad evitare da un canto sconfinamenti nell'accezione
folcloristica, tanto abusata quanto generica, e limitante, e dall'altro
quei sovrasensi ideologici, in direzione nazionalistica, con connotazioni
financo di "difesa della razza", che hanno pesato sul
termine nella temperie del ventennio tra le due guerre mondiali.
Tanto che non solo la parola è stata prudentemente evitata
in sede critica, ma si è anche non di rado assistito, con
opposto ideologismo, ad una sua codificazione a senso unico che
ne ha stravolto la natura, tanto che ancor oggi sono opportune delle
"istruzioni per l'uso". Relative soprattutto, come s'è
detto, allo spessore culturale di un tale retaggio, da non sottovalutare,
ovviamente fuori di impraticabili determinismi, in molta "produzione"
artistica moderna e persino contemporanea di quella che fu la Magna
Grecia e della stessa Sicilia di Moncada, in cui possono essere
riscontrabili dei "cromosomi" che perpetuano, nello sviluppo
e quindi nella diversità, oltre che nella varietà,
certe matrici d'origine. Senza trascurare il fatto che, al di là
della "genetica", il riallacciarsi al passato può
essere un intenzionale recupero delle radici. Entro tali coordinate,
anche, se vogliamo, di antropologia culturale, va considerato quel
senso di gioiosa luminosità panica, sensualmente effusa,
che è una delle più riconoscibili caratteristiche
della pittura di Moncada. Da non classificare solo con l'abusato
cliché di un'istintiva estroversione ottimistica, fatta solo
di sensi e di fantasia, per la trasparente progettualità
e il controllo formale ad essa sottesi, anche nelle opere più
libere e cromaticamente festose. Determinante è sempre l'intervento
mentale, peraltro nel nostro pittore mai coincidente, neppure nei
risultati più analitici dell'inizio degli anni settanta,
con un rigido concettualismo, né, come si può verificare
nella sua attività para-concretista dei cinquanta, con un
geometrismo deduttivo, a priori, di marca idealistica. Come ha bene
precisato ormai molto tempo fa, nel 1987, Elena Pontiggia, "la
festa mediterranea dello sguardo che [le] opere [di Moncada] ci
offrono non si risolve in puro vitalismo, in sfrenatezza inconsapevole
e irrazionale. Lontana da riferimenti organici, da allusioni fisiche,
tutto risulta in superficie; questa pittura conserva intatto, paradossalmente,
il suo contenuto mentale, la sua suggestione filosofica". E
aggiunge acutamente:" Sono pensieri, come diceva Wittgenstein,
quelli che si librano in essa. Pensieri di felicità, certo.
Ma anche pensieri sulla felicità: che è breve sogno,
lieve e convulso, impalpabile".
Tutto ciò è particolarmente evidente in questa mostra,
che la felicità certo non nega, tuttavia legandola appunto
ad una riflessività insieme memoriale e razionalmente pensosa.
Con accenti diffusi di malinconia, e persino di dolente meditazione,
in certi colori scuri e profondi, nell'accumulazione dei segni o
per converso nel loro ritmato diradarsi.
(Milano 2004)
Luciano Caramel
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OPERE,
OPERETTE E OPERAZIONI SUL COLORE
L'ultima
ossessione di Ignazio Moncada è una serie di piccoli quadri
dall'aria divertita e intrigante a cui l'artista affida il senso
fantasioso della pittura, come se le regole del gioco si fossero
moltiplicate oltremodo per esprimere il piacere disinibito del colore.
A guidare queste ultime "operette" è quel racconto
inesauribile della materia che nel percorso di Moncada si è
trasformata in immagini alla deriva, peripezie di forme sempre sul
punto di scuotersi, disgregarsi, disperdersi in molteplici predicati
astratti della forma. Di fronte a queste micro/avventure del colore
e al mondo immaginario racchiuso in piccole cornici, anch'esse lavorate
e dipinte con segni in libertà, nasce la sensazione che Moncada
sia entrato in uno stato di incantamento verso la pittura, una sorta
di straniamento nei confronti della gestualità ampia e assillate
di cui possiede tutti i segreti, lo stile fluido e vibrante che
ce lo fa apparire come raffinato inventore di magie cromatiche.
In queste cornici, in effetti, qualcosa cambia o perlomeno assume
un diverso impatto: il campo visivo che siamo soliti avvertire nella
tensione estrema degli elementi si raccoglie in se stesso, passando
dalla dilatazione delle grandi superfici al gusto del piccolo quadro,
inteso come attimo che conchiude lo spazio e lo carica di effetti
istantanei. Per Moncada dipingere è muoversi a occhi chiusi
sul terreno impervio della materia, attraverso vibrazioni che il
colore trasmette per sussulti, con una configurazione quasi acustica
degli stimoli visivi. Del resto, non alludeva forse il lavoro degli
anni ottanta a danze simultanee, a movenze fluorescenti, e sarabande
e arie di tango, a motivi ballabili, a impulsi sonori, a nuove vertigini
e ad altre tentazioni del colore?
Il fatto è che la pittura di Moncada può abitare tutte
le misure possibili, può svilupparsi nello spazio ambientale,
confrontarsi con la tradizione murale, dialogare con le superfici
provvisorie delal città ma anche, crescere entro la breve
misura del frammento, addirittura - come in questo caso - entro
la cornice, come punto di quiete. In effetti, anche qui bisogna
non avere vincoli verso i segni che vi balzano dentro come una danza
africana. Si tratta di dosare gli spessori, calibrare gli slanci,
scegliere colori espansivi, segnare i bordi del quadro come tragitti
in bilico, e non si comprende se i segni migrano all'esterno o si
apprestano a rientrare nel cuore della superficie. È qui
che la pittura se ne sta, a volte esplicita, più spesso annidata
in strane alchimie, macchie, grumi, stratificazioni, gonfiori e
fusioni, ma anche sensazioni che portano via lembi d'aria allo spazio
circostante.
Questa pittura, nutrita in tutti i sensi e portata fino all'eccesso
della manipolazione, è materia cerebrale che conquista lo
spazio durante il muoversi del tempo, strato dopo strato: essa è
tanto più attraente quanto più è disposta a
lasciarsi alterare e trattare in modo discontinuo. Tutte queste
condizioni contribuiscono a rafforzare la vocazione pittorica di
Moncada, le sue curiosità, gli artifici, anche i vizi e la
maniere che un vero pittore non teme di esercitare di fronte al
linguaggio assimilato.
Del resto, sappiamo che il suo impegno è profondo ed è
per giunta verificabile in molteplici versioni espressive, una condizione
creativa fatta di tentazioni simultanee che lo tengono in apprensione,
con direzioni di ricerca apparentemente differenti. Mi riferisco
al fascino dei recenti disegni ed inchiostri, ai grandi dipinti
del passato, alle immagini sempre felici inventate su carta, ai
pannelli di terracotta policroma, alle ceramiche e ai fremiti plastici
che le percorrono, ai voli cromatici degli interventi su ponteggi.
Penso anche alle imminenti istallazioni di elementi combinati nello
spazio, sferoidi di ceramica infilzati da canne di bambù,
una ritualità creativa di cui vedremo presto gli esiti, e
ciò mi esime dal dovere di fornire ulteriori specificazioni.
Se ne parlerà quando queste nuove operazioni saranno in scena
con un cerimoniale carico di risonanze primitive, di valori tribali
che considerano lo spazio come terra di conquista.
A ben vedere, qualcuno di questi "bastoni" potrebbe entrare
anche nella logica della presente mostra, ne rappresenterebbe un'altra
deriva, ma credo che Moncada escluda questa presenza per puntare
direttamente, da un lato, sul gruppo di "operette" in
buona misura già collaudate sulla parete e, dall'altro, su
alcune grandi tele che ne costituiscono la premessa, l'origine o
forse il controcanto, aperto e disteso. Emerge un doppio momento
espositivo in cui al rapporto con la materia che s'aggruma e si
stringe in minimi nuclei corrisponde la distensione del gesto che
accorda il colore ai differenti spessori.
Da questa duplice misura scaturisce un effetto benefico per la vista,
che oscilla dall'atto di scrutare il disgregamento quasi molecolare
del colore a quello di abbandonarsi alla sua tensione ambientale.
È l'ennesimo intreccio della pittura, il sentimento operante
del verbo cromatico che si rinnova e ritrova energia rivelando ulteriori
tratti della sua identità, storia di contatti avvenuti e
di eventi che insorgono.
La pittura, dunque, ancora e sempre all'orizzonte, luogo dove fluiscono
fasci di luce, bruschi movimenti, morbide evidenze del pensiero,
anche frivolezze con il pieno diritto di esser tali. E dove, simultaneamente,
viene additata la serietà del dipingere sul filo dell'ironia,
con la capacità di mettersi in discussione, ogni volta, non
rinunciando mai alla memoria operativa del colore. Che è,
poi, la condizione duratura del lavoro di Moncada, ciò che
lo fa sussistere e lo protende in avanti, come una corrente che
il pensiero non sempre controlla.
