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SUI DISEGNI DI IGNAZIO MONCADA

All'esteriorità del colore rispetto al Soggetto, sembra contrapporsi la relazione di prossimità, e quasi di intimità, del disegno. Col disegno, il Soggetto traccia meno una figura del mondo che una figura di sé, anche là dove il disegno sia il presupposto di una rappresentazione pittorica che ne ricalcherà l'impianto e le strutture come nei grandi pittori del Cinquecento, ma anche come in alcuni grandi della nostra modernità. Si pensi, per esempio, a Morandi, presso il quale il disegno, che sembra uscito dal respiro medesimo dell'artista, è spesso la fonte dei quadri, ove la superba, incomparabile sostanza cromatica si dà nella distanza più altera, più obiettiva nei riguardi del Soggetto. In Morandi, come in tutta la grande pittura, il rapporto del Soggetto al colore, all'esteriorità del colore, include la stipulazione di una equivalenza rispetto a uno stato interiore di cui solo l'equivalenza è in grado di tradurre la profondità; mentre il disegno tende a coincidere con questo stato, a seguirne le modulazioni e gli assestamenti. E quanto succede con questa serie di disegni di Ignazio Moncada. La pittura di Moncada, pur nelle varie fasi della sua evoluzione, è sempre improntata al massimo di obiettività e, per ciò stesso, di esteriorità rispetto al Soggetto. È la festa della carne variegata del mondo (come direbbe Merleau-Ponty), che il Soggetto fa svolgere davanti a sé, e il cui più alto esempio può essere individuato in Matisse.
Ebbene, in questi disegni - che costituiscono, per Moncada, una dimensione non consueta della sua attività -, l'artista sembra chinarsi su di sé, speculare all'interno del proprio mondo, mentale o emotivo, al fine di cogliere quelle forme germinali, arcaiche, frammentarie e magari approssimative, destinate a costituire gli equivalenti formali, esterni e obiettivati, della visione pittorica. Interamente coinvolte in una straordinaria simbiosi con gli stati del Soggetto, queste forme sembrano alludere a una "figuratività" da principio del mondo, vale a dire a una figuratività senza figura, ove il visibile si dia come anteriore alle nozioni acquisite delle cose e degli esseri, ove l'antropomorfico non si distingua dal naturale (roccia o tronco d'albero), e viceversa.
Si tratta, in definitiva, di un rapporto con una sorta di matrice del visibile, diciamo pure col fantasma di una visibilità originaria, ove le forme, libere sia da ogni mimesi sia da ogni riduzione astrattiva, si presentano sotto le specie di "simulacri": vale a dire in quanto forme pure, interiorizzate, non solo prive di modelli ma anche immuni da derive concettuali d'ordine sintetizzante.
A questo punto, si potrebbe ipotizzare che il limite ultimo di questa, per così dire, intimità regressiva della pratica del disegno in Moncada, sia costituito da uno stato di procurata "cecità": lo sguardo è sottoposto all'abbaglio dell'Origine. Il che consentirebbe di assegnare alle configurazioni formali che abbiamo descritto, una loro posizione di sintomatica complicità nei confronti di alcuni filoni, fra i più suggestivi ed anche più problematici, della riflessione speculativa contemporanea.
(Mantova 2004)

Stefano Agosti


 

NATURA, EMOZIONE, MITO

Natura, emozione, mito sono tra i fattori principali del "composto" Ignazio Moncada pittore. Fattori, perché non si tratta solo di referenti in senso lato, né di strette "categorie" tematiche, come del resto l'inclusione in una posizione di raccordo tra due dati diciamo così oggettivi, natura e mito appunto, di un terzo invece squisitamente soggettivo vuole indicare, ad evidenziare il registro del fare dell'artista, e la chiave per entrarvi. Che l'artista medesimo ci suggerisce attraverso i titoli delle opere esposte in questa e nelle altre sue recenti personali, ma anche in tempi più remoti, prima dell'adozione di un ermetico, o almeno reticente, Senza titolo, anch'esso d'altronde da non intendere come indice di autoriflessività linguistico-formale.
Troviamo infatti, nei dipinti tra anni ottanta e inizio novanta, rimandi "tematici" a I segni del vento e del tempo, ad Alesa e i segni del vento, oppure ad un Avvenimento a Panarea, ben meno espliciti, tuttavia, di quelli delle opere presentate tre anni fa nello Spazio Annunciata di Sergio Grossetti in una mostra che di questa nuova uscita di Moncada è l'immediato precedente, e non solo in termini cronologici. Tanto che nell'introduzione del catalogo edito per l'occasione (all'insegna, non mia, de La rappresentazione del mito che, per l'uso della parola "rappresentazione", poteva generare equivoci fuorvianti), mi capitò di osservare che, prima ancora di conoscere i titoli dei quadri (Polifemo - Etna e dintorni, La residenza di Afrodite era un gran palazzo in fondo al mare, Mari cieli acque della terra, Il vento che sembra spirare dal nulla, per citarne qualcuno) ci si sente immersi, guardandoli, in quella totalità partecipata di realtà fisica e di sovrasenso mitico che ci comunicano i rossi e i gialli dominanti, con tutti gli altri colori, con sorprendenti effetti sinestetici; col risultato di una stimolazione dell'immaginazione, della fantasia e della memoria, che esalta il ruolo attivo della pittura, fuori di passività connesse alla registrazione naturalistica.
Ancora con la premessa della non necessità di un siffatto supporto, per l'eloquenza interna alle opere, può tuttavia avere un senso sottolineare la continuità di una siffatta temperie negli stessi titoli di questa esposizione, ricordandone qualcuno: da I giardini di Galatea a cui la mostra è intitolata, e da La dimora di Poseidone, a Sulle tracce di Orfeo ed Euridice, Le felci di Galatea, Eros anteros, Solaria, Il tridente di Poseidone. Pure qui il protagonismo del colore, che tutto coinvolge su di un registro appunto largamente comprensivo di una natura carica di risonanze mitiche vissuta e proposta sulla tela con forte partecipazione emotiva. Che può essa stessa essere riferita, come i temi richiamati, a quella mediterraneità ripetutamente attribuita con fondamento a Moncada e ai suoi lavori. Una mediterraneità di cultura, anzitutto, che coinvolge l'invenzione attraverso anche, certo, l'emozione, per l'influsso medesimo dei luoghi in cui l'artista è nato e s'è formato.
Sempre, quindi, natura, emozione, mito, con l'aggiunta di quel "mediterraneo" che va chiarito. Ad evitare da un canto sconfinamenti nell'accezione folcloristica, tanto abusata quanto generica, e limitante, e dall'altro quei sovrasensi ideologici, in direzione nazionalistica, con connotazioni financo di "difesa della razza", che hanno pesato sul termine nella temperie del ventennio tra le due guerre mondiali. Tanto che non solo la parola è stata prudentemente evitata in sede critica, ma si è anche non di rado assistito, con opposto ideologismo, ad una sua codificazione a senso unico che ne ha stravolto la natura, tanto che ancor oggi sono opportune delle "istruzioni per l'uso". Relative soprattutto, come s'è detto, allo spessore culturale di un tale retaggio, da non sottovalutare, ovviamente fuori di impraticabili determinismi, in molta "produzione" artistica moderna e persino contemporanea di quella che fu la Magna Grecia e della stessa Sicilia di Moncada, in cui possono essere riscontrabili dei "cromosomi" che perpetuano, nello sviluppo e quindi nella diversità, oltre che nella varietà, certe matrici d'origine. Senza trascurare il fatto che, al di là della "genetica", il riallacciarsi al passato può essere un intenzionale recupero delle radici. Entro tali coordinate, anche, se vogliamo, di antropologia culturale, va considerato quel senso di gioiosa luminosità panica, sensualmente effusa, che è una delle più riconoscibili caratteristiche della pittura di Moncada. Da non classificare solo con l'abusato cliché di un'istintiva estroversione ottimistica, fatta solo di sensi e di fantasia, per la trasparente progettualità e il controllo formale ad essa sottesi, anche nelle opere più libere e cromaticamente festose. Determinante è sempre l'intervento mentale, peraltro nel nostro pittore mai coincidente, neppure nei risultati più analitici dell'inizio degli anni settanta, con un rigido concettualismo, né, come si può verificare nella sua attività para-concretista dei cinquanta, con un geometrismo deduttivo, a priori, di marca idealistica. Come ha bene precisato ormai molto tempo fa, nel 1987, Elena Pontiggia, "la festa mediterranea dello sguardo che [le] opere [di Moncada] ci offrono non si risolve in puro vitalismo, in sfrenatezza inconsapevole e irrazionale. Lontana da riferimenti organici, da allusioni fisiche, tutto risulta in superficie; questa pittura conserva intatto, paradossalmente, il suo contenuto mentale, la sua suggestione filosofica". E aggiunge acutamente:" Sono pensieri, come diceva Wittgenstein, quelli che si librano in essa. Pensieri di felicità, certo. Ma anche pensieri sulla felicità: che è breve sogno, lieve e convulso, impalpabile".
Tutto ciò è particolarmente evidente in questa mostra, che la felicità certo non nega, tuttavia legandola appunto ad una riflessività insieme memoriale e razionalmente pensosa. Con accenti diffusi di malinconia, e persino di dolente meditazione, in certi colori scuri e profondi, nell'accumulazione dei segni o per converso nel loro ritmato diradarsi.
(Milano 2004)

Luciano Caramel


 

