Sacra Conversazione, dipinto su vetro ottocentesco.
Museo Regionale " Giuseppe Cocchiara" di Mistretta
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Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo
di Sergio Todesco
Di cosa parliamo quando parliamo di vetro?
Di una realtà trasparente e lattiginosa, di una fissazione alchemica fredda, ma sempre in procinto di animarsi e rivelare una qualche forma di alterità. Di un medium traslucido e luminoso di forte pregnanza simbolica, in qualche misura archetipico, canale privilegiato come esso appare per la resa, spesso più trascendentale che realistica, di entità numinose. Dal Blaue Reiter di Franz Marc e Vasilij Kandinskij al Grand Verre di Marcel Duchamp, il vetro ha continuato ad alludere — anche nel corso del secolarizzato XX secolo — a una dynamis che lo percorre e lo abita in modo affatto differente da qualunque altro supporto materico.
I dipinti su vetro (o sotto vetro) siciliani costituiscono nel loro complesso un documento prezioso oltre che ai fini di una ricostruzione dello svolgimento di tale forma pittorica in Sicilia e nel Meridione d'Italia, anche per la conoscenza di uno dei tratti più significativi della cultura tradizionale, quello relativo alla religiosità e alle forme di devozione domestica. Il loro statuto di icone dispiega altresì un'ampia gamma di problematiche connesse al rapporto che i ceti popolari dell'isola intrattennero con le immagini in generale e con quelle sacre in specie, atteso l'indubbio nesso intercorrente tra la letteratura devozionale "minore", l'imagerie religiosa e i sistemi di rappresentazione storicamente affermatisi in seno ad essi.
La pittura su vetro deriva probabilmente dall'arte della vetrata e della decorazione a freddo di superfici vitree, ma rivela più strette analogie con le attività connesse all'incisione; essa nasce in tutta Europa, nella forma che conosciamo, verso la fine del XIV secolo, in concomitanza con l'affermarsi dell'utilizzo di lastre di vetro per le finestre, ritenute più funzionali per impermeabilità e trasparenza rispetto ai materiali precedentemente impiegati a tale scopo (sportelli di legno, pelli di pecora rese trasparenti attraverso una concia con olio di semi di lino, riquadri di tela imbevuti di cera).
La materia vitrea era stata, fin dal III millennio a.C., utilizzata dall'uomo per la produzione di oggetti utilitari o decorativi. A far data dalla metà del I secolo a.C., periodo a cui può esser fatta risalire l'invenzione della soffiatura, i manufatti in vetro divennero sempre più presenti nella cultura materiale euro-mediterranea, come mostrano le numerose officine vetrarie riportate alla luce da scavi archeologici condotti in diverse aree del continente europeo, le quali produssero vasellame in una straordinaria varietà tipologica (coppe, piatti, bicchieri, patere, bottiglie, brocche, olle) nonché contenitori per profumi e balsami (unguentari) impiegati anche nei riti funerari. Durante il Medioevo, l'utilizzo di lastre di vetro per finalità artistiche e decorative fu riservata ai ceti più abbienti, in ragione degli alti costi di produzione, e fu solo nel corso del XVIII secolo, con l'aumento di una ricchezza diffusa e l'abbassamento dei costi determinato dai progressi tecnici della Rivoluzione Industriale (primo fra tutti, l'utilizzo del carbone al posto della legna) che le lastre di vetro vennero prodotte in quantità tali da poter raggiungere più vaste fasce di utenza.
Un uso "devozionale" di lastre vitree si era sporadicamente registrato in area bizantina, attraverso la produzione di piccole icone caratterizzate dal fondo a foglia oro, ma dovettero trascorrere alcuni secoli perché la realizzazione di immagini religiose su vetro si accompagnasse a una diffusione capillare e massificata.
Già nel XVI secolo i contenuti di tale pittura comprendevano episodi evangelici visti in chiave devota ed esemplare, ma gran parte della produzione su vetro continuò a lungo a privilegiare soggetti profani o, al più, allegorici. I vetri, in tale periodo, erano piuttosto utilizzati nella decorazione di mobili — stipi o monetieri — destinati alle classi alte, e la loro produzione poteva essere facilmente riconducibile ad artisti di larga notorietà come Guido Reni o Luca Giordano. Solo a partire dalla fine del Seicento e in via definitiva nel corso del secolo successivo si venne registrando nella produzione pittorica su vetro una dominanza di soggetti religiosi, vetero e neotestamentari, riscontrandosi in pari tempo una progressiva dismissione delle precedenti esigenze decorative a vantaggio di nuove istanze devote e cultuali nonché, in ordine alla fruizione, una parallela "discesa" di tale forma artistica dall'ambito egemone a quello subalterno, che nella cultura popolare meridionale in genere e siciliana in specie assunse configurazioni di grande rilevanza, tanto sotto il profilo estetico quanto sotto quello ideologico.