(Milano 1998)
Claudio
Cerritelli
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Pont-art 92 - Augusburg (Germania)
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IGNAZIO
MONCADA. IL RITMO E L'ECCESSO
Il
percorso pittorico di Ignazio Moncada incomincia intorno al 1953,
con opere che risentono del clima concretista allora diffuso.
Un lavoro come Composizione (1953), ad esempio, si struttura come
un sovrapporsi di superfici, che annullano le distanze spaziali
e nello stesso ricreano lo spazio, bidimensionalmente, attraverso
affondi di forme oblique, diagonali.
Già in queste opere peraltro, che ancora non denunciano un
linguaggio originale (non bisogna dimenticare che Moncada, a questa
data, ha appena 21 anni) emerge con forza una delle caratteristiche
principali del linguaggio dell'artista: la vitalità del colore.
I timbri luminosi, la sinfonia dei gialli e dei rossi, infondono
nell'esercizio geometrico una temperatura alta e una dimensione
festosa, euforica, solare.
Intorno al 1956, opere come Manichino di paglia di Anatole France
indicano invece un distacco dalle forme ortogonali.
Tutta la composizione è basata su sagome ondulate, ventricolari
o vagamente organiche che, mentre disegnano un'approssimativa silhouette,
potenziano il dinamismo dell'immagine. E anche su questo termine,
dinamismo, sarà il caso di ritornare.
È però a partire dal 1958 (il periodo in cui l'artista
vive a Parigi, dove si fermerà fino al 1966, con l'intervallo
di un soggiorno a Bruxelles durato circa due anni), che la pittura
di Moncada si svincola totalmente dal l'impianto concretista per
disporre nello spazio dei segni liberi, ora convulsi, agitati e
memori delle colature dell'Action Painting (Enfin Paris, 1958),
ora più dichiaratamente ispirati al costruttivismo, come
le composizioni del 1959-1960.
Qualche anno dopo (pensiamo a lavori come vegetale, del 1964) Moncada
definisce il suo linguaggio più tipico, quasi la costante
formale del suo lavoro: quelle sue forme tondeggianti, aeree, tanto
gonfie d'aria quanto appesantite baroccamente dalla fisicità
delle pennellate; quelle forme dinamiche, sfuggenti, misteriose
che sembrano atomi segnici, nuclei minimi dell'esistere colti nel
loro primo apparire.
La pittura dell'artista, dall'altra parte, oscilla dialetticamente
fra libertà segnica e geometria. Ecco quindi che nella seconda
metà del decennio le sue sfere, le sue molecole metafisiche
si disciplinano in circonferenze esatte. Opere come Il cerchio,
il gioco dei cerchietti, entrambi del 1968, rivelano già
nei titoli l'esigenza di depurare gli andamenti circolari da ogni
eccedenza, da ogni esuberanza naturale.
In questi anni, dunque, la razionalità assume la regia del
quadro, anche se spesso la composizione si ribella a un tale controllo.
Più che le leggi geometriche, infatti, Moncada esprime nella
sua pittura le infrazioni alle leggi geometriche, l'imprevedibilità
dei percorsi, l'irregolarità delle partizioni. «La
realtà per Moricada - ha avuto occasione di notare Crispolti
- è l'intrecciarsi sempre mutevole di strutture elementari,
valide appunto soltanto in questo loro articolato consistere».
Intorno agli anni Settanta la riflessione dell'artista si sposta
sugli effetti di trasparenza, di sovrapposizione diafana, di velatura
e di atmosfera cromatica. La pittura perde consistenza fisica per
farsi sempre più rarefatta e distillata, quasi in consonanza
con certi esiti della contemporanea pittura analitica.
Va notato però che la levità degli esiti non ne annulla
mai completamente la prepotenza cromatica. Il colore, pur adagiandosi
magro e diluito sulla tela, rivendica la sua vitalità, la
sua irriducibilità a dato puramente mentale. Più che
un annullamento del significato, una rinuncia al rappresentare in
nome del puro dipingere, a Moncada interessa la dimensione sottilmente
evocativa della pittura: la sua capacità di diventare fondo
senza farsi occultare dalla superficie, la sua vocazione a essere
un gioco di carte sovrapposte senza che nemmeno l'ultima carta,
la più nascosta, rinunci in qualche modo a rivelarsi, a riaffiorare,
a farsi ricordare.
Non è un caso che il decennio si chiuda, per l'artista, con
un ciclo di opere che hanno per titolo Ar
cheologia.
Che cos'è l'archeologia se non il ritrovamento del nascosto,
del dimenticato, del rimosso? Del resto tutta l'opera di Moncada
si può considerare come un tentativo visionario, felice e
insieme disperato, di liberare la vitalità repressa, di far
emergere l'energia inconscia soffocata. Il dinamismo dei suoi segni,
il ritmo di sarabanda di tante sue opere, l'eccesso cromatico che
sembra traboccare dai contorni delle forme indicano una vocazione
per così dire anarchica, e insieme una libertà finalmente
raggiunta.
Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del decennio successivo,
dunque, le opere di Moncada parlano di reperti, archetipi, archeologie.
«Moncada - nota Miklos Varga a proposito di questo momento
espressivo - addiziona al fondo-tela, in prevalenza monocromatico,
veline ritagliate e incollate che costituiscono, agglutinandosi
fra dissolvenze e trasparenze tonali, il casellario dei «reperti»
mnemonici: immagini di un repertorio intermediario fra il tempo
vissuto e il tempo vivente, si direbbe di una «zona franca»
dell'extratemporalità».
Pont-art 1984-85 - Milano - Intervento pittorico
sul ponteggio del Palazzo di Largo Donegani.
Questa ricerca sulle trasparenze, d'altra parte, non si risolve
in esercizi estenuati, in modalità intimiste. Al contrario,
proprio da queste riflessioni, sviluppate a misura monumentale,
nascono gli interventi di Pont-Art: gli interventi pittorici, cioè,
attuati sulle plastiche dei ponteggi, durante i lavori di restauro
o di ristrutturazione di un edificio. Nel 1982 Moncada dipinge,
appunto, parte dei grandi teli di plastica provvisoriamente posti
lungo i portici meridionali di Piazza Duomo, a Milano, eseguendo
quasi un «trionfo del colore» di 450 metri quadrati;
nel 1984-85, progetta un lavoro pittorico di 480 metri quadrati,
sempre a Milano; nel 1987 ne esegue un altro a palazzo Abrantes
a Madrid; nel 1992 altro intervento di 150 metri quadrati ad Ausburg
(Germania). «È così dunque che il segno coloristico
si sviluppa sull'ampio spazio del muro con il respiro dell'antico
affresco, risolto in modo nuovo, non figurativo. Ignazio Moncada
insomma riprende con questa sua pittura la grande tradizione murale.»
scrive Guido Ballo.
Non è casuale, d'altra parte, che questi ampi interventi
avvengano proprio su superfici che coprono e nascondono qualcosa.
Pont-art
1987 - Madrid - Intervento pittorico sul ponteggio del Palazzo Abrantes.
Certo, c'è nell'artista un istintivo senso di decorazione,
un'intelligenza dell'ornamento, un'esigenza innata di rinnovare
e abbellire il materiale povero. Ma si avverte anche la necessità
di portare alla superficie ciò che è profondo, coartato,
celato. O quanto meno di segnalare che lì, appunto, qualcosa
è stato nascosto.
E siamo all'ultimo decennio. I Segni del vento rinnovano le armonie
delle tarsie e dei mosaici, con la loro fitta sequenza di losanghe.
Ma questa ripetizione seriale si interrompe presto, già verso
la metà del decennio, smagliandosi in una musicalità
disordinata e violenta.
Non è un particolare di poca importanza, del resto, che numerose
opere, nella seconda metà degli anni Ottanta, contengano
nel titolo un richiamo alla danza (Tango, 1984, Sarabanda, 1984,
Boogie a St. Germain, 1985; Danza fluorescente, 1985, Via col Rock,
1985, Ballabile; Danze simultanee).
Ora la pittura di Moncada trova nella musica il suo più esplicito
riferimento. Ma non si tratta di una musica contrappuntistica, di
una geometria sonora, quanto di una musica ballabile, appunto, cioè
capace di trascinare fisicamente, di tradursi in atto corporeo,
di liberare energia vitale.
E tuttavia c'è ancora spazio per un ritorno a strutture più
ferine, più compatte. In fondo, la libertà, la sfrenatezza
si comprendono solo se si contrappongono a un legame, a una costrizione.
Ed è per questo che la sfrenatezza segnica, la componente
barocca delle opere di Moncada, non è che l'altra faccia
di un profondo senso di simmetria, di ritmo (cioè di movimento
secondo ordine), e insommna di misura.