OPERE, OPERETTE E OPERAZIONI SUL COLORE

L'ultima ossessione di Ignazio Moncada è una serie di piccoli quadri dall'aria divertita e intrigante a cui l'artista affida il senso fantasioso della pittura, come se le regole del gioco si fossero moltiplicate oltremodo per esprimere il piacere disinibito del colore. A guidare queste ultime "operette" è quel racconto inesauribile della materia che nel percorso di Moncada si è trasformata in immagini alla deriva, peripezie di forme sempre sul punto di scuotersi, disgregarsi, disperdersi in molteplici predicati astratti della forma. Di fronte a queste micro/avventure del colore e al mondo immaginario racchiuso in piccole cornici, anch'esse lavorate e dipinte con segni in libertà, nasce la sensazione che Moncada sia entrato in uno stato di incantamento verso la pittura, una sorta di straniamento nei confronti della gestualità ampia e assillate di cui possiede tutti i segreti, lo stile fluido e vibrante che ce lo fa apparire come raffinato inventore di magie cromatiche. In queste cornici, in effetti, qualcosa cambia o perlomeno assume un diverso impatto: il campo visivo che siamo soliti avvertire nella tensione estrema degli elementi si raccoglie in se stesso, passando dalla dilatazione delle grandi superfici al gusto del piccolo quadro, inteso come attimo che conchiude lo spazio e lo carica di effetti istantanei. Per Moncada dipingere è muoversi a occhi chiusi sul terreno impervio della materia, attraverso vibrazioni che il colore trasmette per sussulti, con una configurazione quasi acustica degli stimoli visivi. Del resto, non alludeva forse il lavoro degli anni ottanta a danze simultanee, a movenze fluorescenti, e sarabande e arie di tango, a motivi ballabili, a impulsi sonori, a nuove vertigini e ad altre tentazioni del colore?
Il fatto è che la pittura di Moncada può abitare tutte le misure possibili, può svilupparsi nello spazio ambientale, confrontarsi con la tradizione murale, dialogare con le superfici provvisorie delal città ma anche, crescere entro la breve misura del frammento, addirittura - come in questo caso - entro la cornice, come punto di quiete. In effetti, anche qui bisogna non avere vincoli verso i segni che vi balzano dentro come una danza africana. Si tratta di dosare gli spessori, calibrare gli slanci, scegliere colori espansivi, segnare i bordi del quadro come tragitti in bilico, e non si comprende se i segni migrano all'esterno o si apprestano a rientrare nel cuore della superficie. È qui che la pittura se ne sta, a volte esplicita, più spesso annidata in strane alchimie, macchie, grumi, stratificazioni, gonfiori e fusioni, ma anche sensazioni che portano via lembi d'aria allo spazio circostante.
Questa pittura, nutrita in tutti i sensi e portata fino all'eccesso della manipolazione, è materia cerebrale che conquista lo spazio durante il muoversi del tempo, strato dopo strato: essa è tanto più attraente quanto più è disposta a lasciarsi alterare e trattare in modo discontinuo. Tutte queste condizioni contribuiscono a rafforzare la vocazione pittorica di Moncada, le sue curiosità, gli artifici, anche i vizi e la maniere che un vero pittore non teme di esercitare di fronte al linguaggio assimilato.
Del resto, sappiamo che il suo impegno è profondo ed è per giunta verificabile in molteplici versioni espressive, una condizione creativa fatta di tentazioni simultanee che lo tengono in apprensione, con direzioni di ricerca apparentemente differenti. Mi riferisco al fascino dei recenti disegni ed inchiostri, ai grandi dipinti del passato, alle immagini sempre felici inventate su carta, ai pannelli di terracotta policroma, alle ceramiche e ai fremiti plastici che le percorrono, ai voli cromatici degli interventi su ponteggi. Penso anche alle imminenti istallazioni di elementi combinati nello spazio, sferoidi di ceramica infilzati da canne di bambù, una ritualità creativa di cui vedremo presto gli esiti, e ciò mi esime dal dovere di fornire ulteriori specificazioni. Se ne parlerà quando queste nuove operazioni saranno in scena con un cerimoniale carico di risonanze primitive, di valori tribali che considerano lo spazio come terra di conquista.
A ben vedere, qualcuno di questi "bastoni" potrebbe entrare anche nella logica della presente mostra, ne rappresenterebbe un'altra deriva, ma credo che Moncada escluda questa presenza per puntare direttamente, da un lato, sul gruppo di "operette" in buona misura già collaudate sulla parete e, dall'altro, su alcune grandi tele che ne costituiscono la premessa, l'origine o forse il controcanto, aperto e disteso. Emerge un doppio momento espositivo in cui al rapporto con la materia che s'aggruma e si stringe in minimi nuclei corrisponde la distensione del gesto che accorda il colore ai differenti spessori.
Da questa duplice misura scaturisce un effetto benefico per la vista, che oscilla dall'atto di scrutare il disgregamento quasi molecolare del colore a quello di abbandonarsi alla sua tensione ambientale. È l'ennesimo intreccio della pittura, il sentimento operante del verbo cromatico che si rinnova e ritrova energia rivelando ulteriori tratti della sua identità, storia di contatti avvenuti e di eventi che insorgono.
La pittura, dunque, ancora e sempre all'orizzonte, luogo dove fluiscono fasci di luce, bruschi movimenti, morbide evidenze del pensiero, anche frivolezze con il pieno diritto di esser tali. E dove, simultaneamente, viene additata la serietà del dipingere sul filo dell'ironia, con la capacità di mettersi in discussione, ogni volta, non rinunciando mai alla memoria operativa del colore. Che è, poi, la condizione duratura del lavoro di Moncada, ciò che lo fa sussistere e lo protende in avanti, come una corrente che il pensiero non sempre controlla.
(Milano 1998)

Claudio Cerritelli



Pont-art 92 - Augusburg (Germania)

 

IGNAZIO MONCADA. IL RITMO E L'ECCESSO

Il percorso pittorico di Ignazio Moncada incomincia intorno al 1953, con opere che risentono del clima concretista allora diffuso.
Un lavoro come Composizione (1953), ad esempio, si struttura come un sovrapporsi di superfici, che annullano le distanze spaziali e nello stesso ricreano lo spazio, bidimensionalmente, attraverso affondi di forme oblique, diagonali.
Già in queste opere peraltro, che ancora non denunciano un linguaggio originale (non bisogna dimenticare che Moncada, a questa data, ha appena 21 anni) emerge con forza una delle caratteristiche principali del linguaggio dell'artista: la vitalità del colore. I timbri luminosi, la sinfonia dei gialli e dei rossi, infondono nell'esercizio geometrico una temperatura alta e una dimensione festosa, euforica, solare.
Intorno al 1956, opere come Manichino di paglia di Anatole France indicano invece un distacco dalle forme ortogonali.
Tutta la composizione è basata su sagome ondulate, ventricolari o vagamente organiche che, mentre disegnano un'approssimativa silhouette, potenziano il dinamismo dell'immagine. E anche su questo termine, dinamismo, sarà il caso di ritornare.
È però a partire dal 1958 (il periodo in cui l'artista vive a Parigi, dove si fermerà fino al 1966, con l'intervallo di un soggiorno a Bruxelles durato circa due anni), che la pittura di Moncada si svincola totalmente dal l'impianto concretista per disporre nello spazio dei segni liberi, ora convulsi, agitati e memori delle colature dell'Action Painting (Enfin Paris, 1958), ora più dichiaratamente ispirati al costruttivismo, come le composizioni del 1959-1960.
Qualche anno dopo (pensiamo a lavori come vegetale, del 1964) Moncada definisce il suo linguaggio più tipico, quasi la costante formale del suo lavoro: quelle sue forme tondeggianti, aeree, tanto gonfie d'aria quanto appesantite baroccamente dalla fisicità delle pennellate; quelle forme dinamiche, sfuggenti, misteriose che sembrano atomi segnici, nuclei minimi dell'esistere colti nel loro primo apparire.
La pittura dell'artista, dall'altra parte, oscilla dialetticamente fra libertà segnica e geometria. Ecco quindi che nella seconda metà del decennio le sue sfere, le sue molecole metafisiche si disciplinano in circonferenze esatte. Opere come Il cerchio, il gioco dei cerchietti, entrambi del 1968, rivelano già nei titoli l'esigenza di depurare gli andamenti circolari da ogni eccedenza, da ogni esuberanza naturale.
In questi anni, dunque, la razionalità assume la regia del quadro, anche se spesso la composizione si ribella a un tale controllo. Più che le leggi geometriche, infatti, Moncada esprime nella sua pittura le infrazioni alle leggi geometriche, l'imprevedibilità dei percorsi, l'irregolarità delle partizioni. «La realtà per Moricada - ha avuto occasione di notare Crispolti - è l'intrecciarsi sempre mutevole di strutture elementari, valide appunto soltanto in questo loro articolato consistere».
Intorno agli anni Settanta la riflessione dell'artista si sposta sugli effetti di trasparenza, di sovrapposizione diafana, di velatura e di atmosfera cromatica. La pittura perde consistenza fisica per farsi sempre più rarefatta e distillata, quasi in consonanza con certi esiti della contemporanea pittura analitica.
Va notato però che la levità degli esiti non ne annulla mai completamente la prepotenza cromatica. Il colore, pur adagiandosi magro e diluito sulla tela, rivendica la sua vitalità, la sua irriducibilità a dato puramente mentale. Più che un annullamento del significato, una rinuncia al rappresentare in nome del puro dipingere, a Moncada interessa la dimensione sottilmente evocativa della pittura: la sua capacità di diventare fondo senza farsi occultare dalla superficie, la sua vocazione a essere un gioco di carte sovrapposte senza che nemmeno l'ultima carta, la più nascosta, rinunci in qualche modo a rivelarsi, a riaffiorare, a farsi ricordare.
Non è un caso che il decennio si chiuda, per l'artista, con un ciclo di opere che hanno per titolo Ar
cheologia.
Che cos'è l'archeologia se non il ritrovamento del nascosto, del dimenticato, del rimosso? Del resto tutta l'opera di Moncada si può considerare come un tentativo visionario, felice e insieme disperato, di liberare la vitalità repressa, di far emergere l'energia inconscia soffocata. Il dinamismo dei suoi segni, il ritmo di sarabanda di tante sue opere, l'eccesso cromatico che sembra traboccare dai contorni delle forme indicano una vocazione per così dire anarchica, e insieme una libertà finalmente raggiunta.
Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del decennio successivo, dunque, le opere di Moncada parlano di reperti, archetipi, archeologie.
«Moncada - nota Miklos Varga a proposito di questo momento espressivo - addiziona al fondo-tela, in prevalenza monocromatico, veline ritagliate e incollate che costituiscono, agglutinandosi fra dissolvenze e trasparenze tonali, il casellario dei «reperti» mnemonici: immagini di un repertorio intermediario fra il tempo vissuto e il tempo vivente, si direbbe di una «zona franca» dell'extratemporalità».