Nonostante gran parte delle pitture su vetro presenti in Sicilia sia costituita da opere provenienti da botteghe meridionali, non mancano nell'isola esempi di dipinti— i più antichi—appartenenti al periodo caratterizzato dagli influssi della scuola veneta e della pittura colta. Alcune pitture che rivelano influssi di botteghe napoletane e pugliesi, dai colori meno sfumati e dal tratto più deciso, risalgono alla prima metà dell'ottocento. A un periodo segnato da tentativi di elaborazione autonoma dei tratti stilistici prima importati, elaborazione che qualche studioso ha ricondotto all'attività dei "pincisanti", appartengono esemplari nei quali è chiaramente rilevabile l'abbandono delle esigenze di mero decoro in direzione di una lettura devozionale della materia trattata.
Al periodo che va dalla fine del XIX agli inizi del XX secolo sono infine da ascrivere dipinti in cui si assiste a una commistione modulare delle esperienze pittoriche dei "pincisanti" e dell'attività dei pittori di carretto, e successivamente al definitivo imporsi di stilemi integralmente riconducibili all'arte pittorica dei carretti siciliani.
Esaminando l'articolato pantheon di immagini sacre presenti nei vetri siciliani, si nota come accanto alla produzione di immagini mariane, preponderante in alcuni centri, le pitture siano dedicate tanto alla raffigurazione di un santo o di un gruppo di entità numinose (San Giuseppe, Sant'Anna, San Francesco di Paola, San Michele Arcangelo, Santa Rosalia, la Sacra Famiglia) per lo più svolgente una funzione protettiva e/o devozionale, quanto alla restituzione narratologica di episodi connessi alla storia vetero e neo-testamentaria (giudizio di Salomone, natività, adorazione dei pastori, adorazione dei Magi, fuga in Egitto, decollazione di San Giovanni Battista etc.), ovvero all'agiografia (scene di martirio o episodi della vita di un santo).
I vetri venivano realizzati al contrario, ossia dipingendo le immagini sul verso del vetro in modo speculare rispetto a come si desiderava che esse apparissero guardando il recto di esso. Parimenti, essendo la stesura dei vari colori cronologicamente invertita nelle sue fasi, essa doveva necessariamente prevedere una immediata resa di ciò che nei dipinti su supporto viene realizzato dopo (occhi, naso, bocca, chiaroscuri, particolari della figura e del paesaggio etc.) e che viceversa è qui oggetto di prima stesura per non essere sommerso e cancellato dagli strati successivi (incarnati, sfondi e campitura delle superfici in generale). Dal necessario impiego di tale tecnica deriva alle pitture sotto vetro un'incantevole caratteristica, l'assenza totale di qualunque perfezionismo: una volta che i colori sono dati, è impossibile mutare il quadro. Ciò implica in un certo senso il riconoscimento di una perfezione che il dipinto in ogni caso possiede e che ne sancisce in qualche modo lo statuto di icona, di sacra epifania.
È evidente, nella gran parte della produzione di stampe popolari tanto siciliane quanto napoletane, xilografie, calcografie, zincografie di soggetto sacro largamente diffuse nei secoli XVIII e XIX, l'influsso dei modelli iconografici derivanti dalla imponente produzione settecentesca dei Remondini, editori e stampatori di Bassano specializzati nella realizzazione di immagini devote la cui circolazione interessò l'intera Europa e addirittura i paesi ispano-americani, e costituì un patrimonio di immagini assai sfruttato dalla produzione pittorica su vetro, non solo veneta ma anche meridionale. Per le immagini più antiche, non è priva di esiti un'indagine che consenta di risalire ad influssi della produzione pittorica colta dei secoli XV—XVII.
