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Introduzione
ad una Via Crucis
di Ugo Ronfani
Quello
che i Vangeli non dicono è che le stazioni della Via Crucis
sono cominciate per il Cristo quando, bambino, ha incontrato i dottori
del Tempio. Quando cioè è cominciato per lui il percorso
faticoso della conoscenza.
L'idea, nascosta nelle Scritture, è stato il tema che ha
ispirato a Vannetta Cavallotti questa storia che ha inciso sulle
pagine di quattordici libri che tracciano, col linguaggio asseverativo
della parabola, il viaggio del Bambin Gesù nell'arco, accidentato,
di un destino che da Creatura Celeste l'avrebbe trasformato in un
Uomo. È una storia che nell'invenzione dell'artista ha la
natura di una di quelle favole che gli adulti raccontano ai figli:
di un bambino-angelo che - liberi di pensarlo - è in fondo
la parafrasi del burattino Pinocchio del Collodi, chiamato a diventare
uomo nella consapevolezza della fatica di crescere. Questa `favola'
di un viaggio nell'esistenza - dove la croce esita a mostrarsi altrimenti
che come simbolo del dolore disegnato da un bimbo - è raccontata
con libri di gesso, dove il gesto e la parola sono come pietrificati
in allegorie; e gli altri elementi di questo collage grafico, che
ha la scansione di un'unica scultura seriale, sono fatti di materiali
di cellulosa, stucchi, lucidi ed elementi corporei inseriti nella
composizione, il tutto attraversato dal bambino-angelo nel suo periglioso
cammino.
Ecco così, evidenziati appunto con l'inesorabile eloquenza
delle favole, episodi che ricalcano le quattordici stazioni della
liturgia della Via Crucis: dagli incontri con la madre, la veronica
o le pie donne al rituale barbaro della crocefissione.
Nella parabola della Cavallotti l'epilogo è che, anziché
nel sepolcro, il bambino-angelo termina alla XIV Stazione la sua
iniziazione e si ricongiunge con amore alla folla degli adulti.
È nell'insieme l'astratta metafora della estinzione dell'infanzia
e dell'inoltro nel buio tunnel della crescita: un processo iniziatico
alla conquista di quella che noi chiamiamo (e che il Collodi chiamava
alla fine delle avventure del suo burattino) la consapevolezza e
la conquista dell'umanità. Come nella liturgia cristiana,
la trascendenza è in questa conquista: il mistero del dopo,
attraverso la resurrezione che ricongiunge l'angelo-bambino alla
sua origine celeste. È questo, a nostro avviso, il senso
della resurrezione al termine di un `cammino della croce' di lucida
laicità, soavemente infantile, con le caratteristiche di
una parabola che si rivolge, nel segno del divino, a ogni essere
umano. |
Via
Crucis, 2007 - Chiesa di S. Lorenzo, Tigliole (As)
: |
Via
Crucis
di Clizia Orlando
Una
meditazione profonda sul cammino dell'uomo si raccoglie nelle quattordici
stazioni della Via Crucis laica di Vannetta Cavallotti. L'allestimento,
ospitato all'interno della pieve romanica di San Lorenzo, acquista
particolare significato nella presentazione di un percorso d'iniziazione
del "Bambino-angelo" in una sorta di fluire immaginativo
che, da un tempo lontano sospeso tra pietà e devozione, rimbalza
in un contesto di attualità, dove il nuovo protagonista della
salita al Calvario muove, passo dopo passo sul sentiero della vita,
un viaggio solitario e silenzioso nell'intimo della propria storia.