Pont-art 1984-85 - Milano - Intervento pittorico sul ponteggio del Palazzo di Largo Donegani.


Questa ricerca sulle trasparenze, d'altra parte, non si risolve in esercizi estenuati, in modalità intimiste. Al contrario, proprio da queste riflessioni, sviluppate a misura monumentale, nascono gli interventi di Pont-Art: gli interventi pittorici, cioè, attuati sulle plastiche dei ponteggi, durante i lavori di restauro o di ristrutturazione di un edificio. Nel 1982 Moncada dipinge, appunto, parte dei grandi teli di plastica provvisoriamente posti lungo i portici meridionali di Piazza Duomo, a Milano, eseguendo quasi un «trionfo del colore» di 450 metri quadrati; nel 1984-85, progetta un lavoro pittorico di 480 metri quadrati, sempre a Milano; nel 1987 ne esegue un altro a palazzo Abrantes a Madrid; nel 1992 altro intervento di 150 metri quadrati ad Ausburg (Germania). «È così dunque che il segno coloristico si sviluppa sull'ampio spazio del muro con il respiro dell'antico affresco, risolto in modo nuovo, non figurativo. Ignazio Moncada insomma riprende con questa sua pittura la grande tradizione murale.» scrive Guido Ballo.
Non è casuale, d'altra parte, che questi ampi interventi avvengano proprio su superfici che coprono e nascondono qualcosa.


Pont-art 1987 - Madrid - Intervento pittorico sul ponteggio del Palazzo Abrantes.


Certo, c'è nell'artista un istintivo senso di decorazione, un'intelligenza dell'ornamento, un'esigenza innata di rinnovare e abbellire il materiale povero. Ma si avverte anche la necessità di portare alla superficie ciò che è profondo, coartato, celato. O quanto meno di segnalare che lì, appunto, qualcosa è stato nascosto.
E siamo all'ultimo decennio. I Segni del vento rinnovano le armonie delle tarsie e dei mosaici, con la loro fitta sequenza di losanghe. Ma questa ripetizione seriale si interrompe presto, già verso la metà del decennio, smagliandosi in una musicalità disordinata e violenta.
Non è un particolare di poca importanza, del resto, che numerose opere, nella seconda metà degli anni Ottanta, contengano nel titolo un richiamo alla danza (Tango, 1984, Sarabanda, 1984, Boogie a St. Germain, 1985; Danza fluorescente, 1985, Via col Rock, 1985, Ballabile; Danze simultanee).
Ora la pittura di Moncada trova nella musica il suo più esplicito riferimento. Ma non si tratta di una musica contrappuntistica, di una geometria sonora, quanto di una musica ballabile, appunto, cioè capace di trascinare fisicamente, di tradursi in atto corporeo, di liberare energia vitale.
E tuttavia c'è ancora spazio per un ritorno a strutture più ferine, più compatte. In fondo, la libertà, la sfrenatezza si comprendono solo se si contrappongono a un legame, a una costrizione. Ed è per questo che la sfrenatezza segnica, la componente barocca delle opere di Moncada, non è che l'altra faccia di un profondo senso di simmetria, di ritmo (cioè di movimento secondo ordine), e insommna di misura.
Proprio nelle ultime opere, in particolare, sequenza ed effrazione sembrano trovare, se non una sintesi, un modus vivendi. Enigmatiche colonne cromatiche, macrosegni variopinti, totem febbrili e metafisici si alternano sulla tela secondo un ritmo segreto. Si pongono come segnali muti, indecifrabili. E sembrano ricordare, con il poeta, che «della vita possiamo dire che è, non che cos'è».
1993 - Civica Galleria d'Arte Moderna, Gallarate

Elena Pontiggia


Per Ignazio Moncada

Alla fine di ogni secolo
tutte le cose reali svaniscono
nella somma del nulla,
liberando energie.
Non avendo più sembianze
solo l'arte astratta
è in grado di catturarne
il fantasma.
L'alchimista dell'astrazione
che ha per tavolozza
l'arcobaleno, si laurea
in chimica sintetica.
Soffiano i venti,
e i loro nodi
vengono al pettine
del pittore nostromo
che ne intelaia la furia
in alte e neutre
velature cromatiche.
(1993)

Valentino Zeichen


Occorre dire che la tensione delle immagini (nelle arti chiamo sempre immagini le composizioni astratte, perché si risolvono in visibilità) acquista, nell'attività di questo pittore, una finezza di rapporti coloristici che indica lunghe esperienze tonali ormai da lui superate: ma proprio queste esperienze tonali rivelano alla fine i sottili valori cromatici, le avventure segrete dei viaggi del colore...
1991 - Palazzo Steri, Palermo

Guido Ballo


 

IL SAPERE DEL RICORDO

Credo sia lecito considerare quello che denomineremo «il sapere del ricordo» come separato sia dal sapere vero e proprio del Soggetto sia dal sapere d'Oggetto (la quantità d'informazione di cui un oggetto, culturale e/o naturale, dispone). Collocato in una posizione intermedia fra, da un lato, il sapere rappresentato da un'enunciazione teoricamente pura (in arte, la pittura astratta) e, dall'altro, il sapere di enunciati formati, sapere di oggetti (in arte, Duchamp, la Pop Art e, risalendo a ritroso, tutte le forme di realismo o di naturalismo), esso sembra ritagliarsi un proprio campo, specifico e amplissimo, ove la compresenza di enunciazione pura e di enunciati esterni al Soggetto ha modo di pronunciarsi secondo una gamma di occorrimenti svariatissimi, e nell'arco di un'escursione che vede, a un capo, l'esperienza, poniamo, di un Matisse e, all'altro capo, quella d'un Tàpies (per citare esempi celeberrimi di arte del nostro secolo). E se, tanto per continuare nell'esemplificazione, il sapere del ricordo comporta, in Matisse, la coazione della forma naturale - ma già filtrata concettualmente (il ricordo, appunto) - secondo ritmi, cromatici e lineari, di una delle più pure enunciazioni del secolo, in Tàpies i ricordi del mondo si daranno piuttosto allo stato «brute» (graffiti - anche verbali -, macchie, grumi di materia o di colore, inserti di oggettualità vera e propria), e sarà l'enunciazione del Soggetto che, in tal caso, si adeguerà a quei resti, variando di continuo i propri registri in relazione ai materiali assunti.
Un raccordo sintomatico con quest'ultima esperienza è dato rilevare proprio nell'ambito della recente serie di dipinti di Ignazio Moncada qui presentata. Si tratta delle tre tele intitolate ai «resti», ove su un bianco matericamente allusivo a una sorta di schermo reale, si stampano segni o chiazze cromatiche di evidente estrazione mnemonica (Ciò che resta), che tendono altresì a sovraimporsi (Altri resti, 1 e 2) a sagome appena accennate di forme oblunghe, vagamente totemiche (le quali costituiscono il motivo di fondo della parte più cospicua della mostra). Ebbene, qui il resto è sovrano, e il Soggetto non potrà fare altro che sistemarne gli accadimenti entro una calcolatissima elaborazione spaziale, magari segnalando, di questa, il debordare dal perimetro fisico del quadro: come avviene nella prima composizione citata, ove la serpentina nera che la attraversa verticalmente di sghembo risulta rescissa dai bordi inferiore e superiore della tela, e presume perciò prolungamento fuori campo.
Ma sono accadimenti di quel genere che, in letteratura, rispetto a un corpus coerente di testimoni, si definirebbe «estravagante». Li si cita qui, sia per l'alta qualità dei testi che ne danno atto, sia per la perentorietà dell'esemplificazione nei riguardi della posizione di tesi.
D'altra parte, proprio due degli individui citati contengono - come si è accennato - gli elementi di base che, connessi per contiguità seriali, costituiscono il «tema» (nel senso in cui, in linguistica, si parla di «tema» di un enunciato) della restante totalità dei dipinti.
Il tema, qui, sarebbe dunque la forma del ricordo. Che appare declinato secondo strutture libere e oblunghe, di vaga ascendenza totemica (come ancora si è detto), normalmente tronche ai due capi (a differenza di quanto segnalato dianzi) e, per ciò stesso, interamente contenute nell'ambito della visione (dentro lo schermo, insomma, della tela, che ne è il simulacro), spesso sottoposte a curvature o a lacerazioni, per simulazione di forze esterne di tipo, per così dire, naturale. Il cromatismo acceso e violento ne designa tuttavia il carattere non naturalistico ma mentale, e addirittura, caso mai, inerente all'ordine simbolico.
Ora, il sapere del ricordo, articolato nelle forme che si è detto, tenderebbe a sospingere gli insiemi verso l'enunciazione teoricamente pura dell'astrazione, trasformando magari quel sapere nelle modulazioni squisite d'un pensiero eminentemente decorativo. E qui che si inserisce l'elemento nuovo di questa recente serie di dipinti di Moncada: e si dice nuovo anche con riguardo a una più generale tipologia degli stili, quale si è abbozzata sul principio di questa presentazione. Si tratta dell'elemento atmosferico rappresentato dalle compiture del bianco, la cui funzione è quella di entrare in collisione di realtà con le precitate e descritte strutture tematiche a desinenza simbolica o, per lo meno, astratti va. Questo elemento non è più inerente al tema (ordine del concetto) ma alla percezione sensibile e alla sua manifestazione diretta, non mediata.
Per cui, nel nostro caso, si assisterebbe a una sorta di sinestesia (o magari di ossimoro) della visione, ove le astrazioni del concetto, configurate in forme seriali, convivono con la presentazione di una percezione in atto entro il registro del naturale. Il bianco, in quanto «presagio tonale d'aria vera» (come ebbe a dire Longhi dell'anonimo «Illustratore» di codici del Trecento bolognese), rappresenterebbe allora l'elemento contingente di questo sapere (di questo vedere), e cioè l'elemento legato all'occasione del ricordo, alla sua temporalità, al suo accadimento entro l'ordine spazio-temporale; mentre le forme piene a desinenza astrattiva ne rappresenterebbero, in quanto motivi costanti, gli elementi sottratti al divenire, le forme fisse in cui si risolve la memoria profonda del Soggetto, o la cifra del suo mondo privato, mentale e interiore, ma anche biografico ed esistenziale. Le forme fisse e iterate risultano così sottratte all'istanza assolutizzante ed egemonica dell'enunciazione pura (dell'astrazione) proprio perché avvolte, incise e magari sfregiate, dalla forza contraria: quella, intimamente contaminante, di una percezione di realtà, o, per restar fedeli al nostro assunto, del ricordo come «spiracolo» di una percezione (Giorgio Orelli insegni). E in questa qualità terminale del sapere del ricordo che il lavoro di Moncada sembra trovare, almeno a tutt'oggi, il suo punto di massima profondità, non solo, ma probabilmente anche il luogo, preparato o atteso da tempo, del suo investimento più autentico e operativamente più decisivo.