Se si riflette su tali origini, e sulle ragioni del trapasso da un supporto materico.
all'altro, appare utile rilevare come l'atto di trasferire le elementari immagini devote sulla superficie vitrea possa essere un'operazione valutabile sotto il profilo ideologico, comportando esso una strategia di arricchimento della materia attraverso l'impiego del colore e del medium traslucido, e ancora il raggiungimento di un maggior grado di numinosità fatto raggiungere dai dipinti attraverso quella sorta di congelamento delle immagini che le rende permeabili alla luce, misteriose, potenti, responsabili.
Occorre forse dedicare un'ulteriore attenzione al peculiare statuto delle immagini sacre quali immagini responsabili, immagini in grado di fornire responso in quanto simboleggianti un soggetto o un'entità; su tale tematica si può proficuamente ricorrere alla categoria della transustanziazione elaborata da Georges Didi-Huberman e fatta oggetto di riflessione antropologico-visuale da Francesco Faeta. Secondo tale prospettiva ermeneutica, le immagini numinose, nonché essere mere riproduzioni di un referente (l'immagine di un santo riproduce quel santo) tendono, in contesti di fruizione ancora permeati da una cultura di tipo tradizionale, a confondersi con esso, partecipando in pari grado dell'essenza che lo connota. L'immagine del santo si trasformerebbe in una sorta di reliquia di esso. E tale invero pare essere l'uso che si è storicamente fatto delle icone sottovetro, veri e propri dispositivi volti a presentificare e rendere partecipe della storia umana l'ente numinoso nei più svariati contesti della vita quotidiana, sì che l'esistenza degli uomini possa dispiegarsi per entro un sistema garante dell'integrità della persona, al contempo utile a rassicurare l'utente di tale dispositivo sulla congruità e coerenza dei propri orizzonti, tanto al livello del tempo strutturato che a quello del tempo vissuto.
La cultura popolare siciliana ha sempre riconosciuto come forte elemento identitario la corrispondenza univoca e pressoché esclusiva tra la persona e la sua rappresentazione in effigie, non meno che — nel caso della realizzazione di opere attraverso l'impiego di calchi — tra una matrice e il prodotto che da questa si trae. Di un figlio assai simile al padre si dice ad esempio che egli è "'nu stampu e 'nafijùra". Tale ideologia investe —com'è agevole verificare —ambiti di precipuo, se non esclusivo, ordine simbolico.
È facile comprendere ciò che tale percezione sociale delle immagini comporta in ordine al "senso" delle dinamiche di utilizzazione delle stesse nei più disparati contesti pubblici e privati.
I dipinti sotto vetro mostrano forse qui la loro più intima vocazione a costituirsi come miracoli, sacre apparizioni di un nume che irrompe nella storia degli uomini. Essi cioè, per dirla con Ernesto de Martino, "offrono una prospettiva per immaginare, ascoltare e guardare ciò per cui si è senza immaginazione, sordi, ciechi, e che tuttavia chiede perentoriamente di essere immaginato, ascoltato, visto".
La mostra "Vet-rifiessi. Un pincisanti del XXI secolo" concerne l'attività di Vito Fulco, artigiano di Alcamo, che da alcuni decenni realizza dipinti sotto vetro alla maniera dei pincisanti siciliani sette-ottocenteschi. La caratteristica peculiare di questo artista consiste nel fatto che egli non produce i suoi dipinti devozionali "copiando" i vetri del XVIII e XIX secolo con tecniche e materiali moderni, ma utilizza pigmenti (olii), supporti (vetri antichi) e addirittura stili e schemi iconografici uguali agli "originali".
In un famoso saggio del 1936 (L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica) Walter Benjamin metteva a fuoco il fenomeno della "perdita dell'aura" nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, significando con aura l'unicità dell'opera stessa, ossia l'hic et nunc derivante dal fatto che "la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova". Dalla registrazione di tale perdita Benjamin però, piuttosto che trarre conclusioni elitariamente pessimistiche, cercava di indicare i proficui esiti derivanti da un sostanziale, "democratico", incremento del bacino di utenza dell'opera medesima. La perdita di carisma dell'opera d'arte dischiuderebbe infatti la sua de-sacralizzazione e la conseguente possibilità che, anche in contesti storici differenti, essa possa continuare a declinare percorsi di senso per altre categorie di fruitori.