La rilettura della Via Crucis abita l'inconscio collettivo, è
il recupero di una autenticità che vive nella memoria. Le
tappe di questo incedere per divenire "Uomo tra gli uomini"
sono raccolte nell'impianto di libri realizzati in gesso, su cui
l'artista ha lavorato con la tecnica del collage, sovrapponendo
stralci di energica intonazione sineddotica. Nella diversa definizione
degli spessori, dettati dal succedersi delle pagine, si assiste
allo sviluppo cronologico della vicenda e nel presunto alternarsi
dei fogli si incontrano brandelli storicoreligiosi, che si intrecciano
al tessuto narrativo attraverso alcuni momenti emblematici: dalla
reinterpretazione dell'effigie del governatore Pilato alla significativa
allegoria dello sgomento impresso nello sguardo che domina la IV
Stazione, dal ricordo della condivisione del "peso" del
cireneo alla reinterpretazione di evidente intensità cromatica
dell'incontro con le pie donne, dalla funzione a tutto campo della
croce dell'XI Stazione all'affermazione del protagonista che pare
leggero librarsi verso il suo destino; terreno e trascendente si
fondono mediante il filtro della catarsi. L'innocenza che si esprime
nella fisionomia del ragazzo evoca un'immagine coinvolgente, che
parla al cuore e Vannetta Cavallotti in importanza aggettante ne
presenta proprio il profilo nell'ultima Stazione. Gli occhi del
bambino si soffermano nella loro incantata ingenuità su atmosfere
evanescenti, le percezioni si trasformano in immagini e qui si erge
in sintesi espressiva il simulacro della Croce quale icona di emozioni
viscerali in cui la scultrice evita di trasferire eccessi di drammaticità.
Un senso di impalpabile leggerezza trapela dall'opera e l'intuizione
creativa suggerisce nuovi spunti di indagine, che riaccendono la
convergenza tra passato e presente nel dipanarsi di un'avventura
spirituale dove si afferma la volontà di rigenerazione. Il
lento incedere della "creatura" palesa, nelle diverse
tappe del viaggio, il tentativo dell'uomo di procedere sulla via
segnata dall'arricchimento dato dall'esperienza a mezzo di tensioni
e contrappunti, vivendo la storia della propria migrazione personale
come frammento di un insieme universale. La folla di "minuscoli
uomini", che fanno da sfondo ad alcune sequenze, offrono alla
rappresentazione un'idea di contemporaneo, nella quale il protagonista
avanza tra una metarealtà ideale e la concretezza fragile
e tangibile dell'esistenza. Il percorso diviene affresco affabulativo,
sinossi esistenziale. Fanno da sfondo alla Via Crucis opere scultoree
che si propongono quali personaggi caratterizzanti la storia: l'Angelo,
la Vanitas Il, l'Angelo spettatore, la Casa che guarda, la Casa
angelo e 1 poveri cristi.
Nella definizione di modellato Vannetta Cavallotti esprime una indiscutibile
capacità di rendere nel concetto di "reperto" la
disponibilità di percorrere l'anima dell'opera. Queste sculture,
nelle parti mancanti dell'insieme, evocano percorsi introspettivi
in cui si esprime in maniera significativa l'essenza della personificazione
e se nell'Annunciazione la disposizione quasi impalpabile del drappeggio
ci dispone ad ascoltare gli echi di una dimensione noumenica nella
visione de 1 poveri cristi si raccoglie un sentimento di consunzione
dell'esistere. La risoluzione plastica, crescendo nelle considerazioni
di pensiero, con la complicità della luce diviene misterioso
riflesso di intensità ascetica e nella suggestione del sottile
accordo che si manifesta tra realtà ed invenzione si diffonde
un clima di evocazione che corre sulle tracce lasciate dai secoli:
sunto di epifanica rivelazione dell'accadimento artistico. |
Via
Crucis, 2007 - Chiesa di S. Lorenzo, Tigliole (As)
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Vannetta
Cavallotti
di Eugenio Borgna
Nel suo celebre saggio sul Mosé di Michelangelo Sigmund Freud
si dice incapace di provare emozioni ascoltando la musica, anche
la grande musica, e questo perché egli non riusciva a capire
razionalmente come la musica possa agire sulla vita emozionale.
Grandi emozioni invece diceva di provare dinanzi alle opere poetiche
e alle opere d'arte: non tanto dinanzi a quelle pittoriche, ma soprattutto
dinanzi a quelle plastiche rivissute nei loro contenuti e non nei
loro aspetti formali e tecnici. Sono i modi di essere delle opere
di scultura a commuovere e a destare emozioni in una personalità
geniale, come quella di Freud, che ha saputo guardare con coraggio
temerario negli abissi del cuore umano.
Se la musica si svolge, e si dispiega, nel futuro, la scultura e
la pittura sono immerse in quella dimensione del tempo che è
il presente agostiniano; e nella scultura, mi sembra di poter così
interpretare il senso del discorso freudiano, le correlazioni fra
il tempo e lo spazio ci avvicinano ancora più drasticamente
che non nella pittura alla figura umana che la scultura imita, e
può fare rivivere, con affascinante immediatezza.