LE SAVOIR DU SOUVENIR

Je crois justifié de considérer ce que nous appellerons "le savoir du souvenir" comme ne faisant partie, ni du savoir réel du Sujet, ni de ce savoir de l'Objet qui repose dans la quantité d'informations, naturelles et/ou culturelles, dont l'objet est dépositaire. Situé à mi-chemin entre le savoir représenté par un énoncé théoriquement pur (la peinture abstraite) et le savoir des énoncés "formés" par le savoir objectuel (Duchamp, le Pop-Art et, plus loin dans le temps, toutes les formes du réalisme ou du naturalisme) le "savoir du souvenir" semble se ménager un vaste espace parfaitement caractérisé où l'énoncé (qu'il soit à l'état pur ou bien extérieur au sujet) trouve le moyen de "se dire" selon une gamme d'occurrences des plus variées, en suivant une ligne située entre le póle représenté par Matisse et (pour ne citer que des exemples célèbres) le póle représenté par Tàpies. Pour développer notre exposé, nous dirons que chez Matisse, le savoir du souvenir comporte une compulsion de la forme naturelle - dejà filtrée sur le plan conceptuel (le souvenir, justement) - selon des rythmes chromatiques et linéaires qui définissent l'une des plus pures énonciations de ce siècle. D'autre part, chez Tàpies, le souvenir du monde se présente plutót à l'état brut - graffiti parfois méme verbaux, taches, agglomérats de matière ou de couleur, insertion d'objets: l'énoncé du sujet s'adaptera dans ce cas à tous le "restes" en variant les registres par rapport aux différents matériaux.
Notons qu'il existe une relation symptomatique entre certaines des oeuvres récentes présentées dans cette exposition et l'expérience citée plus haut, et que nous la percevons dans les trois toiles dédiées à des "restes". En effet, nous voyons se détacher sur une surface dont la matière et la blancheur font allusion à une sorte d'écran réel, des signes ou des éclaboussures chromatiques d'origine assurément mnémonique (Ce qui reste) tendant méme à se superposer (Autres restes, 1 et 2) à des formes oblongues à peine esquissées et vaguement totémiques. Il s'agit là d'un motif fondamental, présent dans la plupart des oeuvres exposées. Le "reste" s'impose donc ici en mattre: le Sujet ne peut que le situer - dans ses divers avatars - au sein d'une élaboration spatiale soigneusement calculée dont il mettra en évidence les débordements hors du périmètre physique du tableau. C'est ainsi que dans la première oeuvre citée la trace noire qui serpente verticalement et transversalement nous apparaft comme tranchée par les bords inferieur et supérieur de la toile, ce qui suppose naturellement un prolongement hors du champ. Comparées à un corpus littéraire cohérent, de semblabes variantes devraient étre qualifiées d"'extravagantes". Je les cite ici pour la haute qualité des oeuvres qui les expriment et l'évidence paradigmatique de la proposition.
D'un autre cóté, parmi les trois textes cités, nous en trouvons deux qui possèdent les éléments de base déjà identifiés. Soumis à une relation de contigurté sérielle, ces éléments forment le "thème" (au sens linguistique du mot) commun à tout l'oeuvre exposé.
Dans le cas présent, il ne serait autre qu'une forme du souvenir que le peintre développerait selon des structures libres, des formes oblongues et d'ascendance va guement totémique (nous l'avons dit), habituellement tronquées aux deux bouts (contrairement à ce que nous avons remarqué plus haut) et pour cette raison méme entièrement contenues dans le champ de vision: en somme contenues par l'écran (par la toile qui en est le simulacre) et souvent soumises à des courbures ou lacérations qui suggèrent la présence de forces extérieures, pour ainsi dire, naturelles.
Cependant, un chromatisme intense et violent met en évidence le caractère, non pas naturaliste mais intellectuel et méme éventuellement symbolique, du discours. Or, présenté sous cette forme, le savoir du souvenir tendrait à attirer les ensembles vers l'énonciation théoriquement pure de l'abstraction, et méme à se modifier pour devenir l'exquise modulation d'une pensée éminemment décorative. C'est ici que nous rencontrons un élément nouveau, présent dans cette série de tableaux tous récents (le terme "nouveau" est aussi employé en tenant compte d'une typologie des styles, plus générale, teile que nous l'avons ébanchée au début de cette présentation), et qui n'est autre que l'element atmosphérique représenté par les à-plats du blanc dont le róle est d'introduire une réalité conflictuelle par rapport aux structures thématiques à désinence symbolique ou, tout au moins, abstractive. Cet élément n'est plus inhérent au texte (ordre conceptuel) mais bien à la perception sensible et à ses manifestations directes: sans médiation.
Ainsi, dans le cas de Moncada, nous assisterons à une sorte de synesthésie (d'oxymore peut-étre) de la vision, où les abstractions conceptuelles représentées sous la forme de séries, cohabitent avec la perception en acte présentée dans le registre du naturel. Dès lors, le blanc - allusion à une sorte de plein air - serait sensé représenter l'élément contingent de ce savoir (de ce voir), mieux, l'élément relié à l'occasion du souvenir, à sa condition temporelle, à son apparition au sein de l'ordre spatio-temporel. A son tour, le motif récurrent des volumes pleins aux désinences abstraites représente l'absence du devenir, la forme fixe où s'arréte la mémoire profonde du Sujet, le chiffre de son universe privé, intérieur et mental, mais aussi biographique: existentiel. La forme fixe et itérative apparaît ainsi comme soustraite à l'instance hégémonique et totalisante de l'énoncé pur (abstraction) car elle est enveloppée, pénétrée, éventuellement mutilée par une force contraire et profondément contaminatrice, qui est celle de la réalité perpe ou (référence faite à notre thèse initiale ainsi qu'aux termes employés par Giorgio Orelli) du souvenir considéré comme une "faible lueur" de perception. Cette qualité ultime du savoir du souvenir parat étre jusqu'à maintenant pour Moncada l'élement le plus profond de son oeuvre, mais sans doute aussi le foyer - longuement entretenu, longuement attendu - où son activité se trouve le plus authentiquement et le plus fortement engagée. (1991)

Stefano Agosti


 

SUL MARGINE DELLA PUPILLA

L'ennui n'est plus mon amour. Les rages, les débauches, la folie, dont je sais tous les élans et les désatres, - tout mon fardeau est déposé. Apprécions sans vertige l'étendue de mon innocence. Rimbaud