Proprio nelle ultime opere, in particolare, sequenza ed effrazione
sembrano trovare, se non una sintesi, un modus vivendi. Enigmatiche
colonne cromatiche, macrosegni variopinti, totem febbrili e metafisici
si alternano sulla tela secondo un ritmo segreto. Si pongono come
segnali muti, indecifrabili. E sembrano ricordare, con il poeta,
che «della vita possiamo dire che è, non che cos'è».
1993 - Civica Galleria d'Arte Moderna, Gallarate
Elena Pontiggia
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Per
Ignazio Moncada
Alla
fine di ogni secolo
tutte le cose reali svaniscono
nella somma del nulla,
liberando energie.
Non avendo più sembianze
solo l'arte astratta
è in grado di catturarne
il fantasma.
L'alchimista dell'astrazione
che ha per tavolozza
l'arcobaleno, si laurea
in chimica sintetica.
Soffiano i venti,
e i loro nodi
vengono al pettine
del pittore nostromo
che ne intelaia la furia
in alte e neutre
velature cromatiche.
(1993)
Valentino Zeichen
Occorre
dire che la tensione delle immagini (nelle arti chiamo sempre immagini
le composizioni astratte, perché si risolvono in visibilità)
acquista, nell'attività di questo pittore, una finezza di
rapporti coloristici che indica lunghe esperienze tonali ormai da
lui superate: ma proprio queste esperienze tonali rivelano alla
fine i sottili valori cromatici, le avventure segrete dei viaggi
del colore...
1991 - Palazzo Steri, Palermo
Guido
Ballo
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IL
SAPERE DEL RICORDO
Credo
sia lecito considerare quello che denomineremo «il sapere
del ricordo» come separato sia dal sapere vero e proprio del
Soggetto sia dal sapere d'Oggetto (la quantità d'informazione
di cui un oggetto, culturale e/o naturale, dispone). Collocato in
una posizione intermedia fra, da un lato, il sapere rappresentato
da un'enunciazione teoricamente pura (in arte, la pittura astratta)
e, dall'altro, il sapere di enunciati formati, sapere di oggetti
(in arte, Duchamp, la Pop Art e, risalendo a ritroso, tutte le forme
di realismo o di naturalismo), esso sembra ritagliarsi un proprio
campo, specifico e amplissimo, ove la compresenza di enunciazione
pura e di enunciati esterni al Soggetto ha modo di pronunciarsi
secondo una gamma di occorrimenti svariatissimi, e nell'arco di
un'escursione che vede, a un capo, l'esperienza, poniamo, di un
Matisse e, all'altro capo, quella d'un Tàpies (per citare
esempi celeberrimi di arte del nostro secolo). E se, tanto per continuare
nell'esemplificazione, il sapere del ricordo comporta, in Matisse,
la coazione della forma naturale - ma già filtrata concettualmente
(il ricordo, appunto) - secondo ritmi, cromatici e lineari, di una
delle più pure enunciazioni del secolo, in Tàpies
i ricordi del mondo si daranno piuttosto allo stato «brute»
(graffiti - anche verbali -, macchie, grumi di materia o di colore,
inserti di oggettualità vera e propria), e sarà l'enunciazione
del Soggetto che, in tal caso, si adeguerà a quei resti,
variando di continuo i propri registri in relazione ai materiali
assunti.
Un raccordo sintomatico con quest'ultima esperienza è dato
rilevare proprio nell'ambito della recente serie di dipinti di Ignazio
Moncada qui presentata. Si tratta delle tre tele intitolate ai «resti»,
ove su un bianco matericamente allusivo a una sorta di schermo reale,
si stampano segni o chiazze cromatiche di evidente estrazione mnemonica
(Ciò che resta), che tendono altresì a sovraimporsi
(Altri resti, 1 e 2) a sagome appena accennate di forme oblunghe,
vagamente totemiche (le quali costituiscono il motivo di fondo della
parte più cospicua della mostra). Ebbene, qui il resto è
sovrano, e il Soggetto non potrà fare altro che sistemarne
gli accadimenti entro una calcolatissima elaborazione spaziale,
magari segnalando, di questa, il debordare dal perimetro fisico
del quadro: come avviene nella prima composizione citata, ove la
serpentina nera che la attraversa verticalmente di sghembo risulta
rescissa dai bordi inferiore e superiore della tela, e presume perciò
prolungamento fuori campo.
Ma sono accadimenti di quel genere che, in letteratura, rispetto
a un corpus coerente di testimoni, si definirebbe «estravagante».
Li si cita qui, sia per l'alta qualità dei testi che ne danno
atto, sia per la perentorietà dell'esemplificazione nei riguardi
della posizione di tesi.
D'altra parte, proprio due degli individui citati contengono - come
si è accennato - gli elementi di base che, connessi per contiguità
seriali, costituiscono il «tema» (nel senso in cui,
in linguistica, si parla di «tema» di un enunciato)
della restante totalità dei dipinti.
Il tema, qui, sarebbe dunque la forma del ricordo. Che appare declinato
secondo strutture libere e oblunghe, di vaga ascendenza totemica
(come ancora si è detto), normalmente tronche ai due capi
(a differenza di quanto segnalato dianzi) e, per ciò stesso,
interamente contenute nell'ambito della visione (dentro lo schermo,
insomma, della tela, che ne è il simulacro), spesso sottoposte
a curvature o a lacerazioni, per simulazione di forze esterne di
tipo, per così dire, naturale. Il cromatismo acceso e violento
ne designa tuttavia il carattere non naturalistico ma mentale, e
addirittura, caso mai, inerente all'ordine simbolico.
Ora, il sapere del ricordo, articolato nelle forme che si è
detto, tenderebbe a sospingere gli insiemi verso l'enunciazione
teoricamente pura dell'astrazione, trasformando magari quel sapere
nelle modulazioni squisite d'un pensiero eminentemente decorativo.
E qui che si inserisce l'elemento nuovo di questa recente serie
di dipinti di Moncada: e si dice nuovo anche con riguardo a una
più generale tipologia degli stili, quale si è abbozzata
sul principio di questa presentazione. Si tratta dell'elemento atmosferico
rappresentato dalle compiture del bianco, la cui funzione è
quella di entrare in collisione di realtà con le precitate
e descritte strutture tematiche a desinenza simbolica o, per lo
meno, astratti va. Questo elemento non è più inerente
al tema (ordine del concetto) ma alla percezione sensibile e alla
sua manifestazione diretta, non mediata.
Per cui, nel nostro caso, si assisterebbe a una sorta di sinestesia
(o magari di ossimoro) della visione, ove le astrazioni del concetto,
configurate in forme seriali, convivono con la presentazione di
una percezione in atto entro il registro del naturale. Il bianco,
in quanto «presagio tonale d'aria vera» (come ebbe a
dire Longhi dell'anonimo «Illustratore» di codici del
Trecento bolognese), rappresenterebbe allora l'elemento contingente
di questo sapere (di questo vedere), e cioè l'elemento legato
all'occasione del ricordo, alla sua temporalità, al suo accadimento
entro l'ordine spazio-temporale; mentre le forme piene a desinenza
astrattiva ne rappresenterebbero, in quanto motivi costanti, gli
elementi sottratti al divenire, le forme fisse in cui si risolve
la memoria profonda del Soggetto, o la cifra del suo mondo privato,
mentale e interiore, ma anche biografico ed esistenziale. Le forme
fisse e iterate risultano così sottratte all'istanza assolutizzante
ed egemonica dell'enunciazione pura (dell'astrazione) proprio perché
avvolte, incise e magari sfregiate, dalla forza contraria: quella,
intimamente contaminante, di una percezione di realtà, o,
per restar fedeli al nostro assunto, del ricordo come «spiracolo»
di una percezione (Giorgio Orelli insegni). E in questa qualità
terminale del sapere del ricordo che il lavoro di Moncada sembra
trovare, almeno a tutt'oggi, il suo punto di massima profondità,
non solo, ma probabilmente anche il luogo, preparato o atteso da
tempo, del suo investimento più autentico e operativamente
più decisivo.
LE SAVOIR DU SOUVENIR
Je
crois justifié de considérer ce que nous appellerons
"le savoir du souvenir" comme ne faisant partie, ni du
savoir réel du Sujet, ni de ce savoir de l'Objet qui repose
dans la quantité d'informations, naturelles et/ou culturelles,
dont l'objet est dépositaire. Situé à mi-chemin
entre le savoir représenté par un énoncé
théoriquement pur (la peinture abstraite) et le savoir des
énoncés "formés" par le savoir objectuel
(Duchamp, le Pop-Art et, plus loin dans le temps, toutes les formes
du réalisme ou du naturalisme) le "savoir du souvenir"
semble se ménager un vaste espace parfaitement caractérisé
où l'énoncé (qu'il soit à l'état
pur ou bien extérieur au sujet) trouve le moyen de "se
dire" selon une gamme d'occurrences des plus variées,
en suivant une ligne située entre le póle représenté
par Matisse et (pour ne citer que des exemples célèbres)
le póle représenté par Tàpies. Pour
développer notre exposé, nous dirons que chez Matisse,
le savoir du souvenir comporte une compulsion de la forme naturelle
- dejà filtrée sur le plan conceptuel (le souvenir,
justement) - selon des rythmes chromatiques et linéaires
qui définissent l'une des plus pures énonciations
de ce siècle. D'autre part, chez Tàpies, le souvenir
du monde se présente plutót à l'état
brut - graffiti parfois méme verbaux, taches, agglomérats
de matière ou de couleur, insertion d'objets: l'énoncé
du sujet s'adaptera dans ce cas à tous le "restes"
en variant les registres par rapport aux différents matériaux.