In ogni caso, sono in gioco sensibilità individuali che,
nella scultura, si confrontano con la dimensione corporea della
figura umana, abitualmente staccata da un contesto narrativo: dominante
nella pittura.
Ogni opera plastica, o pittorica, che sia dotata di un qualche avvertibile
valore estetico, si fa portatrice di emozioni e di stati d'animo
che la vita di oggi tende fatalmente a cancellare o almeno a rimuovere;
e allora quando ci è possibile conoscere modalità
espressive, plastiche e pittoriche, ma anche ovviamente musicali
(benché queste siano segnate dall'indicibile e dall'indimostrabile
che Sigmund Freud ha così drasticamente sottolineato), che
ridestino emozioni intense e profonde nella nostra anima, si allargano
gli orizzonti di senso in noi: mettendoci in una relazione autentica
e creativa con quelle che sono state le emozioni di chi ha composto
opere significative e palpitanti di vita: di dolore e di angoscia,
o di gioia e di speranza. Certo, ci possono essere discordanze fra
le emozioni che proviamo dinanzi ad alcune opere plastiche, o pittoriche,
e le emozioni che hanno animato la creatività di chi queste
opere ha disegnato e ha scolpito; ma sono discordanze fatali che,
in ogni caso, è anche possibile riconoscere e conciliare
in un ascolto interiore delle opere che guardiamo, e interpretiamo.
Ora, cosa mi ha toccato, quali emozioni ho provato e quali emozioni
mi è sembrato di riconoscere nelle bellissime opere plastiche,
composte di materiali diversi e diversamente intrecciati, di Vannetta
Cavallotti? Quali contenuti, nutriti e riempiti di colori luminosi
e vibranti, è possibile cogliere in questi corpi spezzati
e amputati, in queste associazioni (in queste contaminazioni ma
trasfigurate liricamente) fra figura umana e figure angeliche, fra
figura umana e nature morte?
Di quali abissi di dolore e di angoscia, di stupore e di inquietudine,
sono testimonianza questi corpi umani che non hanno volto, e questi
angeli eterei e immersi in un azzurro bruciante che talora hanno
un volto e talora non lo hanno?
Non ho ovviamente competenze tecniche che mi consentano di formulare
giudizi critici ed estetici su opere d'arte; e posso solo seguire
il cammino misterioso che porta verso l'interno, come lo definiva
Novalis, e cioè verso le emozioni che rinascono in ciascuno
di noi dinanzi agli altri e dinanzi alle emozioni che gli altri
rivivono, ed esprimono, sia negli incontri interpersonali sia negli
incontri con quelle che ne siano le forme di realizzazione creativa.
Negli uni e negli altri si ha, comunque, a che fare con la introspezione
e la immedesimazione: con l'Einfuhlung schileriana e husserliana.
Nel corso di queste sue opere così palpitanti di vita e di
tenerezza ferita Vannetta Cavallotti è riuscita a dare parole,
le parole del silenzio e della espressione artistica, al dolore
che è il Leitmotiv tematico del suo discorso e che si accende
e si trasfigura, si infiamma e si addolcisce, si attenua e si vangelizza,
nelle diverse sequenze figurative. (Come non ricordare, in questo
contesto immaginale, i celeberrimi versi del Macbeth: "date
parole al dolore: il dolore che non parla/ bisbiglia al cuore sovraccarico
e gli ordina di spezzarsi").
Il dolore, il dolore dell'anima, con le sue molteplici e inesauribili
forme di espressione, si costituisce allora come la matrice emozionale
ed estetica di queste opere: di questi corpi straziati che testimoniano
di una angoscia e di una inquietudine senza fine ma anche di una
affascinante stupefazione e di una assorta contemplazione. Sono
corpi spezzati, quelli che non hanno un volto in particolare, che
sono come trasfigurati e come recuperati nella loro significazione
umana da una ispirazione e da una tecnica rappresentativa capaci
di ridimensionare la nostra angoscia dinanzi a figure così
lacerate: trasformandole in un motivo di alta meditazione sul mistero
del dolore.
Sono tematiche dolorose che anche la danza febbrile dei colori,
di questi rossi e di questi grigi, ma soprattutto di questi azzurri,
riscatta e approfondisce: immersi come essi sono nel fiume divorante
di una luce intensa e stregata. Sono figure, in ogni caso, che ridestano
in noi cascate di emozioni forti e di emozioni deboli, di emozioni
che mi sembrano talora richiamare quelle che si provano dinanzi
ad alcune sculture di Camille Claudell sulla linea, direi, di una
connotazione femminile delle opere di pittura e di scultura.
