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A Palermo negli anni '50
Nel suo studio a Palermo
nel 1963
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«La forma vive di se stessa ed è creazione al di
là di ogni possibile rapporto con il referente» ha
scritto una volta Martorelli, ribadendo che la contrapposizione
tra astrattismo e figurativismo è un nonsense,
poiché la figura non è comunque che un pretesto
formale, cromatico, ritmico, ed è alla forza del segno
nello spazio più che alle sue qualità mimetiche
che si devono i rimandi, le allusioni, le evocazioni dell'inconscio
che ogni lettura dell'immagine porta con sé. Avventura
del limone è allora una dichiarazione di poetica per
un pittore a briglia sciolta che in tutto il suo lavoro ha alternato
con spregiudicata naturalezza immagini figurative e astratte per
testimoniare come un paesaggio, un ritratto o un limone, allo
stesso modo di un'area screziata di colore o una composizione
di sfere e triangoli, non siano in pittura che un periglioso artificio,
un teorema di cui ogni volta reinventare regole e passaggi assumendosi
il rischio. Così il problema che Martorelli si pone riguarda
più in generale quella tensione tra energie di segno opposto
che anima la materia e gli equilibri sottili che possono stabilirsi
tra forze dell'incontro e forze del distacco. Se scorriamo le
sue opere dagli anni Sessanta ad oggi vediamo che il tema di fondo
è quasi sempre il medesimo in una vasta gamma di variabili.
E il senso complessivo sta nella ricerca di soluzioni che evitino
la scorciatoia del gesto vitalistico, e siano invece determinate
dalla misura, dal controllo, dalla costruzione del ritmo, senza
che questo però comporti la razionalità di un programma
aprioristico esterno all'atto pittorico. In questa pittura non
c'è un dentro ed un fuori, un prima e un dopo: la sua necessità
coincide interamente con la sua costruzione e questa è
allo stesso tempo riflessiva ed impulsiva - tensione e resistenza,
ma non dramma; frattura, ma non separazione; colore esibito e
appassionato, ma non enfasi, urla; rigore artigiano ed umoralità
integra senza che nessuno dei due termini prevalga sull'altro.
Un ossimoro, un equilibrio di contraddizioni difficile da reggere,
il lavoro di un trapezista. E le cadute fanno parte del gioco.
(...)
Contrapposizione
di forze, processo dialettico, interazione, gioco serissimo e
metodico sono, si è detto, il cardine della pittura di
Martorelli, e danno luogo a strutture più complesse in
una serie di quadri chiamati Paesaggi meccanici, anch'essi
dei primi anni Settanta, i cui antecedenti sono le composizioni
e i paesaggi urbani del primo periodo, così come le fitte
nature morte degli ultimi anni potrebbero essere considerate una
prosecuzione.
Il tema comune di queste serie, declinato con accenti diversi,
è l'ingranaggio, cioè un affastellarsi di elementi
apparentemente disorganizzato ed in realtà ingabbiato in
un sistema di incastri e intersezioni apparentato al mondo della
meccanica.
(...)
Il ritorno in Sicilia significherà anche il ritorno della
Sicilia nel quadro: il Martorelli degli anni Ottanta gioca ancora
e di nuovo con i clichés, li rimescola e li ribalta,
li prende sul serio e li mette in parodia. Il cliché
della mediterraneità, il colore che spara, il bisogno
di realismo, la lussuria degli oggetti, le foglie carnivore, il
trionfo figurativo, le nature morte di Guttuso, l'atelier del
pittore con il suo caos di tavolozze, stracci, pennelli, la finestra
sul mare. E l'ingranaggio si compatta di nuovo, acquista peso
e diviene la solidità obliqua di una tavola dove le cose
si ammassano, si incastrano l'una nell'altra, si sovrappongono,
si contraddicono. Stavolta i pezzi del meccano sono scatole, asparagi,
pesci, pennelli, barattoli, caffettiere, pinze, martelli, un inventario
di bottega il cui disordine apparente ha nella scansione dei piani
la logica ferrea di una gabbia, mentre le diagonali indicano le
direzioni di una multipla fuga. E, oltre le sbarre, ancora e sempre
si accampa sulle sue foglie di smeraldo il limone sovrano come
un'offerta propiziatoria, uno specchio arguto, o soltanto una
lampada accesa nella notte.
Eva
di Stefano
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Nello studio romano nel 1975
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Noi ricordiamo un Martorelli nel '68, alla X Mostra Nazionale di
Capo d'Orlando. Lo ricordiamo appartato, solitario, retrocedente
ai margini, verso zone infrequentate, dove s'affievoliva il chiasso,
si perdevano le voci.