Notons qu'il existe une relation symptomatique entre certaines des
oeuvres récentes présentées dans cette exposition
et l'expérience citée plus haut, et que nous la percevons
dans les trois toiles dédiées à des "restes".
En effet, nous voyons se détacher sur une surface dont la
matière et la blancheur font allusion à une sorte
d'écran réel, des signes ou des éclaboussures
chromatiques d'origine assurément mnémonique (Ce qui
reste) tendant méme à se superposer (Autres restes,
1 et 2) à des formes oblongues à peine esquissées
et vaguement totémiques. Il s'agit là d'un motif fondamental,
présent dans la plupart des oeuvres exposées. Le "reste"
s'impose donc ici en mattre: le Sujet ne peut que le situer - dans
ses divers avatars - au sein d'une élaboration spatiale soigneusement
calculée dont il mettra en évidence les débordements
hors du périmètre physique du tableau. C'est ainsi
que dans la première oeuvre citée la trace noire qui
serpente verticalement et transversalement nous apparaft comme tranchée
par les bords inferieur et supérieur de la toile, ce qui
suppose naturellement un prolongement hors du champ. Comparées
à un corpus littéraire cohérent, de semblabes
variantes devraient étre qualifiées d"'extravagantes".
Je les cite ici pour la haute qualité des oeuvres qui les
expriment et l'évidence paradigmatique de la proposition.
D'un autre cóté, parmi les trois textes cités,
nous en trouvons deux qui possèdent les éléments
de base déjà identifiés. Soumis à une
relation de contigurté sérielle, ces éléments
forment le "thème" (au sens linguistique du mot)
commun à tout l'oeuvre exposé.
Dans le cas présent, il ne serait autre qu'une forme du souvenir
que le peintre développerait selon des structures libres,
des formes oblongues et d'ascendance va guement totémique
(nous l'avons dit), habituellement tronquées aux deux bouts
(contrairement à ce que nous avons remarqué plus haut)
et pour cette raison méme entièrement contenues dans
le champ de vision: en somme contenues par l'écran (par la
toile qui en est le simulacre) et souvent soumises à des
courbures ou lacérations qui suggèrent la présence
de forces extérieures, pour ainsi dire, naturelles.
Cependant, un chromatisme intense et violent met en évidence
le caractère, non pas naturaliste mais intellectuel et méme
éventuellement symbolique, du discours. Or, présenté
sous cette forme, le savoir du souvenir tendrait à attirer
les ensembles vers l'énonciation théoriquement pure
de l'abstraction, et méme à se modifier pour devenir
l'exquise modulation d'une pensée éminemment décorative.
C'est ici que nous rencontrons un élément nouveau,
présent dans cette série de tableaux tous récents
(le terme "nouveau" est aussi employé en tenant
compte d'une typologie des styles, plus générale,
teile que nous l'avons ébanchée au début de
cette présentation), et qui n'est autre que l'element atmosphérique
représenté par les à-plats du blanc dont le
róle est d'introduire une réalité conflictuelle
par rapport aux structures thématiques à désinence
symbolique ou, tout au moins, abstractive. Cet élément
n'est plus inhérent au texte (ordre conceptuel) mais bien
à la perception sensible et à ses manifestations directes:
sans médiation.
Ainsi, dans le cas de Moncada, nous assisterons à une sorte
de synesthésie (d'oxymore peut-étre) de la vision,
où les abstractions conceptuelles représentées
sous la forme de séries, cohabitent avec la perception en
acte présentée dans le registre du naturel. Dès
lors, le blanc - allusion à une sorte de plein air - serait
sensé représenter l'élément contingent
de ce savoir (de ce voir), mieux, l'élément relié
à l'occasion du souvenir, à sa condition temporelle,
à son apparition au sein de l'ordre spatio-temporel. A son
tour, le motif récurrent des volumes pleins aux désinences
abstraites représente l'absence du devenir, la forme fixe
où s'arréte la mémoire profonde du Sujet, le
chiffre de son universe privé, intérieur et mental,
mais aussi biographique: existentiel. La forme fixe et itérative
apparaît ainsi comme soustraite à l'instance hégémonique
et totalisante de l'énoncé pur (abstraction) car elle
est enveloppée, pénétrée, éventuellement
mutilée par une force contraire et profondément contaminatrice,
qui est celle de la réalité perpe ou (référence
faite à notre thèse initiale ainsi qu'aux termes employés
par Giorgio Orelli) du souvenir considéré comme une
"faible lueur" de perception. Cette qualité ultime
du savoir du souvenir parat étre jusqu'à maintenant
pour Moncada l'élement le plus profond de son oeuvre, mais
sans doute aussi le foyer - longuement entretenu, longuement attendu
- où son activité se trouve le plus authentiquement
et le plus fortement engagée. (1991)
Stefano
Agosti
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SUL
MARGINE DELLA PUPILLA
L'ennui
n'est plus mon amour. Les rages, les débauches, la folie,
dont je sais tous les élans et les désatres, - tout
mon fardeau est déposé. Apprécions sans vertige
l'étendue de mon innocence. Rimbaud
Come
cristalli si stagliano sul fondo nero ed infinito. Sono piccole
gocce d'acqua e di vita che si fermano sulla punta delle ciglia;
una cornice impalpabile alla realtà posta al di là
dello sguardo. Una realtà interiore, vissuta nelle pause
del cardio, nel breve attimo di un sospiro. Scrive Borges: "La
realtà può essere troppo complessa per la trasmissione
orale; la leggenda la ricrea in un modo che solo accidentalmente
è falso e che le permette di andare per il mondo di bocca
in bocca".
Moncada ferma sulla tela (il luogo della leggenda) uno spazio fatto
di suoni, di armonie: di emozioni. Oltre, al di qua, v'è
il palpitante mondo delle cose, delle relazioni, dei convenevoli.
Tra il fondo nero, presente maggiormente negli ultimi dipinti (la
tela dal titolo Vertigine cromatica si offre come chiave di lettura)
e il cristallino gioco dei bianchi di primo piano, l'artista pone
il racconto della gioia di vivere. Le frasi si articolano con il
concatenarsi delle forme e dei colori, quasi a raggiera, spingendo
il nostro occhio giù verso il fondo, verso quell'infinito
spazio occupato dal silenzio. Moncada non forza la mano, né
lascia che la forma o il colore prendano il sopravvento; segue,
anzi, un ritmo controllato che riesce a dare, allo spazio che ne
deriva, una precisa composizione prospettica. Sono immagini aurorali
quelle che propone Moncada: delle apparizioni "dalla memoria,
dall'inconscio", così come rileva Luciano Caramel, tra
i più attenti esegeti del lavoro dell'artista siciliano.
Sono apparizioni registrate sulla soglia dell'Io, ricche di un senso
narrativo, che l'artista annota con il piacere, oserei dire barocco,
del racconto quale connessione di accadimenti, o quale luogo dell'estrazione,
quest'ultima nell'accezione posta dalla tradizione aristotelico-scolastica.
Per Moncada l'astrazione non è un processo linguistico, né
un supporto teorico alla pratica artistica: è la condizione
atemporale di uno stato di necessità, nel quale però
- parafrasando Kandinskij - la relazione o i legami tra le singole
manifestazioni rimangono a lungo occulte. Kandinskij osserva inoltre:
"In superficie, ora qua ora là, senza tener conto delle
distanze, si manifestano germogli diversi, ed è difficile
credere ad una loro radice comune. La radice stessa è un
intero sistema di radici, intrecciate tra loro come alla rinfusa,
ma in effetti subordinate ad un ordine superiore, a una legge di
natura". L'apparizione assume, quindi, il senso di un fantasma
trasmesso, dalle pulsioni dei sensi, all'intelletto possibile: l'artista
lascia, così, affiorare le forme che agitano l'inconscio,
alla rinfusa, senza dettare schemi o regole. Sono forme che interpretano
la sensualità di un colore luminoso, solare, ricco di passionalità,
regolato da un continuo gioco di tinte calde, quali il rosso, l'arancio,
il giallo, ritagliate sull'assorbente nero del fondo o che si contrappongono
al freddo di blu cobalto ed oltremare, attivando così un'ulteriore
possibilità espressiva, messa in atto dal contrasto termico
dei colori. Ne deriva un'atmosfera irreale, attraversata da una
luminosità intensa: una luce che si ferma per un attimo sulle
ciglia, per poi fendere la pupilla e perdersi nello spazio infinito
della retina. E qui dove la memoria trae le immagini e il "mondo"
delle relazioni fenomeniche perde qualsiasi corporeità; uno
spazio di difficile definizione, ove solo la coscienza accede. Lo
stato di necessità è quindi per Moncada un atto di
conoscenza, posto quale volontà della coscienza, dell'essere
nel grande sistema dell'Universo, indicato da Kandinskij quale "legge
di natura". Nei lavori recenti, penso soprattutto a tele quali
Vertigine o anche Flamenco, entrambe realizzate lo scorso anno,
l'attenzione sembra essere voluta senza un'ambigua memoria figurale.