Alle figure umane si accompagnano, poi, figure di angeli e di arcangeli
luminose, ancora più luminose e cantanti, che trascendono
ogni espressione dolorosa: e che, nell'incandescenza dell'azzurro
(il colore del cielo come lo definiva Wassily Kandinsky), ci fanno
sentire le flebili e fragili voci di una adolescenza aperta alla
speranza: alla espérance come ponte che oltrepassa ogni dolore
e ogni angoscia. Questo mi sembra di cogliere, in particolare, nella
straordinaria figura dell'Angelo ignoto, bianca ed estatica, che
si sovrappone al corpo slanciato ed esile di un adolescente, dal
volto illuminato dal sorriso, e nella quale (quasi) non avvertiamo
l'assenza delle braccia.
Gennaio
2007 |
Bambini
di Beslan, Casa Natale di Cesare Pavese, 2007
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Frammenti
di una poetica
di Alfonso Panzetta
Nel nostro tempo, non sono molte le donne che nell'arte della scultura
hanno raggiunto un'espressività fortemente comunicativa e
coinvolgente, in grado di "muovere l'animo" nel profondo,
ragionando su temi che, partendo dalla storia personale o contemporanea,
riflettono sulle passioni universali dell'uomo, o meglio dell'umanità:
vita e morte, amore e dolore, erotismo e passione, sofferenza e
speranza... Vannetta è certamente una di queste, un animo
tormentato e inquieto, dissimulato da un'immagine rassicurante di
madre affettuosa e un po' apprensiva. Torna alla mente la definizione
che Baudelaire fece di Delacroix: "un vulcano nascosto ad arte
dietro ad un mazzo di fiori".
Vannetta Cavallotti, nell'arco della sua carriera artistica, può
vantare interventi storico-critici di grande spessore che hanno
vagliato la sua creatività da molti punti di vista: il suo
singolare surrealismo inteso come unione di sogno/sentimento e realtà,
la particolare visionarietà delle opere, il coté più
intimamente psicoanalitico, il suo uso del calco come punto ultimo
di una prassi scultorea di antichissima origine... Interventi che
certamente sono da considerare il risultato di precisi e appassionati
confronti personali tra l'artista e il critico, ma non vi è
ancora mai stato un intervento personale dell'artista che possa
essere considerato alla stregua di una "dichiarazione di poetica",
un testo che abbia valore di fonte e dal quale le future e personali
interpretazioni possano prendere le mosse. Ormai il critico ha la
tendenza a sovrapporsi in toto all'artista, ed è tendenza
recente, sostanzialmente degli ultimi decenni, che annulla una tradizione
sopravvissuta sino a tutta la prima metà del Novecento. Ancora
oggi, quando ci si occupa di un artista non più vivente,
si vanno a ricercare le sue dichiarazioni, le interviste rilasciate,
e quando le si rintraccia è come se gli si ridesse la parola,
coscienti che quei pensieri saranno indispensabili strumenti per
la valutazione della sua opera.
L'idea
di questo testo è far parlare Vannetta Cavallotti, sollecitarla
con alcune domande, farle dichiarare i suoi punti di partenza, indurla
a ragionare sui suoi meccanismi creativi e sul suo percorso, ricco
e affascinante e non privo di singolarità. Ma se l'idea di
un'intervista, ovviamente tutt'altro che originale, è legata
normalmente a un preciso momento e luogo (nel senso che si svolge
tutta d'un fiato in una precisa data, con il rischio che le risposte
siano troppo legate all'emotività contingente), non è
così per il testo seguente, che emerge da un colloquio/contrappunto
avvenuto via mail tra dicembre 2006 e marzo 2007, quindi con assoluta
calma, dando all'artista tutto íl tempo necessario per una
risposta ponderata e assolutamente attendibile. Ne emerge una Vannetta
genuina, che possiede lacerante profondità umana e coscienza
del suo essere nella Storia, grande o piccola che possa essere.
Tutte caratteristiche che, per chi la conosce da anni, non sono
certo novità, ma per chi la conosce solo superficialmente
diventano elementi su cui riflettere.