Come cristalli si stagliano sul fondo nero ed infinito. Sono piccole gocce d'acqua e di vita che si fermano sulla punta delle ciglia; una cornice impalpabile alla realtà posta al di là dello sguardo. Una realtà interiore, vissuta nelle pause del cardio, nel breve attimo di un sospiro. Scrive Borges: "La realtà può essere troppo complessa per la trasmissione orale; la leggenda la ricrea in un modo che solo accidentalmente è falso e che le permette di andare per il mondo di bocca in bocca".
Moncada ferma sulla tela (il luogo della leggenda) uno spazio fatto di suoni, di armonie: di emozioni. Oltre, al di qua, v'è il palpitante mondo delle cose, delle relazioni, dei convenevoli. Tra il fondo nero, presente maggiormente negli ultimi dipinti (la tela dal titolo Vertigine cromatica si offre come chiave di lettura) e il cristallino gioco dei bianchi di primo piano, l'artista pone il racconto della gioia di vivere. Le frasi si articolano con il concatenarsi delle forme e dei colori, quasi a raggiera, spingendo il nostro occhio giù verso il fondo, verso quell'infinito spazio occupato dal silenzio. Moncada non forza la mano, né lascia che la forma o il colore prendano il sopravvento; segue, anzi, un ritmo controllato che riesce a dare, allo spazio che ne deriva, una precisa composizione prospettica. Sono immagini aurorali quelle che propone Moncada: delle apparizioni "dalla memoria, dall'inconscio", così come rileva Luciano Caramel, tra i più attenti esegeti del lavoro dell'artista siciliano. Sono apparizioni registrate sulla soglia dell'Io, ricche di un senso narrativo, che l'artista annota con il piacere, oserei dire barocco, del racconto quale connessione di accadimenti, o quale luogo dell'estrazione, quest'ultima nell'accezione posta dalla tradizione aristotelico-scolastica.
Per Moncada l'astrazione non è un processo linguistico, né un supporto teorico alla pratica artistica: è la condizione atemporale di uno stato di necessità, nel quale però - parafrasando Kandinskij - la relazione o i legami tra le singole manifestazioni rimangono a lungo occulte. Kandinskij osserva inoltre: "In superficie, ora qua ora là, senza tener conto delle distanze, si manifestano germogli diversi, ed è difficile credere ad una loro radice comune. La radice stessa è un intero sistema di radici, intrecciate tra loro come alla rinfusa, ma in effetti subordinate ad un ordine superiore, a una legge di natura". L'apparizione assume, quindi, il senso di un fantasma trasmesso, dalle pulsioni dei sensi, all'intelletto possibile: l'artista lascia, così, affiorare le forme che agitano l'inconscio, alla rinfusa, senza dettare schemi o regole. Sono forme che interpretano la sensualità di un colore luminoso, solare, ricco di passionalità, regolato da un continuo gioco di tinte calde, quali il rosso, l'arancio, il giallo, ritagliate sull'assorbente nero del fondo o che si contrappongono al freddo di blu cobalto ed oltremare, attivando così un'ulteriore possibilità espressiva, messa in atto dal contrasto termico dei colori. Ne deriva un'atmosfera irreale, attraversata da una luminosità intensa: una luce che si ferma per un attimo sulle ciglia, per poi fendere la pupilla e perdersi nello spazio infinito della retina. E qui dove la memoria trae le immagini e il "mondo" delle relazioni fenomeniche perde qualsiasi corporeità; uno spazio di difficile definizione, ove solo la coscienza accede. Lo stato di necessità è quindi per Moncada un atto di conoscenza, posto quale volontà della coscienza, dell'essere nel grande sistema dell'Universo, indicato da Kandinskij quale "legge di natura". Nei lavori recenti, penso soprattutto a tele quali Vertigine o anche Flamenco, entrambe realizzate lo scorso anno, l'attenzione sembra essere voluta senza un'ambigua memoria figurale. Ciò che ne deriva non è certamente un'immagine della realtà esterna: un velo colorato, un fantasma, un'apparizione che l'artista incontra guardando dentro al suo occhio. Voglio dire che l'immagine non è la risultante di un intreccio di proiezioni, bensì l'intreccio di specchiamenti: Moncada si pone sulla balconata veronesiana, come osserva Caramel (citando l'artista), e guarda l'opera dal di dentro di se stessa, pone, cioè, l'occhio, la pupilla su di uno specchio: ruota lo sguardo del pensiero, avvolgendo in un vortice le immagini sino a fondere tutto nel nero, nell'infinito silenzio della propria coscienza. Sulle ciglia i cristalli giocano, ritmando la luminosità, l'intensità del colore, la forza della forma. Rimbalzano sui piani così come fanno le immagini tra gli specchi di un caleidoscopio: nessuna di esse restituisce (o possiede) la corporeità tangibile delle cose.
Verona marzo 1990

Massimo Bignardi


MONCADA, PEINTRE DE LUMIÈRE ET DE TRANSPARENCE

Si l'ori doit établir une constante dans l'oeuvre de Moncada, c'est la recherche de l'interpénétration de la couleur et de la lumière. La matière, les signes, les supports ont évolué, mais subsistent en permanence dans la répartition des couleurs, le rythme des vibrations et la quéte de la luminosité, une tentative de conjuguer la forme avec ce qu'il appelle "la force chromatique", et l'opacité avec la transparence.
Dans la peinture géométrique des années 60, c'est à la couleur contrastée qu'il a recours pour, tout en ne renon9ant pas à la structure bi-dimensionnelle, aller audelà du rapport traditionnel dans ce genre, entre figure et figure et entre figure et fond. La collision des couleurs, àprement contrastées mais niées également par des intervalles de zones blanches, crée une série de plans violemment opposés dont la charge intérieure libère, à la vision, une énergie vitale.
Les figures circonscrites, si productive que soit leur mise en rapport et en contraste, portent néanmoins en elles leur propre limite. Aussi, au début des années 70, Ignazio Moncada s'est-il, comme il le dit lui-méme, libéré de "la loi dure et sévère de la géométrie". Au jeu péremptoire des contrastes succède alors une dilution des couleurs destinée à obtenir un effet de vibration musicale, une légèreté lumineuse, une souplesse de pastel. ("la dilution est une composante de mon travail au méme titre que la réalisation", propos de l'artiste recueilli en mars 1988 au Musée de Chartres).
Quant à la forme géométrique, elle s'émousse : les structures sont encore présentes, mais elles se diversifient, s'adoucissent et s'arrondissent, puisqu'au mysticisme coupant de l'angle aigu, figure de base de la période précédente, s'ajoutent le carré et le cercle. Ainsi la toile s'ouvre-t-elle à une fluidité qui permet tous les devenirs.
Ori constate également l'apparition de ce que l'artiste nomme "un voile de transparence" qui donne l'impression d'une fenétre ouvrant sur d'autres fenétres.
Cette transparence deviendra le but obsessionnel poursuivi par Moncada dans la série des ceuvres peintes entre 1975 et 1977 et intitulées précisément Transparences.
A partir de cette époque, de nouvelles techniques seront expérimentées : aux formes géométriques sont superposés des fragments de papiers blancs transparents, découpés en formes soit géométriques soit plus floues, qui sont autant de fenétres s'ouvrant sur la toile et dont le truchement permet un effet d'effacement et de dévoilement Simultanés.
Durant cette période, la couleur, soumise à la fois à un effet de transparence et de brouillage, dégage une sorte de luminosité diaphane. Dans la série Alesa et les signes du temps, les rouges brique, les noirs opaques, les jaunes ocres, ont des réverbérations à la fois lumineuses et opaques qui font penser aux impressions rétiniennes.
En revanche, dans la série des Danses commencée en 1984, l'éclatement de la lumière domine. Le rythme intense des couleurs, leur luminosité éblouissante, font sans aucun doute référence à l'univers méditérranéen.
Cette quéte d'une lumière fécondée par la transparence a certainement hypothéqué, après l'austérité contraignante de la période géométrique, la rigueur de structuration du tableau.
Certes, si dès Alesa et les signes du temps, an décèle à l'intérieur de la figure structurée du pavement, un effet d'instabilité et de corrosion de la construction, un déchirement des formes provoqué par des déchirures de lumière, les Oeuvres actuelles ne reposent délibérément plus sur une architecture plus ou moins régulière, mais elles développent ce que Moncada nomme une "sarabande de formes", vaguement circulaires et sinueuses, qui semblent "faire des pirouettes".
Mais méme si elles n'ont pas une Organisation objective, elles ont une cohésion interne qui les maintient ensemble et tient à la structure rythmique de leur création. Ainsi la structure n'est-elle pas rejetée par Moncada. C'est le plan préalable, le projet, qu'il supprime pour le remplacer par une sorte d'animation des signes, concomitante à l'acte de peindre, et rythmée par la dynamique méme de la réalisation qui n'est plus seulement création, mais composition. Les derniers tableaux de la série des Danses sont en ce sens révélateurs de la respiration donnée par la présence simultanée des noirs, qui créent des couples de figures, de couleurs, et de transparences opaques.
On ne saurait rendre compte de l'Oeuvre de Moncada sans ajouter à cette stabilité d'une quéte esthétique rigoureuse et exigeante une autre quéte, qui confère à son Oeuvre une autre cohérence, plus intime et non moins importante, celle de la joie. Joie des couleurs et des rythmes, des vibrations et des transparences, qui permettent à cet artiste de rejoindre ses origines méditerranéennes et de faire de ses Oeuvres les portées musicales d'un art axé vers la lumière.
1988 - Musée des beaux-arts de Chartres