Ciò che ne deriva non è certamente un'immagine della
realtà esterna: un velo colorato, un fantasma, un'apparizione
che l'artista incontra guardando dentro al suo occhio. Voglio dire
che l'immagine non è la risultante di un intreccio di proiezioni,
bensì l'intreccio di specchiamenti: Moncada si pone sulla
balconata veronesiana, come osserva Caramel (citando l'artista),
e guarda l'opera dal di dentro di se stessa, pone, cioè,
l'occhio, la pupilla su di uno specchio: ruota lo sguardo del pensiero,
avvolgendo in un vortice le immagini sino a fondere tutto nel nero,
nell'infinito silenzio della propria coscienza. Sulle ciglia i cristalli
giocano, ritmando la luminosità, l'intensità del colore,
la forza della forma. Rimbalzano sui piani così come fanno
le immagini tra gli specchi di un caleidoscopio: nessuna di esse
restituisce (o possiede) la corporeità tangibile delle cose.
Verona marzo 1990
Massimo
Bignardi
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MONCADA,
PEINTRE DE LUMIÈRE ET DE TRANSPARENCE
Si l'ori doit établir une constante dans l'oeuvre de Moncada,
c'est la recherche de l'interpénétration de la couleur
et de la lumière. La matière, les signes, les supports
ont évolué, mais subsistent en permanence dans la
répartition des couleurs, le rythme des vibrations et la
quéte de la luminosité, une tentative de conjuguer
la forme avec ce qu'il appelle "la force chromatique",
et l'opacité avec la transparence.
Dans la peinture géométrique des années 60,
c'est à la couleur contrastée qu'il a recours pour,
tout en ne renon9ant pas à la structure bi-dimensionnelle,
aller audelà du rapport traditionnel dans ce genre, entre
figure et figure et entre figure et fond. La collision des couleurs,
àprement contrastées mais niées également
par des intervalles de zones blanches, crée une série
de plans violemment opposés dont la charge intérieure
libère, à la vision, une énergie vitale.
Les figures circonscrites, si productive que soit leur mise en rapport
et en contraste, portent néanmoins en elles leur propre limite.
Aussi, au début des années 70, Ignazio Moncada s'est-il,
comme il le dit lui-méme, libéré de "la
loi dure et sévère de la géométrie".
Au jeu péremptoire des contrastes succède alors une
dilution des couleurs destinée à obtenir un effet
de vibration musicale, une légèreté lumineuse,
une souplesse de pastel. ("la dilution est une composante de
mon travail au méme titre que la réalisation",
propos de l'artiste recueilli en mars 1988 au Musée de Chartres).
Quant à la forme géométrique, elle s'émousse
: les structures sont encore présentes, mais elles se diversifient,
s'adoucissent et s'arrondissent, puisqu'au mysticisme coupant de
l'angle aigu, figure de base de la période précédente,
s'ajoutent le carré et le cercle. Ainsi la toile s'ouvre-t-elle
à une fluidité qui permet tous les devenirs.
Ori constate également l'apparition de ce que l'artiste nomme
"un voile de transparence" qui donne l'impression d'une
fenétre ouvrant sur d'autres fenétres.
Cette transparence deviendra le but obsessionnel poursuivi par Moncada
dans la série des ceuvres peintes entre 1975 et 1977 et intitulées
précisément Transparences.
A partir de cette époque, de nouvelles techniques seront
expérimentées : aux formes géométriques
sont superposés des fragments de papiers blancs transparents,
découpés en formes soit géométriques
soit plus floues, qui sont autant de fenétres s'ouvrant sur
la toile et dont le truchement permet un effet d'effacement et de
dévoilement Simultanés.
Durant cette période, la couleur, soumise à la fois
à un effet de transparence et de brouillage, dégage
une sorte de luminosité diaphane. Dans la série Alesa
et les signes du temps, les rouges brique, les noirs opaques, les
jaunes ocres, ont des réverbérations à la fois
lumineuses et opaques qui font penser aux impressions rétiniennes.
En revanche, dans la série des Danses commencée en
1984, l'éclatement de la lumière domine. Le rythme
intense des couleurs, leur luminosité éblouissante,
font sans aucun doute référence à l'univers
méditérranéen.
Cette quéte d'une lumière fécondée par
la transparence a certainement hypothéqué, après
l'austérité contraignante de la période géométrique,
la rigueur de structuration du tableau.
Certes, si dès Alesa et les signes du temps, an décèle
à l'intérieur de la figure structurée du pavement,
un effet d'instabilité et de corrosion de la construction,
un déchirement des formes provoqué par des déchirures
de lumière, les Oeuvres actuelles ne reposent délibérément
plus sur une architecture plus ou moins régulière,
mais elles développent ce que Moncada nomme une "sarabande
de formes", vaguement circulaires et sinueuses, qui semblent
"faire des pirouettes".
Mais méme si elles n'ont pas une Organisation objective,
elles ont une cohésion interne qui les maintient ensemble
et tient à la structure rythmique de leur création.
Ainsi la structure n'est-elle pas rejetée par Moncada. C'est
le plan préalable, le projet, qu'il supprime pour le remplacer
par une sorte d'animation des signes, concomitante à l'acte
de peindre, et rythmée par la dynamique méme de la
réalisation qui n'est plus seulement création, mais
composition. Les derniers tableaux de la série des Danses
sont en ce sens révélateurs de la respiration donnée
par la présence simultanée des noirs, qui créent
des couples de figures, de couleurs, et de transparences opaques.
On ne saurait rendre compte de l'Oeuvre de Moncada sans ajouter
à cette stabilité d'une quéte esthétique
rigoureuse et exigeante une autre quéte, qui confère
à son Oeuvre une autre cohérence, plus intime et non
moins importante, celle de la joie. Joie des couleurs et des rythmes,
des vibrations et des transparences, qui permettent à cet
artiste de rejoindre ses origines méditerranéennes
et de faire de ses Oeuvres les portées musicales d'un art
axé vers la lumière.
1988 - Musée des beaux-arts de Chartres
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Nelle
sue tele non esiste più ordine, struttura: le forme vagano
nel vuoto e non conoscono un luogo definito. Tutto è provvisorio.
Non esiste più geometria: i segni vagamente circolari che
circondano i nuclei di colore hanno l'approssimazione rudimentale
di un ritorto filo metallico. Non prevedono il compasso e non suggeriscono
nessuna idea di compiutezza o di perfezione: piuttosto una giravolta
incerta, una sinuosità irregolare.
Dunque la festa mediterranea dello sguardo, che queste opere ci
offrono, non si risolve in puro vitalismo, in sfrenatezza inconsapevole
e irrazionale. Lontana da riferimenti organici, da allusioni fisiche,
tutto risulta in superficie, questa pittura conserva intatto, paradossalmente,
il suo contenuto mentale, la sua suggestione filosofica.
Sono pensieri, come diceva Wittgenstein, quelli che si librano in
essa. Pensieri di felicità, certo. Ma anche pensieri sulla
felicità: che è breve sogno, lieve e convulso, impalpabile.
Al di là del quale, come al di là della vita, non
esiste nulla.
1987 - Galleria S. Francesco - Forlì
Elena
Pontiggia
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La
pittura - come mezzo - si presta, per le sue innumerevoli possibilità,
ad essere "manipolata" quasi nella sua struttura fino
a diventare, molto spesso, ahimé, indicatore di situazioni
più mondane che culturali. Inutile negare quanti artisti
i quali, attraverso la loro pittura, in questo momento si fregiano
di appartenere a squadre cultural-mondane di questa tendenza pittorica
oppure di quest'altra.
D'accordo la novità, ma non certo dal punto di vista della
cultura.
Ben lungi la mia intenzione di analizzare criticamente questo momento,
ma quanto caos nei poveri mass-media. La coerenza con cui l'artista
Moncada opera principalmente in un'analisi di ricerca su se stesso
e poi di dialogo attraverso il mezzo pittorico, con i suoi interlocutori,
è, a mio parere, fattore - oggi - più che raro.
La sua analisi ha radici profonde, certamente inconscie di quanto
dovute, e sono molla derivante dall'humus della sua terra natale.
Questa Sicilia così pregnante di storia, una storia che tutto
avvolge e che violenta anche i suoi figli.
Ed è per ciò che, nelle sue "archeologie",
l'artista ricerca sempre queste presenze, presenti nel suo lo ed
in tutto ciò che lo circonda.