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Angeli
e diavoli. (Vannetta Cavallotti - Enrico Colombotto Rosso), Teatro
Sociale - Città Alta - Bergamo
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Da
alfonsopanzetta@libero.it. Quando penso all'idea assoluta
di Scultura, penso a un'arte difficile e fortemente comunicativa,
che ha la capacità di rapportarsi con chiunque attingendo ai
più profondi valori e sentimenti dell'uomo, ma anche l'unica
che stabilisce una relazione indissolubile con l'ambiente. Il momento
"primo" in cui una personalità artistica sente l'esigenza
e l'urgenza di creare nella tridimensionalità mi ha sempre
affascinato. A quale punto del tuo percorso espressivo, partito dalla
pittura, hai sentito l'esigenza della tridimensionalità?
Da
vannettacavallotti@alice.it. In verità ho iniziato
subito con la scultura, da autodidatta, copiando il ritratto in
bronzo che mio zio Lucio Ridenti aveva commissionato, intorno alla
metà degli anni Quaranta, allo scultore Umberto Mastroianni.
In quel periodo quest'ultimo viveva ancora a Torino e si esprimeva
con opere esclusivamente figurative ma poi, come mi raccontò
lui stesso, cambiò totalmente la sua espressione artistica
in seguito ad alcune riflessioni maturate dopo gli orrori della
seconda guerra mondiale.
Alla morte di mio zio nel febbraio del 1973 la sua biblioteca, comprendente
5.000 volumi di teatro sia antico sia contemporaneo, fu acquistata
dal Teatro Stabile di Torino che fondò il Centro Studi Lucio
Ridenti, attualmente molto attivo. Anche il ritratto in bronzo di
Mastroianni rischiava a quel punto di uscire definitivamente dalla
nostra casa e io, inaspettatamente per me e per la mia famiglia,
proposi di riprodurlo esattamente. Dico "inaspettatamente"
anche per me, in quanto non avevo alcuna nozione delle tecniche
della scultura, né immaginavo ancora le difficoltà
che avrei dovuto affrontare. Ero come spinta da un fuoco interiore
che, a mio parere, mi avrebbe permesso di superare l'inadeguatezza
della mia conoscenza e risolvere con l'intelligenza e la manualità
ogni problema del percorso. Il gesso, ottenuto dal modello originale
in creta, alla fine risultò talmente fedele che, avendolo
portato in visione allo stesso Mastroianni che in quel periodo teneva
un'importante mostra antologica alla Galleria d'Arte Moderna di
Torino, fui invitata entusiasticamente a proseguire in quella direzione,
cosa che feci con accanimento e passione.
Solo più tardi, temendo di non possedere le nozioni specifiche
idonee a migliorare i miei lavori, frequentai a Torino per molti
anni lo studio del pittore Pontecorvo, dove appresi, oltre a una
corretta esecuzione del disegno di nudo, le sue tecniche dell'acquerello
molto avanzate e originali come le stesure, le colature e le velature.
Queste nozioni mi hanno permesso di realizzare i Reliquiari
e i quadri che per molti anni hanno assorbito tutti i miei
interessi.
Nel 1985 in occasione della mostra alla galleria La Bussola di Torino
e alla Galleria Schubert di Milano dal titolo "L'Annunciazione",
tornai precipitosamente e prepotentemente alla scultura.
Dopo la realizzazione del ritratto di Lucio Ridenti eseguii i ritratti
dei miei bambini, che a quel tempo avevano rispettivamente 10, 6,
3 anni, e li feci fondere in bronzo. Portai le fotografie delle
opere a Roma da Mastroianni, come c'eravamo accordati in quel primo
incontro a Torino, e lui dopo averle esaminate m'invitò a
tralasciare la figurazione (ritratti ecc.) per iniziare un nuovo
percorso: un procedimento d'invenzione... "Cosa vuole dire
inventare?" - mi chiedevo pensierosa durante il mio rientro
in Piemonte.
L'opera "L'Annunciazione" è l'esempio della mia
prima invenzione. Una visione mentale trasformata in oggetto scultoreo,
quindi tridimensionale come le realtà oggettuali che ci circondano.
Credo che le mie sculture siano in primo luogo la visione mentale
di uno stato emotivo. La visione mentale, soprattutto se surreale,
deve essere rappresentata nel modo più veritiero possibile.