Nelle sue tele non esiste più ordine, struttura: le forme vagano nel vuoto e non conoscono un luogo definito. Tutto è provvisorio. Non esiste più geometria: i segni vagamente circolari che circondano i nuclei di colore hanno l'approssimazione rudimentale di un ritorto filo metallico. Non prevedono il compasso e non suggeriscono nessuna idea di compiutezza o di perfezione: piuttosto una giravolta incerta, una sinuosità irregolare.
Dunque la festa mediterranea dello sguardo, che queste opere ci offrono, non si risolve in puro vitalismo, in sfrenatezza inconsapevole e irrazionale. Lontana da riferimenti organici, da allusioni fisiche, tutto risulta in superficie, questa pittura conserva intatto, paradossalmente, il suo contenuto mentale, la sua suggestione filosofica.
Sono pensieri, come diceva Wittgenstein, quelli che si librano in essa. Pensieri di felicità, certo. Ma anche pensieri sulla felicità: che è breve sogno, lieve e convulso, impalpabile. Al di là del quale, come al di là della vita, non esiste nulla.
1987 - Galleria S. Francesco - Forlì

Elena Pontiggia


 

La pittura - come mezzo - si presta, per le sue innumerevoli possibilità, ad essere "manipolata" quasi nella sua struttura fino a diventare, molto spesso, ahimé, indicatore di situazioni più mondane che culturali. Inutile negare quanti artisti i quali, attraverso la loro pittura, in questo momento si fregiano di appartenere a squadre cultural-mondane di questa tendenza pittorica oppure di quest'altra.
D'accordo la novità, ma non certo dal punto di vista della cultura.
Ben lungi la mia intenzione di analizzare criticamente questo momento, ma quanto caos nei poveri mass-media. La coerenza con cui l'artista Moncada opera principalmente in un'analisi di ricerca su se stesso e poi di dialogo attraverso il mezzo pittorico, con i suoi interlocutori, è, a mio parere, fattore - oggi - più che raro.
La sua analisi ha radici profonde, certamente inconscie di quanto dovute, e sono molla derivante dall'humus della sua terra natale. Questa Sicilia così pregnante di storia, una storia che tutto avvolge e che violenta anche i suoi figli.
Ed è per ciò che, nelle sue "archeologie", l'artista ricerca sempre queste presenze, presenti nel suo lo ed in tutto ciò che lo circonda.
I vari materiali con cui egli cerca questo suo dialogo attraverso il termine astratto, immediatamente coinvolgono anche l'Interlocutore.
Queste trasparenze ottenute allora, attraverso varie carte di differenti materiali sovrapposti tra di loro, ci parlano di tempi remoti, di metafore conscie ed inconscie, di un logos primordiale.
Questa ricerca attenta e continua, ha portato la nascita, nel lavoro di Moncada dalla dimensione normale del cavalletto (1976-1981), al tentativo attraverso "La Pont Art" di dare anche questo senso di ciclopica dimensione. Questo intervento pittorico sui ponteggi (1982-1985) di strutture provvisorie ingabbianti grandi mobili urbani, hanno appunto, in questa originalità di tentativo, un potere nella magnitudo storica, di cui è permeata la sua pittura.
Ecco quella che, a mio parere, è la struttura più importante e forse portante della pittura di Moncada: le trasparenze. Sono trasparenze sì strutturali espresse attraverso varie tecniche - appunto pittoriche - ma che coscientemente l'artista sa di trovare in se stesso, sono mezzo con cui riesce ad esprimere questo spessore storico del nostro quotidiano. E stata, la sua, una ricerca profonda e minuziosa. II lavoro di Ignazio Moncada ci porta, attraverso le archeologie con le quali ha esposto a Parigi dal 1966 fino al 1973 e di poi, attraverso le Mostre di Milano, Bruxelles e Torino, fino a quei grandi teli di dimensioni così mastodontiche, da fare pensare alla libertà pittorica: intesa come idea al di là dei cavalletto e della parete involucro, ed al coinvolgimento totale del tutto attraverso il momento artistico.
Gli ultimi lavori da noi presentati, sono appunto espressioni di questa coerente ricerca e ben ci sanno parlare, nella loro astrazione, di quanti archetipi il nostro essere è composto.(1986)

Daniele Crippa


Il mio amico Ignazio era in forma.
La luce Calais-Rimini cominciava a piacergli. Aveva lampi e scintilli insospettabili.
Poi, adesso. Entro nello studio di Moncada e lo trovo esagitato. La band della pittura pigia forte. Altro che pochi accordi separati e gai! Adesso il pianoforte mette in fila serie di note sgranate come rosari, i rossi rimbalzano sui gialli, che scivolano sui blu, che si frantumano in serie minute e battenti di verdi e di bianchi, che prendono respiro, si allargano, annegano tutto, mentre le bordure nere sono sempre lì; a dare struttura, ma anche a comporre i ritmi e le scansioni di un ritmo forsennato.
È boogie-woogie, questo!
E il mio amico Ignazio è felice!
Dice Nina Kandinski che al Bauhaus organizzavano delle feste, e ballavano. Ballavano tutti. Poi Mondrian, il puntuto olandese, andò in America. Di sera si schiaffava uno smoking viola, e via, nel rimto della città tentacolare! Taratatataratatara-tatata...
Era un gran ballerino di boogie-woogie.
Io so cosa provava. Lo so perché un po' me l'ha spiegato Ignazio Moncada. Il quale adesso è nel suo studio fra i tetti, ha distolto gli occhi dai cieli bizantini, li ha sollevati da terra, e li tiene fissi e concentrati verso l'interno, su uno spartito che conosce solo lui.
Taratatatara... Rossi e gialli e neri e bianchi e blu... Hanno un ritmo.
Hanno una luce. Più piccoli sono e più s'incalzano.
Più s'incalzano e più la luce è chiara, uniforme, smagliante. C'è un radar felice fra i tetti di Milano. C'è un ritmo felice in mezzo a molti tetti. Ignazio lo ama, perché ha impiegato molto tempo a captarne la lunghezza d'onda.
1985 - Galleria del Naviglio

Flavio Caroli


Questo non attestarsi mai al di qua o al di là dell'operazione sulla forma è peraltro la chiave che spiega la capacità di Moncada di rinnovarsi, di non cadere nell'iterazione di stilemi, o anche solo di procedimenti sperimentati. E infatti, dopo aver fatto ricorso in una lunga teoria di dipinti alle velature e alle trasparenze, direttamente concretandovi il sedimentarsi del tempo e delle memorie, l'artista ha imboccato una inedita direttrice espressiva.
Oggi sto vedendo dei dipinti in cui il segno geometrico sopravvive ma non fa da padrone, un segno geometrico che mantiene nella propria precedente esperienza il senso della spinta categoriale, ossia il valore della geometria, il valore della razionalità, non più la periodizzazione insistente e perché non qualche volta perturbante di questo segno romboidale.
1984 - Atelier Rosario Bruno, Sciacca

Carmelo Strano



Le immagini non sono più scandite in superficie attraverso campiture più o meno regolari con una cauta dilatazione spaziale in profondità data solo dalla sovrapposizione di materie e pigmenti, ma sono risolte con diagonali e orizzontali (queste pure, quasi sempre non parallele ai margini dell'opera), che originano dei rombi e quindi una sorta di affanno prospettico. Non però nemmeno oggi, una prova di virtuosismo geometrico, ché, anzi, l'organizzazione delle forme è tutt'altro che matematicamente conseguente, e appare invece compromessa da instabiità di struttura e da diffuse corrosioni.
Ne deriva una suggestione immediata di allusione, ancora, archeologica (pavimenti antichi slabbrati dai secoli? affreschi strappati da umide annose pareti?), ma soprattutto la sensazione dell'affiorare di emozioni e ricordi radicati nel profondo, che gli squarci di luce che percorrono l'immagine caricano di intensa, visionaria partecipazione.
1984 - Gall. Pancheri, Arte Fiera, Bari

Luciano Caramel

Uno dei momenti fondamentali della ricerca di Moricada è l'impianto di una segnaletica trasparente, cioè di una segnaletica tale da spingere il fruitore ad una lettura dell'opera e di quanto la circonda che ne attraversi le apparenze, le forme le trasparenze. Il Ginsekai è in noi, mna anche attraverso l'opera.
1980 - Galleria Stufidre, Torino

Franco Torriani


Il reperto non è più frammento oggettivo, è piuttosto un segno di ciò che avrebbe potuto essere in quel luogo, se in quel luogo vi fosse mai stato un oggetto. La sua esattezza è presunta, nè mobile nè immobile.
1979 - Archeologie Astratte