I vari materiali con cui egli cerca questo suo dialogo attraverso
il termine astratto, immediatamente coinvolgono anche l'Interlocutore.
Queste trasparenze ottenute allora, attraverso varie carte di differenti
materiali sovrapposti tra di loro, ci parlano di tempi remoti, di
metafore conscie ed inconscie, di un logos primordiale.
Questa ricerca attenta e continua, ha portato la nascita, nel lavoro
di Moncada dalla dimensione normale del cavalletto (1976-1981),
al tentativo attraverso "La Pont Art" di dare anche questo
senso di ciclopica dimensione. Questo intervento pittorico sui ponteggi
(1982-1985) di strutture provvisorie ingabbianti grandi mobili urbani,
hanno appunto, in questa originalità di tentativo, un potere
nella magnitudo storica, di cui è permeata la sua pittura.
Ecco quella che, a mio parere, è la struttura più
importante e forse portante della pittura di Moncada: le trasparenze.
Sono trasparenze sì strutturali espresse attraverso varie
tecniche - appunto pittoriche - ma che coscientemente l'artista
sa di trovare in se stesso, sono mezzo con cui riesce ad esprimere
questo spessore storico del nostro quotidiano. E stata, la sua,
una ricerca profonda e minuziosa. II lavoro di Ignazio Moncada ci
porta, attraverso le archeologie con le quali ha esposto a Parigi
dal 1966 fino al 1973 e di poi, attraverso le Mostre di Milano,
Bruxelles e Torino, fino a quei grandi teli di dimensioni così
mastodontiche, da fare pensare alla libertà pittorica: intesa
come idea al di là dei cavalletto e della parete involucro,
ed al coinvolgimento totale del tutto attraverso il momento artistico.
Gli ultimi lavori da noi presentati, sono appunto espressioni di
questa coerente ricerca e ben ci sanno parlare, nella loro astrazione,
di quanti archetipi il nostro essere è composto.(1986)
Daniele
Crippa
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Il
mio amico Ignazio era in forma.
La luce Calais-Rimini cominciava a piacergli. Aveva lampi e scintilli
insospettabili.
Poi, adesso. Entro nello studio di Moncada e lo trovo esagitato.
La band della pittura pigia forte. Altro che pochi accordi separati
e gai! Adesso il pianoforte mette in fila serie di note sgranate
come rosari, i rossi rimbalzano sui gialli, che scivolano sui blu,
che si frantumano in serie minute e battenti di verdi e di bianchi,
che prendono respiro, si allargano, annegano tutto, mentre le bordure
nere sono sempre lì; a dare struttura, ma anche a comporre
i ritmi e le scansioni di un ritmo forsennato.
È boogie-woogie, questo!
E il mio amico Ignazio è felice!
Dice Nina Kandinski che al Bauhaus organizzavano delle feste, e
ballavano. Ballavano tutti. Poi Mondrian, il puntuto olandese, andò
in America. Di sera si schiaffava uno smoking viola, e via, nel
rimto della città tentacolare! Taratatataratatara-tatata...
Era un gran ballerino di boogie-woogie.
Io so cosa provava. Lo so perché un po' me l'ha spiegato
Ignazio Moncada. Il quale adesso è nel suo studio fra i tetti,
ha distolto gli occhi dai cieli bizantini, li ha sollevati da terra,
e li tiene fissi e concentrati verso l'interno, su uno spartito
che conosce solo lui.
Taratatatara... Rossi e gialli e neri e bianchi e blu... Hanno un
ritmo.
Hanno una luce. Più piccoli sono e più s'incalzano.
Più s'incalzano e più la luce è chiara, uniforme,
smagliante. C'è un radar felice fra i tetti di Milano. C'è
un ritmo felice in mezzo a molti tetti. Ignazio lo ama, perché
ha impiegato molto tempo a captarne la lunghezza d'onda.
1985 - Galleria del Naviglio
Flavio
Caroli
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Questo
non attestarsi mai al di qua o al di là dell'operazione sulla
forma è peraltro la chiave che spiega la capacità
di Moncada di rinnovarsi, di non cadere nell'iterazione di stilemi,
o anche solo di procedimenti sperimentati. E infatti, dopo aver
fatto ricorso in una lunga teoria di dipinti alle velature e alle
trasparenze, direttamente concretandovi il sedimentarsi del tempo
e delle memorie, l'artista ha imboccato una inedita direttrice espressiva.
Oggi sto vedendo dei dipinti in cui il segno geometrico sopravvive
ma non fa da padrone, un segno geometrico che mantiene nella propria
precedente esperienza il senso della spinta categoriale, ossia il
valore della geometria, il valore della razionalità, non
più la periodizzazione insistente e perché non qualche
volta perturbante di questo segno romboidale.
1984 - Atelier Rosario Bruno, Sciacca
Carmelo
Strano
Le immagini non sono più scandite in superficie attraverso
campiture più o meno regolari con una cauta dilatazione spaziale
in profondità data solo dalla sovrapposizione di materie e
pigmenti, ma sono risolte con diagonali e orizzontali (queste pure,
quasi sempre non parallele ai margini dell'opera), che originano dei
rombi e quindi una sorta di affanno prospettico. Non però nemmeno
oggi, una prova di virtuosismo geometrico, ché, anzi, l'organizzazione
delle forme è tutt'altro che matematicamente conseguente, e
appare invece compromessa da instabiità di struttura e da diffuse
corrosioni.
Ne deriva una suggestione immediata di allusione, ancora, archeologica
(pavimenti antichi slabbrati dai secoli? affreschi strappati da umide
annose pareti?), ma soprattutto la sensazione dell'affiorare di emozioni
e ricordi radicati nel profondo, che gli squarci di luce che percorrono
l'immagine caricano di intensa, visionaria partecipazione.
1984 - Gall. Pancheri, Arte Fiera, Bari
Luciano Caramel Uno
dei momenti fondamentali della ricerca di Moricada è l'impianto
di una segnaletica trasparente, cioè di una segnaletica tale
da spingere il fruitore ad una lettura dell'opera e di quanto la
circonda che ne attraversi le apparenze, le forme le trasparenze.
Il Ginsekai è in noi, mna anche attraverso l'opera.
1980 - Galleria Stufidre, Torino
Franco
Torriani
Il
reperto non è più frammento oggettivo, è piuttosto
un segno di ciò che avrebbe potuto essere in quel luogo,
se in quel luogo vi fosse mai stato un oggetto. La sua esattezza
è presunta, nè mobile nè immobile.
1979 - Archeologie Astratte
Roberto
Sanesi
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|
I
«REPERTI» DI IGNAZIO MONCADA
Le
cronache della contemporaneità registrano fughe nel privato,
riflussi e restaurazioni più o meno attendibili, lasciando
intuire fra le righe che «qualcosa» è andato
storto rispetto alla simmetria previsionale del divenire. Così
si fa retromarcia, cercando di recuperare alla «ragione critica»
quel recente passato che veniva prontamente riassorbito nel presente,
senza storia da rinviare al giorno dopo, come se l'ieri fosse stato
un inevitabile pedaggio da pagare per accedere al domani. Eppure,
già qualche secolo fa, il Magnifico ammoniva che «nel
doman non v'è certezza»... D'accordo, allora le cose
andavano diversamente, seguendo altre coordinate spaziotemporali;
però oggi, anticipando il domani, ci ritroviamo con un presente
senza certezze perché il passato prossimo è tutto
da dubitare. Tanto vale, quindi, arretrare parecchio nel tempo per
riscontrarci «a memoria» fra i reperti del nostro passato
remoto, cioè della nostra archeologia mentale. Qui, probabilmente,
c'è ancora «qualcosa» che funziona, o potrebbe
funzionare, alla riscoperta conoscitiva, sapendo riordinare nel
casellario della memoria le immagini di un «vissuto»
omologato nel vivente. Immagini e archetipi dell'immaginario, ritornanti
dalle tenebre alla luce, dall'inconscio alla coscienza: reperti,
appunto, che riaffiorano fra dissolvenze e trasparenze mutevoli
alla «messa a fuoco» del nostro sguardo interiore, penetrante
nei «luoghi occulti» del sentire irrivelato all'interpretazione
dei significati afferenti ai minimi o massimi Sistemi Ideologici.