Il mio maestro Pontecorvo diceva che i surrealisti dovevano servirsi
di una tecnica ineccepibile, dal momento che volevano dar corpo
a contenuti inconsci. La stessa immagine realizzata in pittura dovrebbe
avvalersi di una menzogna, vale a dire della illusione ottica della
profondità mediante l'utilizzo dei chiaroscuri.
Io penso che alla base del mio bisogno inconscio di esprimermi soprattutto
con la scultura ci sia proprio l'esigenza imprescindibile della
verità di un oggetto che, pur presentandosi come oggetto
reale, si possa altresì oltrepassare con lo sguardo: che
imprigioni lo spettatore catturandolo al centro, ma nello stesso
tempo gli permetta di collocarlo nello spazio infinito delle reciproche
emozioni.
Potrei quindi rispondere alla tua domanda dicendo che il mio momento
"primo" sta proprio nella verità di ciò
che devo rappresentare... E quindi nell'etica rigorosa della verità
stanno anche i calchi effettuati sulla mia persona. Tuttavia non
vorrei tralasciare un altro elemento importante, che risiede esclusivamente
nell'aspetto più fisico dell'operare.
Se le considerazioni fin qui espresse si collocano nell'ambito di
motivazioni più o meno inconsce, è interessante esaminare
le gestualità necessarie all'arte, sia pittorica che plastica.
Nella pittura, a parte alcuni esempi di un'estrema fisicità
corporale che detta canoni linguistici irrinunciabili, la manualità
è legata a gesti pacati, soppesati, ripetitivi e anche statici.
Diversamente avviene nella scultura, dove l'esecuzione richiede
solitamente un contatto fisico con la materia, una manipolazione
anche sottilmente erotica (almeno nel modellato) e un legame di
forza antagonista tra il materiale inerte da plasmare (che ha una
sua memoria) e la volontà determinata dello scultore. Credo
anche in un rapporto d'odio e amore da parte di entrambi, materia
e scultore.
In ogni caso faccio parte di quegli scultori che non amano togliere,
ma piuttosto aggiungere e questo mi pare sia una modalità
caratteriale che distingue i vari scultori.
alfonsopanzetta@libero.it.
Contatto fisico, manipolazione della materia che sconfina
in erotismo sottile, mentale, quasi feticistico, sono tutte caratteristiche
del tuo creare che non sfuggono a un occhio attento. Questa tua
specificità/sensibilità però, diversamente
da come ci si aspetterebbe, non arriva a produrre lavori solo «belli»
nel senso più tradizionale del termine, quantopiuttosto opere
"forti" che "muovono" l'animo, che attingono
al profondo. Non mi pare di ricordare molte opere isolate, in qualche
modo "estemporanee": tu ragioni per cicli produttivi che
hanno la sintassi di un ragionamento. Chiarisci questa tua metodologia
creativa.
vannettacavallotti@alice.it.
Hai perfettamente ragione. Ho sempre lavorato per cicli e soltanto
in casi eccezionali ho prodotto opere svincolate dalla tematica
in atto. A volte si trattava di opere richieste per mostre collettive
a tema, il cui argomento era fonte di un'ispirazione che definirei
concettuale (anche se non posso mai prescindere da un'ispirazione
emotiva), oppure erano opere di transizione, pause tra un periodo
e l'altro.
Gli argomenti dei miei cicli produttivi hanno sempre attinto, come
dici tu, al profondo nella misura in cui io vengo esposta senza
pelle alle vicissitudini (dolorose e non) della vita, come
tutti d'altronde.
Poiché mi solleciti a ripercorrere mentalmente le tematiche
affrontate nell'arco dei miei trenta anni di lavoro, devo riconoscere
che tutte nascono da fortissime emozioni. Come se, non potendo contenerne
la forza interiore, fossi costretta a riportarle all'esterno trasformate
in oggetti tangibili e visibili, ovvero sculture...