Roberto Sanesi


I «REPERTI» DI IGNAZIO MONCADA

Le cronache della contemporaneità registrano fughe nel privato, riflussi e restaurazioni più o meno attendibili, lasciando intuire fra le righe che «qualcosa» è andato storto rispetto alla simmetria previsionale del divenire. Così si fa retromarcia, cercando di recuperare alla «ragione critica» quel recente passato che veniva prontamente riassorbito nel presente, senza storia da rinviare al giorno dopo, come se l'ieri fosse stato un inevitabile pedaggio da pagare per accedere al domani. Eppure, già qualche secolo fa, il Magnifico ammoniva che «nel doman non v'è certezza»... D'accordo, allora le cose andavano diversamente, seguendo altre coordinate spaziotemporali; però oggi, anticipando il domani, ci ritroviamo con un presente senza certezze perché il passato prossimo è tutto da dubitare. Tanto vale, quindi, arretrare parecchio nel tempo per riscontrarci «a memoria» fra i reperti del nostro passato remoto, cioè della nostra archeologia mentale. Qui, probabilmente, c'è ancora «qualcosa» che funziona, o potrebbe funzionare, alla riscoperta conoscitiva, sapendo riordinare nel casellario della memoria le immagini di un «vissuto» omologato nel vivente. Immagini e archetipi dell'immaginario, ritornanti dalle tenebre alla luce, dall'inconscio alla coscienza: reperti, appunto, che riaffiorano fra dissolvenze e trasparenze mutevoli alla «messa a fuoco» del nostro sguardo interiore, penetrante nei «luoghi occulti» del sentire irrivelato all'interpretazione dei significati afferenti ai minimi o massimi Sistemi Ideologici. Nell'ambito di questa riesumazione dei dati immemoriali, Ignazio Moncada ricerca punti di contatto, convergenze e relazioni interne fra l'operatività del presente e l'autorispecchiamento nel passato remoto, mutando archetipi mentali e frammenti archeologici in quella «poetica del reperto» che da alcuni anni è al centro della sua operazione pittorica. In effetti, già all'approccio manuale, Moncada intrattiene un dialogo serrato con i mezzi di espressione, addizionando al fondo-tela, in prevalenza monocromatico, veline ritagliate e incollate che costituiscono, agglutinandosi fra dissolvenze e trasparenze tonali, il casellario dei «reperti» mnemonici: immagini di un repertorio «intermediario» fra il tempo vissuto e il tempo vivente all'interno, si direbbe di una «zona franca» dell'extratemporalità, nella quale la presenza del divenire è contigua all'essenza del divenuto. Ciò, indipendentemente dall'artificio tecnico della pratica pittorica, corrisponde a un processo di «mimesi» retrospettiva ma, soprattutto, introspettiva. Il superamento stesso dei confini semantici, arretrando il presente al passato remoto, consente a Moncada di poter transitare i «luoghi» aurorali della civiltà occidentale, praticamente senza incontrare ostacoli alla penetrabilità «significante» dello sguardo interiore. Pertanto anche un mondo in frantumi, cioè dalle frantumate apparenze, può essere ricostituito, addizionato ai materiali metamorfici della realtà per riscontrarvi tracce o, meglio, «reperti» dell'umana condizione.
Così l'inanimato riprende vita, l'indicibile riacquista pregnanza sensibile al tatto e alla vista, attraverso la pitturacollage di Ignazio Moncada. Ma qual è il senso o, se preferiamo, la motivazione operazionale di questa «poetica del reperto»? La risposta arriva dal profondo, mediante l'immersione intertemporale nell'arte minoica, alle fonti dell'antica civiltà cretese. Basti confrontare l'archeologia del tessuto urbanistico, multicellulare, da Cnosso a Gurnià per ritrovare nelle «piante» pittoriche di Moncada frequenti rimandi e tutt'altro che casuali analogie. Che ciò corrisponda a certe peculiarità eidetiche (idea-forma), attribuite sia agli artisti che agli artigiani cretesi, è un riscontro «visionario» attinente all'ipotesi di un «riflusso» evocativo cui, forse, lo stesso Moncada non ha pensato, nonostante la sincronicità eidetica dei referenti traslati in «reperti». Tuttavia, volendo conferire una aura magico-misterica a queste immagini, sicuramente intenzionate secondo il titolo Reperti di archeologia astratta, è probante ricondurre il pensiero originario al fare operativo, ribadendo così quella dichiarazione di «poetica del reperto» che presiede alla ricerca pittorica, multievocativa, di Ignazio Moncada.

Verbania 1979

Miklos N. Varga


 

COLLAGE: PER MONCADA

I.
Sul grande collage (theatrum, tavola sinottica, ecc.) del recupero architettonico, anche statuario, a frammenti, archetipi compresi, si vengono a stabilire curiose coordinate. Una specie di "a memoria", di trasparenza messa in forse, non in crisi, dal continuo riemergere di elementi che con il loro stesso apparire tendono a spostare il corpo, la sostanza geometrica del proprio essere reperto, insidiando la fissità, il tempo, già con tanta difficoltà definita - nelle forme, nel loro appiattimento nella loro disposizione enigmatica.
Mura, altari, iscrizioni, come a Micene, a Eleusi, nelle Cicladi. Con lo stesso colore da affresco, con la stessa pàtina. Senza leoni (Micene), con molte porte. Il circolo delle tombe. Rientro della vita, della morte, avendo spento ogni grido. Tutta una "reverie": la terra, la madre. Quasi con eleganza, come si addice a chi abbia preso le distanze con attenzione alla traccia, all'impronta.
Un divenire come pietra, come seme. Il problema è riconoscere il linguaggio, la pietrapietra, la pietra-parola, la pietra-uomo, e viceversa, in un'estatica esposizione di quanto resta, che è "pietra", o meglio ricordo, reperto. La grandezza, di fatto, non è che una qualità accidentale (Macalister, 1948). A proposito di megaliti. È il segreto iniziatico a definirla. E poi finestre, loculi, aperture. Quindi nel morte-vita, vita-morte, viaggio a spirale, ingresso e uscita si identificano.
Da cui il seme, e le conseguenze della citazione "seme", sempre pronta a tradurre nel suo opposto il concetto su cui si fonda, fino al suo residuo (reperto) "non assimilato e non assimilabile" (Agosti). Ciò che resta. E che oltre a pietra è, per metafora, foglia, o sesso femminile. A cui si oppone il suo opposto: contro l'arco la freccia, oltre la soglia la pietra, come un vuoto.

II.
... sequenza/evoluzione ...
- tombe, comunque –
da cui:
Leeds, Wilke, Obermaier, Aberg,
ma soprattutto Gimpéra, il catalano /
(tombe: d'accordo?)
/ nel Gloucestershire, ad Avening,
l'ingresso è un utero, muschio
sulla dolcezza dei limiti di pietra
- hunebeg, anta -
e in altri luoghi (Gavr'innis, New Grange,
Torche-en-Plomeur...
... pietre, segni, frammenti, un menhir a Porspoder (Finis terrae, non a caso), una pietra solare a Avebury, la "fontana di Notre-Dame" a Josselin, Morbihan, un menhir a Saint Duzec o a Saint Julien, la Bennett's Cross a Postbridge, la Holestone a Doagh, la seminagione petrosa di Carnac, la necropoli di Pantalica o un ciottolo qualunque...
La forma a U capovolto, arco, porta, e boomerang, struttura del dolmen, implicazione di un passaggio necessario, verso un mondo "diverso". Mai conquistato, già perduto. Talvolta una lettera, più lettere, fino alla pagina. Scrittura che conduce in sè una traccia di masse astrattizzata. Come osservando "The groundplot of the Brittish (sic) Tempie now the town of Avebury, Wilts. A° 1724", per quanto raro sia il cerchio fra le figure. Alle quali si può aggiungere, senza negare l'effetto di una screpolatura che mette a nudo uno spazio retrostante del tutto ambiguo, il profilo di Silbury Hill. La sua gessosità. Il suo ripetere l'immobilità di un'attesa, con un colore d'alba misto a terre.

III.
e può la pietra conoscermi
mi chiedo
può chiedersi
la pietra
perfino qui fra assenze
e rovina
se ovunque
(secondo l'insistenza di Richard Burns)
Atteggiamento non diverso (Moncada: è la resa che si differenzia) da quello di chi può ritenere che una imprecisione sia il risultato di un malanno che la piccola pietra ebbe a patire prima di diventare grande.

lV.
La tavola è equamente suddivisa, ma ogni pieno è un vuoto. Con strane slabbrature, strane per una costruzione che si presume rigorosa e che lascia filtrare, con la luce, vaghe allusioni alla natura. Se torniamo a Micene, recesso dell'Argolide, seguendo Schliemann che segue Pausania, si noterà che la triste serie di eccidi non ha lasciato che indizi di un contesto topografico, e tombe (a tholos), e un colore ruvido, bruno-rossastro, di sabbia. La geometria, appena accennata, come misura, come parola non parlata, situata in un luogo circoscritto, immobilizzata, a supplicare l'invisibile, traduce in assenza il ricordo, il ricordo di un'assenza. Perchè "mentre ci serviamo dell'oblio come di un potere, il potere di dimenticare ci consegna senza potere all'oblìo, al movimento di ciò che sottrae e si sottrae".
Perciò la trasparenza, la forma sulla forma, la figura sulla figura (senza "persona"), negando ciò che espone ma non negando di esporre, si dispone in uno spazio che pur limitato e definito si offre come exemplum di quella unità presunta di cui fa parte. Il reperto non è più frammento oggettivo, e piuttosto un segno di ciò che avrebbe potuto essere, in quel luogo, se in quel luogo vi fosse mai stato un oggetto. La sua esattezza è presunta - nè mobile nè immobile.
È significativo che appena una traccia, un'orma, appare accanto all'esattezza del tracciato, della tavola architettonica, a contraddire la sua stabilità (di ciò che in apparenza resta), il suo "gesto" è da fuori, dall'esterno della composizione, che agisce. Una mimesis: ovverosia il collage. (1979)

Roberto Sanesi


 

 

 

 

 

 