Lo vediamo - un attimo - improvvisamente abbandonare il suo ruolo
d'attaccante in una partita di calcio su un campetto vicino al mare,
dove tra artisti e critici si giocava malamente al gioco della giovinezza,
correre, tuffarsi e sparire dentro l'acqua rossa del tramonto. Fu
in ricordo, per nostalgia di quella « brezza », di quei
colori e di quella luce che Martorelli decise di lasciare Roma e
stabilirsi a Capo d'Orlando, ai bordi di una trazzera che scorre
in riva al mare? Da questo suo ritiro, da questa sua casa, nella
prospettiva verso la piana, i colli, ha sempre davanti agli occhi,
alta e solitaria sopra il poggio, bianca e gialla, la casa di Lucio
Piccolo. Altro appartato, altro solitario che ha giocato su questo
paesaggio, su questi colori e queste luci il suo destino di poeta.
(...)
Cosa
vuole raggiungere, cosa vuole riconquistare Martorelli a Capo d'Orlando?
Non certo la natura. Non è così ingenuo, il pittore,
da credere che la natura possa ancora essere rappresentata, sia
pure come nostalgia, come utopia. Noi crediamo che da Capo d'Orlando
egli abbia voluto ripartire proprio per registrare, per dipingere
l'agonia di essa, la sua fine. C'è un quadro di Martorelli
intitolato emblematicamente Trazzera marina anno zero.
Dove è chiaro che il pittore ha voluto ripartire da questo
estremo tempo ed estremo spazio, da questo limite, da questo «
Finisterre », per dire, con il linguaggio nuovo, nuove cose.
Che sono le cose, gli oggetti della risacca. Su questa
spiaggia di Capo d'Orlando, Martorelli va raccogliendo oggetti sulla
linea di detriti che una bufera - la montaliana « bufera che
sgronda sulle foglie/dure della magnolia... » - ha depositato
sulla rena. Si sente, nei quadri di Martorelli, nelle sue nature
morte, nei suoi paesaggi privi di presenze umane, il risentimento
per un'offesa, il dolore per una perdita. A testimoniare l'una e
l'altro c'è un affollarsi di forme aguzze, taglienti nel
loro disegno, di foglie come coltelli, di fette d'anguria come mannaie;
ci sono i suoi colori primari, vividi e corrosivi, che urlano e
inquietano; ci sono, sempre su piani inclinati, sul punto di scivolare
in una nera voragine, in un abisso, ferri e fronde che si mischiano;
e c'è infine un'ironia sferzante nel vulcano all'orizzonte
che sputa dal cratere coriandoli, nel colombo stupefatto che sosta
per un attimo sopra i detriti.
Ma è della natura che ci parla Martorelli, della sua disfatta?
È chiaro che la fronda di limone, il tronco d'albero, i pezzi
metallici d'un ingranaggio, l'uccello o il pesce non sono che un
pretesto. D'altre risacche vuole dirci il pittore, d'altri detriti.
Forse della nostra anima, della nostra epoca, della condizione umana.
Milano,
30 settembre 1990
Vincenzo
Consolo
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A Palermo nel 1991
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«Non
dipingo con ebbrezza, sottolinea ironicamente, ma per il piacere
degli altri», leggo nella solita intervista. L'evidenziazione
dell'ironia mi conferma che il nostro artista non sia stato mai
creduto del tutto. Non lo è neppure la volta che ammette
di avere un concetto provvisorio del denaro, così come del
lavoro stesso, e che a dipingere non si diverte («Quando voglio
divertirmi, gioco al pallone, o canto»). Certo, le sue dichiarazioni
possono apparire bislacche o provocatorie: «Vorrei che fossero
altri a dipingere i miei quadri [...], dipingo quasi a orari di
ufficio senza isterie o problemi». Sembra sia facile coglierlo
in contraddizione, eppure in quello che dice c'è il più
delle volte la chiave del suo modo di essere uomo e artista, ma
la dicotomia appare ora forse meno insanabile.
(...)
Non gli sono mai mancati né l'interesse dei galleristi né
l'attenzione di critici capaci, ma gli uni e gli altri non sempre
hanno voluto intendere ciò che l'artista va ripetendo dalla
metà degli anni Settanta, proprio sulla specificità
del suo lavoro. Sul valore di quel segno che genera «una forma
che vive di se stessa, che è creazione al di là di
ogni rapporto con il referente, e se allusioni si colgono, possono
essere evocazioni dell'inconscio che non diminuiscono, per questo,
la polisemia del segno».
Basilio
Reale |
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