Queste sculture sono appunto parti delle mie emozioni solidificate,
pietrificate, fissate nella rigidità del materiale come personaggi
teatrali che dopo aver rappresentato la loro parte non possono cambiare
ruolo. Mi piace pensare ai personaggi pirandelliani che sanno di
essere soltanto attori, ma nello stesso tempo non riescono più
a riappropriarsi della loro realtà quotidiana. D'altra parte
è doveroso puntualizzare che la passione per il teatro è
sempre stata una dominante di spicco nella mia infanzia. Fin dalla
più tenera età venivo condotta quasi ad ogni spettacolo
al Teatro Carignano a Torino, dove lo zio Lucio, data la sua posizione
culturale nella vita teatrale dell'epoca, aveva a sua disposizione
un palco fisso. Se vogliamo usare una metafora direi che i miei
cicli di produzione sono come delle pièces teatrali,
narrazioni dei miei sentimenti e delle mie emozioni e in tale guisa,
usando le parole di Freud, spero di operare in modo che "l'oggetto
del desiderio, occasionalmente nato da un affetto del presente,
trovi una connessione mnestica nel passato e si proietti nel futuro
e quindi che a ciascuno sia familiare l'aspetto straniante dell'opera
che guarda". |
Stupor
Mundi: un "retablo" ed altre storie, 1993 - Ex Chiesa
Della Maddalena, Bergamo
: |
alfonsopanzetta@libero.it.
In questa chiave pare che tu voglia dichiarare le opere che compongono
i tuoi "cicli" maggiori - e penso alle "Annunciazione",
alle "Claudel", alle "Latrinae", a quelle ispirate
a "Goldoni", fino ai recenti "Angeli" - quasi
esclusivamente come materializzazioni emozionali, tragici simulacri,
certamente teatralizzati, che attingono al dolore personale e interiore.
Non credi che, sia pur di fortissima presa emozionale, tale chiave
di lettura sia un po' limitativa per le tue opere? Penso anche ad
altri tuoi lavori, il ciclo dei "Vuoti a rendere", ad
esempio, o il precedente "Zoomorfismi" - fino all'originalissima
recente "Centaura". Opere che possiedono una loro bellezza
singolare e specifica: anche queste sono "dolorose"?
vannettacavallotti@alice.it.
Hai fatto bene a farmi notare le differenze che caratterizzano
i diversi cicli della mia produzione. Cercherò di spiegarmi
meglio.
Prima di tutto vorrei chiarire che tutte le considerazioni che faccio
oggi, dopo anni di lavoro, derivano da riflessioni maturate a posteriori
e mai pensate nel momento in cui ho prodotto effettivamente le opere.
Così come oggi, che ho in programma una mostra dedicata ai
bambini di Beslan, non so spiegare perché sento la necessità
di dedicare un anno intero di lavoro a quell'episodio terribilmente
cruento. Certamente non solo per le vittime, ma anche per i piccoli
sopravvissuti che hanno nella mente e negli occhi quella tragedia.
Altra deduzione è che i cicli maturano nell'arco di una produzione,
in genere nella realizzazione di una mostra, e terminano concludendosi
in maniera definitiva. Affrontato il tema da ogni angolazione, non
torno più sull'argomento, in quanto ritengo esaurito il periodo
magico della mia idea ispiratrice nella quale convergono simultaneamente
l'emozione e la ragione... Produrrei soltanto delle inutili e brutte
copie.
Se mi abbandono al ricordo dell'anno in cui realizzai, per esempio,
la mostra dedicata a Camille Claudel, anno terribilmente
doloroso in cui persi mia madre, devo specificare che l'emozione
ricevuta si tradusse in un'opera assolutamente irrazionale e neppure
a me spiegabile, se non negli aspetti tecnici voluti, quali la scelta
del materiale, la dimensione, il colore, il progetto in sé
insomma. Anche se sono convinta che sia il contenuto sia la forma
non sono separabili, anzi si influenzano reciprocamente a livello
inconscio.
Come tu giustamente scrivi, non tutti i cicli sono scaturiti da
forti emozioni dolorose. Le emozioni sono ovviamente di varia natura
e in alcuni casi niente affatto dolorose. Penso principalmente alle
"Casine" in fibra ottica, ai "Vuoti a rendere"
o agli "Zoomorfismi", dove l'aspetto ludico predomina
sullo stato melanconico che caratterizza generalmente il mio lavoro.
Inoltre, proprio per queste opere, porrei l'accento sul risvolto
ironico, sullo spaesamento volutamente accentuato, quasi un ammiccamento
empatico che stabilisce una sorta di complicità con lo spettatore.
Questa ultima è una modalità di comunicazione meno
aggressiva di quella che si crea con le sculture "dolorose".
alfonsopanzetta@libero.it.