Nel 1976 ho iniziato ad adoperare le veline come medium insieme al colore.
Su un dipinto iniziale sovrapponevo degli strati leggeri di carte che creavano grovigli, accumuli, stratificazioni frastagliate, trasparenti l'uno sull'altra ma che a tratti venivano a cancellare il dipinto. Successivamente, ho sentito il bisogno di aprire nella superficie delle fratture, delle crepe. Sono nate delle forme frantumate, dei segni primari, delle sagome irregolari che ho trovato naturale chiamare reperti di archeologia astratta. Queste immagini che si venivano isolando come forme archetipe rivissute nel mio inconscio, emergevano dalla rottura dello spazio del quadro.
Giugno 1979

Ignazio Moncada


Ignazio Moncada progetta le sue immagini e sperimenta materiali di costruzione con una sufficiente dose di ironia e di distacco, con una garbata insofferenza per ogni forma di ortodossia che possa sembrare «adorazione feticistica» dell'immagine o dell'oggetto o in ogni caso compilazione ripetitiva di uno schema, un presupposto. Le diverse letture percettiva, psicologica, estetica - a cui l'opera è sottoposta portano a una sintesi controllata fra previsione e imprevidibilità, certezza statistica, meccanica di uno sviluppo di forme o di una successione di colori, e la casualità, l'intervento del non prevedibile, dell'anomalia nel determinarsi dell'immagine complessiva.
E tutto il sistema si può formulare come casualità mascherata da necessità: la presenza di un disegno di natura costruttiva, che invade l'intero campo dell'opera è contraddetta dal progressivo abbassamento percettivo di una parte di esso ottenuto per desaturazione o per velature di bianco: l'opposizione figura-fondo che ne risulta è anch'essa di natura dinamica, trai scontata o data per certa. La figura infatti si presenta già, nella sua formazione, come composita, risultante da linee di tendenza che superano la figura stessa e agiscono nel campo; esterno e interno della figura ancora sono formati e nello stesso tempo scomposti da fasce di forme-colore di stesura, intensità, forma e dimensioni sempre diverse.
Galleria Interarte, Genova 1976

Alberto Veca


Negli ultimi lavori di Ignazio Moncada - composizioni materiche quadri su tela di grandi o, viceversa, di piccolissime dimensioni - quello che pare essere, anche a giudizio di critici ed esperti, l'assillo centrale e più autentico della ricerca dell'artista, e cioè un effetto totale di trasparenza, si attua facendo intervenire nell'operazione, contemporaneamente, due istanze press'a poco antitetiche. La prima istanza è d'ordine mentale e consiste nel perseguire quegli effetti all'interno di una gabbia formale calcolatissima, ove il giuoco del caso trova, ogni volta, una sorta di correttivo intellettuale nell'incontro, o scontro, con elementi del dominio razionale assisi in altro luogo; il luogo, appunto, dell'intelligenza e dell'egemonia sul reale.
L'altra istanza si collega invece all'ordine esecutivo, manuale o tecnico, e consiste nel perseguire l'effetto meno come sovrapposizione di toni che come distruzione della materia (la carta, il colore, la colla). Per questo riguardo, si ha perciò a che fare con un lavoro reale di dissoluzione-disfacimento, ove la trasparenza è quanto resta di tale lavoro sulla superficie che ne costituisce il campo di attività: la sua traccia, la sua impronta, «il residuo» concettualmente (razionalmente) non assimilato e non assimilabile.
Dicembre 1976

Stefano Agosti


Tra il caos del subconscio e la tecnica rigorosa, vigilante, si sviluppa il programma dell'operatore artistico, che cerca anche la sua propria identità. In questo universo di enigmi, dove nessuno dispone di tempo per pensare all'assoluto o per ripensare la storia relativa, l'artista Moncada gode della certezza del colore, della forma e della linea. Nei suoi quadri attuali la diversità dei rossi, rielaborati, distanti da qualsiasi agitazione, palesa il suo lirismo intimo; le linee azzurre e verdi, esitanti fra il calcolo e il sogno, diventano affermative; le diagonali esigenti vogliono provocare il dialogo; le colonne rosse alzano un tempio astratto. II tutto si inserisce nel nitore che distingue l'acrilico. 1 piani in conflitto, talvolta monumentali, si conciliano. I contrari si uniscono, con ribellione. L'operatore Moncada riesce a oltrepassare la linea quotidiana dell'astratto, abbinando ispirazione e pianificazione, fluidità e solidità: arriva quindi a dominare il subconscio. La crisi, risultante dallo choc fra intelletto e sensi, è superata dalla forza dialettica del colore. Si realizza allora la comunicazione con « l'autre».
Studio Condotti, Roma 1974

Murilo Mendes


Et s,i tu regarderas là le tout toi mème le plus cachè tu verras que la ligne seule la seule possible c'est la non ligne la ligne bang bang.
«Il Punto» Torino Nov. 73

Emilio Villa


ARMONIA - DISARMONIA DI STRUTTURE

Credo che sarebbe equivocarle, accettare le strutture di questi dipinti recenti e recentissimi di Ignazio Moricada per assolute. Come dire cioè che sarebbe improprio riferire subito queste prove alla tradizione del Concretismo. Perchè Moncada mi sembra non calibri forme pure in strutturazioni architettoniche, di esito appunto assoluto, quanto inviti piuttosto come a rilevare la rotazione, l'intrecciarsi di sfere e di strutture. Queste dunque accetti non in funzione statica, bensì dinamica, non assoluta, ciascuna di per se definita, come componente architettonica, bensì appunto dinamica. E così, insomma, il mistero non nasce in queste tele dalla purezza della forma strutturata, quanto dall'intreccio - precario, variante, episodico, persino - delle strutture: nessuna delle quali dunque è prevalente, nessuna delle quali protagonista, a danno di altre subordinate. In fondo mi sembra che Moncada, se così posso dire, piuttosto che costruire ascolti: ed ascolti proprio questa compenetrazione, questa rotazione, questo intrecciarsi di strutture. E di qui cambi un suo dialogo magico, almeno nel senso orfico (che giustifica la sua ammirazione per Kupka, per esempio al di là dei termini d'un rapporto strettamente linguistico non esistente). Allora certi tondi non saranno semplici inquadrature, semplici riduzioni: saranno come dei cannocchiali su quel movimento di sfere, la cui risonanza d'esponente simbolico svaria dal cosmologico allo psicologico, mi sembra.
In fondo, insomma, la realtà per Moncada è l'intrecciarsi sempre mutevole di strutture elementari, valide appunto soltanto in questo loro articolato consistere, e non separatamente come assoluti formali. Così che l'atto più pertinente non è la contemplazione della perfezione costruttiva bensì l'ascolto di questa armonia-disarmonia d'intreccio, un'eventualità di rivelazione vagamente magica da quell'attrito strutturale, che è poi fatto di strutture esenzialmente cromatiche (il che vuol dire ampliare le virtualità simboliche di quegli elementi, e la moltiplicità di esiti del loro intrecciarsi). Ed attraverso questo avvertimento dinamico, infine, Moncada sfugge anche ad una sommaria assimilazione ad esiti di segnaletismo, così diffusi, dagli esempi d'oltreoceano. D'altra parte quell'ascolto non è sentimentale, quanto piuttosto logico, così che Moncada sfugge anche ai termini d'un effusivo lirismo astratto, o d'un'evocazione che sia. Perciò il suo colore ha una freddezza e limpidezza non affettiva, è colore distaccato, piuttosto che passione, che ricordo ed evocazione. Infatti Moncada è analitico, e non vuol perdere nessun tratto, nessun episodio di quell'evento elementare, ma per lui reale, che è l'intrecciarsi delle sfere, delle strutture.
Galleria Obelisco, Roma 1971

Enrico Crispolti


IPOTESI «INCORPORATE» DI MONCADA


Nel 1967 Moncada rielabora e sintetizza i tempi e le sperimentazioni degli anni precedenti ed affronta una serie di tele in cui è di tutta evidenza il raggiungimento di una maniera autonoma e molto personale.
Indubbiamente, nella sua pittura confluiscono dati di cultura storica e recente, ma il metodo esecutivo è indirizzato con estrema lucidità verso una decantazione d'immagine sempre più rigorosa: la continuità del segno geometrico, attraverso una polivalente ampiezza di morfologie, caratterizza questo periodo.
Ed è questo il punto che l'immagine cessa di essere un «episodio» nello spazio pittorico, qualificandosi essa stessa come spazio generatore di immagini «altre» ribaltate su un piano di ambiguità, scandite su un tempo raggelato. Il colore, totalmente oggettivo, concorde a sottolineare questo tempo fermo: si crea, dunque, una tensione psicologica di staticità, un senso d'attesa.
Ed ecco apparire, dagli estremi limiti dell'opera, delle immagini assolute, geometriche, cariche della propria evidenza iconologica, prorompenti in uno spazio che da psicologico è diventato fisico, materia di supporto, campo d'azione.
A questo punto l'immagine è definita, raggelata nella sua essenzialità, compiuta nel suo essere forma e spazio, esistenza totale. All'artista non rimane che bloccarla, pietrificarla in questo suo essere «per sè». Nulla di più adatto, allora, del ricorso ad un procedimento industriale (e qui si rinnesta la vocazione sperimentale del Moricada): la plastificazione inglobante.
Questi «incorporati» si presentano, dunque, come ipotesi fenomeniche di una operazione pittorica che ha raggiunto il suo limite di espressività formale. Sono degli «oggetti» che presentano la massima disponibilità anche fruitiva.
1968 - Galleria Ferro di Cavallo

Giuseppe Gatt