Nell'ambito di questa riesumazione dei dati immemoriali, Ignazio
Moncada ricerca punti di contatto, convergenze e relazioni interne
fra l'operatività del presente e l'autorispecchiamento nel
passato remoto, mutando archetipi mentali e frammenti archeologici
in quella «poetica del reperto» che da alcuni anni è
al centro della sua operazione pittorica. In effetti, già
all'approccio manuale, Moncada intrattiene un dialogo serrato con
i mezzi di espressione, addizionando al fondo-tela, in prevalenza
monocromatico, veline ritagliate e incollate che costituiscono,
agglutinandosi fra dissolvenze e trasparenze tonali, il casellario
dei «reperti» mnemonici: immagini di un repertorio «intermediario»
fra il tempo vissuto e il tempo vivente all'interno, si direbbe
di una «zona franca» dell'extratemporalità, nella
quale la presenza del divenire è contigua all'essenza del
divenuto. Ciò, indipendentemente dall'artificio tecnico della
pratica pittorica, corrisponde a un processo di «mimesi»
retrospettiva ma, soprattutto, introspettiva. Il superamento stesso
dei confini semantici, arretrando il presente al passato remoto,
consente a Moncada di poter transitare i «luoghi» aurorali
della civiltà occidentale, praticamente senza incontrare
ostacoli alla penetrabilità «significante» dello
sguardo interiore. Pertanto anche un mondo in frantumi, cioè
dalle frantumate apparenze, può essere ricostituito, addizionato
ai materiali metamorfici della realtà per riscontrarvi tracce
o, meglio, «reperti» dell'umana condizione.
Così l'inanimato riprende vita, l'indicibile riacquista pregnanza
sensibile al tatto e alla vista, attraverso la pitturacollage di
Ignazio Moncada. Ma qual è il senso o, se preferiamo, la
motivazione operazionale di questa «poetica del reperto»?
La risposta arriva dal profondo, mediante l'immersione intertemporale
nell'arte minoica, alle fonti dell'antica civiltà cretese.
Basti confrontare l'archeologia del tessuto urbanistico, multicellulare,
da Cnosso a Gurnià per ritrovare nelle «piante»
pittoriche di Moncada frequenti rimandi e tutt'altro che casuali
analogie. Che ciò corrisponda a certe peculiarità
eidetiche (idea-forma), attribuite sia agli artisti che agli artigiani
cretesi, è un riscontro «visionario» attinente
all'ipotesi di un «riflusso» evocativo cui, forse, lo
stesso Moncada non ha pensato, nonostante la sincronicità
eidetica dei referenti traslati in «reperti». Tuttavia,
volendo conferire una aura magico-misterica a queste immagini, sicuramente
intenzionate secondo il titolo Reperti di archeologia astratta,
è probante ricondurre il pensiero originario al fare operativo,
ribadendo così quella dichiarazione di «poetica del
reperto» che presiede alla ricerca pittorica, multievocativa,
di Ignazio Moncada.
Verbania
1979
Miklos
N. Varga
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COLLAGE:
PER MONCADA
I.
Sul grande collage (theatrum, tavola sinottica, ecc.) del recupero
architettonico, anche statuario, a frammenti, archetipi compresi,
si vengono a stabilire curiose coordinate. Una specie di "a
memoria", di trasparenza messa in forse, non in crisi, dal
continuo riemergere di elementi che con il loro stesso apparire
tendono a spostare il corpo, la sostanza geometrica del proprio
essere reperto, insidiando la fissità, il tempo, già
con tanta difficoltà definita - nelle forme, nel loro appiattimento
nella loro disposizione enigmatica.
Mura, altari, iscrizioni, come a Micene, a Eleusi, nelle Cicladi.
Con lo stesso colore da affresco, con la stessa pàtina. Senza
leoni (Micene), con molte porte. Il circolo delle tombe. Rientro
della vita, della morte, avendo spento ogni grido. Tutta una "reverie":
la terra, la madre. Quasi con eleganza, come si addice a chi abbia
preso le distanze con attenzione alla traccia, all'impronta.
Un divenire come pietra, come seme. Il problema è riconoscere
il linguaggio, la pietrapietra, la pietra-parola, la pietra-uomo,
e viceversa, in un'estatica esposizione di quanto resta, che è
"pietra", o meglio ricordo, reperto. La grandezza, di
fatto, non è che una qualità accidentale (Macalister,
1948). A proposito di megaliti. È il segreto iniziatico a
definirla. E poi finestre, loculi, aperture. Quindi nel morte-vita,
vita-morte, viaggio a spirale, ingresso e uscita si identificano.
Da cui il seme, e le conseguenze della citazione "seme",
sempre pronta a tradurre nel suo opposto il concetto su cui si fonda,
fino al suo residuo (reperto) "non assimilato e non assimilabile"
(Agosti). Ciò che resta. E che oltre a pietra è, per
metafora, foglia, o sesso femminile. A cui si oppone il suo opposto:
contro l'arco la freccia, oltre la soglia la pietra, come un vuoto.
II.
... sequenza/evoluzione ...
- tombe, comunque –
da cui:
Leeds, Wilke, Obermaier, Aberg,
ma soprattutto Gimpéra, il catalano /
(tombe: d'accordo?)
/ nel Gloucestershire, ad Avening,
l'ingresso è un utero, muschio
sulla dolcezza dei limiti di pietra
- hunebeg, anta -
e in altri luoghi (Gavr'innis, New Grange,
Torche-en-Plomeur...
... pietre, segni, frammenti, un menhir a Porspoder (Finis terrae,
non a caso), una pietra solare a Avebury, la "fontana di Notre-Dame"
a Josselin, Morbihan, un menhir a Saint Duzec o a Saint Julien,
la Bennett's Cross a Postbridge, la Holestone a Doagh, la seminagione
petrosa di Carnac, la necropoli di Pantalica o un ciottolo qualunque...
La forma a U capovolto, arco, porta, e boomerang, struttura del
dolmen, implicazione di un passaggio necessario, verso un mondo
"diverso". Mai conquistato, già perduto. Talvolta
una lettera, più lettere, fino alla pagina. Scrittura che
conduce in sè una traccia di masse astrattizzata. Come osservando
"The groundplot of the Brittish (sic) Tempie now the town of
Avebury, Wilts. A° 1724", per quanto raro sia il cerchio
fra le figure. Alle quali si può aggiungere, senza negare
l'effetto di una screpolatura che mette a nudo uno spazio retrostante
del tutto ambiguo, il profilo di Silbury Hill. La sua gessosità.
Il suo ripetere l'immobilità di un'attesa, con un colore
d'alba misto a terre.
III.
e può la pietra conoscermi
mi chiedo
può chiedersi
la pietra
perfino
qui fra assenze
e rovina
se
ovunque
(secondo
l'insistenza di Richard Burns)
Atteggiamento non diverso (Moncada: è la resa che si differenzia)
da quello di chi può ritenere che una imprecisione sia il
risultato di un malanno che la piccola pietra ebbe a patire prima
di diventare grande.
lV.
La tavola è equamente suddivisa, ma ogni pieno è un
vuoto. Con strane slabbrature, strane per una costruzione che si
presume rigorosa e che lascia filtrare, con la luce, vaghe allusioni
alla natura. Se torniamo a Micene, recesso dell'Argolide, seguendo
Schliemann che segue Pausania, si noterà che la triste serie
di eccidi non ha lasciato che indizi di un contesto topografico,
e tombe (a tholos), e un colore ruvido, bruno-rossastro, di sabbia.
La geometria, appena accennata, come misura, come parola non parlata,
situata in un luogo circoscritto, immobilizzata, a supplicare l'invisibile,
traduce in assenza il ricordo, il ricordo di un'assenza. Perchè
"mentre ci serviamo dell'oblio come di un potere, il potere
di dimenticare ci consegna senza potere all'oblìo, al movimento
di ciò che sottrae e si sottrae".
Perciò la trasparenza, la forma sulla forma, la figura sulla
figura (senza "persona"), negando ciò che espone
ma non negando di esporre, si dispone in uno spazio che pur limitato
e definito si offre come exemplum di quella unità presunta
di cui fa parte. Il reperto non è più frammento oggettivo,
e piuttosto un segno di ciò che avrebbe potuto essere, in
quel luogo, se in quel luogo vi fosse mai stato un oggetto. La sua
esattezza è presunta - nè mobile nè immobile.
È significativo che appena una traccia, un'orma, appare accanto
all'esattezza del tracciato, della tavola architettonica, a contraddire
la sua stabilità (di ciò che in apparenza resta),
il suo "gesto" è da fuori, dall'esterno della composizione,
che agisce. Una mimesis: ovverosia il collage. (1979)
Roberto
Sanesi
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Nel
1976 ho iniziato ad adoperare le veline come medium insieme al colore.
Su un dipinto iniziale sovrapponevo degli strati leggeri di carte
che creavano grovigli, accumuli, stratificazioni frastagliate, trasparenti
l'uno sull'altra ma che a tratti venivano a cancellare il dipinto.
Successivamente, ho sentito il bisogno di aprire nella superficie
delle fratture, delle crepe. Sono nate delle forme frantumate, dei
segni primari, delle sagome irregolari che ho trovato naturale chiamare
reperti di archeologia astratta. Queste immagini che si venivano
isolando come forme archetipe rivissute nel mio inconscio, emergevano
dalla rottura dello spazio del quadro.