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità ideologica. Così, parafrasando Benjamin, potrebbe essere viceversa definito il percorso di Fulco, che fin da bambino ha frequentato le botteghe artigianali e gli antiquari del suo paese assorbendo della pittura su vetro, nonché le mere tecniche esecutive, anche gli stilemi, fino ai più intimi accorgimenti e moduli decorativi, in una parola lo spleen, l'interiore malinconica poetica che lo attraversa, si che oggi — forse unico nella nostra isola — egli può a buon diritto esercitare il suo mestiere di pincisanti del terzo millennio, siglando spesso le sue produzioni con un proprio marchio di bottega.
Osservando le pitture su vetro da lui prodotte, ci si rende conto di trovarsi di fronte non già a dei falsi d'autore (quale autore? tali splendidi lacerti della cultura popolare siciliana — al di là di qualche personalità peraltro fin qui rimasta priva di un'adeguata contestualizzazione storica — rinviano sempre a produttori anonimi, sempre inseriti in una bottega, in una "scuola", in un milieu collettivo), bensì ad opere che, al pari dei proprî modelli sette-ottocenteschi, vengono realizzate rifuggendo dall'affermazione di una dichiarata individualità artistica e viceversa affermando la necessità (e verrebbe da dire la bontà, l'eticità) di un canone, di uno stile "etnico" condiviso al cui interno acquista valore il fare le cose ben fatte come quelli che ci hanno preceduto, l'adeguamento alla norma più che l'infrazione di essa.
Tra i vetri presenti in questa esposizione spiccano per la loro singolare naiíreté alcuni modelli iconografici di particolare esito espressivo, come il Gesù Bambino raffigurato in un campo di fiori, o nelle analoghe declinazioni del pastorello o pescatore di cuori. In tutte questi dipinti lo stile è principalmente quello della pittura di carretto tardo-ottocentesca, attività attestata anche ad Alcamo attraverso il pittore Giuseppe Manfrè, più in genere nell'intero creale trapanese con vere e proprie scuole di pittori di carro attivi a Trapani, Marsala, Castelvetrano, ma in qualche caso anche di correnti precedenti. Il ciclo della natività, ad esempio, è presente con espliciti riferimenti a due distinte produzioni pittoriche, la prima delle quali ascrivibile alla bottega dei fratelli Zizolfo, attiva dapprima a Partinico (Mario Zizolfo) e poi a Palermo (Antonio Zizolfo) con una datazione "di scuola" comprendente gli ultimi tre quarti del XIX secolo, la seconda rappresentata dagli splendidi tableaux raffiguranti adorazione dei pastori e fuga in Egitto, con i colori squillanti dei decoratori di carretto, soprattutto di area trapanese, della seconda metà dell'ottocento. Anche le cornici, prodotte da artigiani che paiono emergere da una Sicilia borbonica, sontuosa e contadina, sono quelle che la tradizione ci indica come le più adatte ad avvolgere i miracoli di vetro: la cornice a guantiera, la cornice a cuspide, o "Luigi Filippo" o "Garibaldi" come popolarmente la si indicava e la classica cornice mezzacanna, o "canna ciaccata", anch'essa impiegata per proteggere i dipinti sotto vetro.
Forma e contenuto di tale produzione pittorica rimangono dunque identici, il contesto storico e culturale in cui si svolge il fatto artistico è viceversa drammaticamente mutato, si che Vito Fulco si propone di fatto come strenuo e pervicace testimone di iconografie oggi desuete, di una modalità di messa in forma del numinoso con cui a fatica la nostra povera modernità riesce a dialogare.
Gli spazi dei dipinti sotto vetro sono chiusi, l'universo popolare del sacro è un universo concentrazionario, la cifra costitutiva del divino che si manifesta in una delle proprie molteplici epifanie è, appunto, epifanica: un'irruzione dell'eterno che entrando nel tempo storico ne occupa (con un tendenziale horror vacui) le più quotidiane e domestiche declinazioni.
La pittura su vetro, che nel corso del XX secolo ha trovato percorsi espressivi di tale gamma da giungere a toccare le avanguardie artistiche (non solo il già citato Blaue Reiter, per citare il caso più pregnante, ma anche alcuni artisti contemporanei come Gilles Dulis, Alebert Lemant e Yves Siffer), in questo XXI ripropone, senza soluzioni di continuità, le porte regali dell'iconografia popolare siciliana degli ultimi trecento anni.
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