Giugno 1979
Ignazio Moncada
Ignazio
Moncada progetta le sue immagini e sperimenta materiali di costruzione
con una sufficiente dose di ironia e di distacco, con una garbata
insofferenza per ogni forma di ortodossia che possa sembrare «adorazione
feticistica» dell'immagine o dell'oggetto o in ogni caso compilazione
ripetitiva di uno schema, un presupposto. Le diverse letture percettiva,
psicologica, estetica - a cui l'opera è sottoposta portano
a una sintesi controllata fra previsione e imprevidibilità,
certezza statistica, meccanica di uno sviluppo di forme o di una
successione di colori, e la casualità, l'intervento del non
prevedibile, dell'anomalia nel determinarsi dell'immagine complessiva.
E tutto il sistema si può formulare come casualità
mascherata da necessità: la presenza di un disegno di natura
costruttiva, che invade l'intero campo dell'opera è contraddetta
dal progressivo abbassamento percettivo di una parte di esso ottenuto
per desaturazione o per velature di bianco: l'opposizione figura-fondo
che ne risulta è anch'essa di natura dinamica, trai scontata
o data per certa. La figura infatti si presenta già, nella
sua formazione, come composita, risultante da linee di tendenza
che superano la figura stessa e agiscono nel campo; esterno e interno
della figura ancora sono formati e nello stesso tempo scomposti
da fasce di forme-colore di stesura, intensità, forma e dimensioni
sempre diverse.
Galleria Interarte, Genova 1976
Alberto
Veca
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Negli
ultimi lavori di Ignazio Moncada - composizioni materiche quadri
su tela di grandi o, viceversa, di piccolissime dimensioni - quello
che pare essere, anche a giudizio di critici ed esperti, l'assillo
centrale e più autentico della ricerca dell'artista, e cioè
un effetto totale di trasparenza, si attua facendo intervenire nell'operazione,
contemporaneamente, due istanze press'a poco antitetiche. La prima
istanza è d'ordine mentale e consiste nel perseguire quegli
effetti all'interno di una gabbia formale calcolatissima, ove il
giuoco del caso trova, ogni volta, una sorta di correttivo intellettuale
nell'incontro, o scontro, con elementi del dominio razionale assisi
in altro luogo; il luogo, appunto, dell'intelligenza e dell'egemonia
sul reale.
L'altra istanza si collega invece all'ordine esecutivo, manuale
o tecnico, e consiste nel perseguire l'effetto meno come sovrapposizione
di toni che come distruzione della materia (la carta, il colore,
la colla). Per questo riguardo, si ha perciò a che fare con
un lavoro reale di dissoluzione-disfacimento, ove la trasparenza
è quanto resta di tale lavoro sulla superficie che ne costituisce
il campo di attività: la sua traccia, la sua impronta, «il
residuo» concettualmente (razionalmente) non assimilato e
non assimilabile.
Dicembre 1976
Stefano
Agosti
Tra
il caos del subconscio e la tecnica rigorosa, vigilante, si sviluppa
il programma dell'operatore artistico, che cerca anche la sua propria
identità. In questo universo di enigmi, dove nessuno dispone
di tempo per pensare all'assoluto o per ripensare la storia relativa,
l'artista Moncada gode della certezza del colore, della forma e
della linea. Nei suoi quadri attuali la diversità dei rossi,
rielaborati, distanti da qualsiasi agitazione, palesa il suo lirismo
intimo; le linee azzurre e verdi, esitanti fra il calcolo e il sogno,
diventano affermative; le diagonali esigenti vogliono provocare
il dialogo; le colonne rosse alzano un tempio astratto. II tutto
si inserisce nel nitore che distingue l'acrilico. 1 piani in conflitto,
talvolta monumentali, si conciliano. I contrari si uniscono, con
ribellione. L'operatore Moncada riesce a oltrepassare la linea quotidiana
dell'astratto, abbinando ispirazione e pianificazione, fluidità
e solidità: arriva quindi a dominare il subconscio. La crisi,
risultante dallo choc fra intelletto e sensi, è superata
dalla forza dialettica del colore. Si realizza allora la comunicazione
con « l'autre».
Studio Condotti, Roma 1974
Murilo
Mendes
Et
s,i tu regarderas là le tout toi mème le plus cachè
tu verras que la ligne seule la seule possible c'est la non ligne
la ligne bang bang.
«Il Punto» Torino Nov. 73
Emilio Villa
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ARMONIA
- DISARMONIA DI STRUTTURE
Credo
che sarebbe equivocarle, accettare le strutture di questi dipinti
recenti e recentissimi di Ignazio Moricada per assolute. Come dire
cioè che sarebbe improprio riferire subito queste prove alla
tradizione del Concretismo. Perchè Moncada mi sembra non
calibri forme pure in strutturazioni architettoniche, di esito appunto
assoluto, quanto inviti piuttosto come a rilevare la rotazione,
l'intrecciarsi di sfere e di strutture. Queste dunque accetti non
in funzione statica, bensì dinamica, non assoluta, ciascuna
di per se definita, come componente architettonica, bensì
appunto dinamica. E così, insomma, il mistero non nasce in
queste tele dalla purezza della forma strutturata, quanto dall'intreccio
- precario, variante, episodico, persino - delle strutture: nessuna
delle quali dunque è prevalente, nessuna delle quali protagonista,
a danno di altre subordinate. In fondo mi sembra che Moncada, se
così posso dire, piuttosto che costruire ascolti: ed ascolti
proprio questa compenetrazione, questa rotazione, questo intrecciarsi
di strutture. E di qui cambi un suo dialogo magico, almeno nel senso
orfico (che giustifica la sua ammirazione per Kupka, per esempio
al di là dei termini d'un rapporto strettamente linguistico
non esistente). Allora certi tondi non saranno semplici inquadrature,
semplici riduzioni: saranno come dei cannocchiali su quel movimento
di sfere, la cui risonanza d'esponente simbolico svaria dal cosmologico
allo psicologico, mi sembra.
In fondo, insomma, la realtà per Moncada è l'intrecciarsi
sempre mutevole di strutture elementari, valide appunto soltanto
in questo loro articolato consistere, e non separatamente come assoluti
formali. Così che l'atto più pertinente non è
la contemplazione della perfezione costruttiva bensì l'ascolto
di questa armonia-disarmonia d'intreccio, un'eventualità
di rivelazione vagamente magica da quell'attrito strutturale, che
è poi fatto di strutture esenzialmente cromatiche (il che
vuol dire ampliare le virtualità simboliche di quegli elementi,
e la moltiplicità di esiti del loro intrecciarsi). Ed attraverso
questo avvertimento dinamico, infine, Moncada sfugge anche ad una
sommaria assimilazione ad esiti di segnaletismo, così diffusi,
dagli esempi d'oltreoceano. D'altra parte quell'ascolto non è
sentimentale, quanto piuttosto logico, così che Moncada sfugge
anche ai termini d'un effusivo lirismo astratto, o d'un'evocazione
che sia. Perciò il suo colore ha una freddezza e limpidezza
non affettiva, è colore distaccato, piuttosto che passione,
che ricordo ed evocazione. Infatti Moncada è analitico, e
non vuol perdere nessun tratto, nessun episodio di quell'evento
elementare, ma per lui reale, che è l'intrecciarsi delle
sfere, delle strutture.
Galleria Obelisco, Roma 1971
Enrico
Crispolti
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IPOTESI
«INCORPORATE» DI MONCADA
Nel 1967 Moncada rielabora e sintetizza i tempi e le sperimentazioni
degli anni precedenti ed affronta una serie di tele in cui è
di tutta evidenza il raggiungimento di una maniera autonoma e molto
personale.
Indubbiamente, nella sua pittura confluiscono dati di cultura storica
e recente, ma il metodo esecutivo è indirizzato con estrema
lucidità verso una decantazione d'immagine sempre più
rigorosa: la continuità del segno geometrico, attraverso
una polivalente ampiezza di morfologie, caratterizza questo periodo.
Ed è questo il punto che l'immagine cessa di essere un «episodio»
nello spazio pittorico, qualificandosi essa stessa come spazio generatore
di immagini «altre» ribaltate su un piano di ambiguità,
scandite su un tempo raggelato. Il colore, totalmente oggettivo,
concorde a sottolineare questo tempo fermo: si crea, dunque, una
tensione psicologica di staticità, un senso d'attesa.
Ed ecco apparire, dagli estremi limiti dell'opera, delle immagini
assolute, geometriche, cariche della propria evidenza iconologica,
prorompenti in uno spazio che da psicologico è diventato
fisico, materia di supporto, campo d'azione.
A questo punto l'immagine è definita, raggelata nella sua
essenzialità, compiuta nel suo essere forma e spazio, esistenza
totale. All'artista non rimane che bloccarla, pietrificarla in questo
suo essere «per sè». Nulla di più adatto,
allora, del ricorso ad un procedimento industriale (e qui si rinnesta
la vocazione sperimentale del Moricada): la plastificazione inglobante.
Questi «incorporati» si presentano, dunque, come ipotesi
fenomeniche di una operazione pittorica che ha raggiunto il suo
limite di espressività formale. Sono degli «oggetti»
che presentano la massima disponibilità anche fruitiva.
1968
- Galleria Ferro di Cavallo
Giuseppe
Gatt
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