Una delle prassi fondanti del tuo operare è certamente l'uso
del "calco", un approccio alla forma che ha origini antichissime
sia nella tecnica che nel significato simbolico. Nel contemporaneo,
l'utilizzo del calco è abbastanza frequente e certamente
non lo si può considerare una novità... Klein, Parmeggiani
ecc. lo hanno utilizzato in modo concettuale citando direttamente
dall'antico. Anche tu lo usi in modo totalmente concettuale, ma
l'approccio è completamente differente. È come se
tu fossi modella di te stessa, non mi pare di ricordare che tu abbia
mai fatto il calco di qualcun altro; questo è un aspetto
molto singolare e importante, certamente da approfondire e che forse
permette a te stessa di indagare nel tuo profondo.
vannettacavallotti@alice.it.
Allorché parliamo di "calco" non possiamo ignorare
la letteratura esistente su questa pratica antichissima. Infatti,
nel testo da te curato nel 1996 per L'Editore Allemandi, hai fatto
un esauriente excursus sull'uso che fin dall'antichità
ne hanno fatto i grandi scultori. Le intenzioni e gli scopi evidentemente
erano molto differenti da quelli che oggi sono i miei. Per gli antichi
era fondamentale che l'opera scultorea raffigurasse il vero, che
fosse simile al modello, così simile che a volte, e per alcuni
parti del corpo, si utilizzava appunto il calco su viventi. Ovviamente
l'opera era ricca del suo contenuto, ma l'aspetto formale, la manualità
artigianale erano le qualità che a quel tempo più
si apprezzavano.
Nel mio caso la veridicità, ovvero la riproduzione fedele
di un soggetto non è la condizione essenziale. E principalmente
nel contenuto che concentro il massimo della mia attenzione. Come
ho già detto all'inizio, la mia creatività si esprime
soprattutto attraverso le emozioni e attraverso la verità
della rappresentazione di queste emozioni. Come uno scatto fotografico
che riesce a catturare, in un attimo sospeso, il risvolto rapido
di un grande evento, la mia opera deve poter pietrificare, catturare
in un oggetto fisicamente tangibile ciò che non posso esprimere
a parole. È come se gridassi: "Sono io! Io... a brandelli!"
Frantumata, frazionata, strappata e mutilata in alcune delle mie
parti fisiche. La verità è nella postura del corpo,
nell'atteggiamento teatrale, nella superficie della pelle, nelle
sue imperfezioni, nei suoi pori, e nessun materiale scultoreo è
così fedele alla riproducibilità come il gesso.
Quando feci, all'inizio della mia attività, i ritratti dei
miei bambini, lavorando prima la creta e poi facendone la riproduzione
in gesso per la fusione in bronzo, scoprii la straordinaria duttilità
di questo materiale in grado di uniformarsi fedelmente a qualsiasi
superficie. Da allora è diventato il mio materiale d'elezione.
In alcune sculture particolarmente intense, - "Camille Claudel",
"L'Annunciazione", "Vanitas" (la seconda soprattutto)
- era fondamentale che fosse il mio corpo a dare forma alle emozioni,
per non svilirne forza e drammaticità con un modellato più
o meno fedele. Ecco dunque perché ho utilizzato il calco
soltanto sulla mia persona.
In altri casi invece ho prodotto sculture policrome modellate. Sono
ad esempio le figure maschili, gli "Angeli" o la "Centaura",
opere che prevedo di riprodurre anche in bronzo, dal momento che
il lavoro di modellato è più consono alla tecnica
della fusione.
Se da un lato la tecnica del calco è entusiasmante per i
tempi rapidi della lavorazione e per la stupefacente veridicità
del risultato ottenuto, il procedimento classico della scultura
che contempla il modellato in creta, il negativo e il positivo in
gesso ed eventualmente il bronzo, mi dà una gioia primordiale,
quella cioè di plasmare con le mani. Definirei queste ultimesculture
modellate come figure simboliche non riproducenti realtà
tangibili, ma espresse come pensieri affettivi.
Aggiungo
che nelle rare opere raffiguranti figure femminili intere, sempre
acefale, la parte centrale del corpo, ossia il seno, il ventre e
il fondo schiena, non appartiene a me, ma a un modello di scultura
classica che si ripete identico in molte opere. Come un simbolo
sessuale la cui identità non è determinante ai fini
del contenuto. Si potrebbe analizzare anche il significato più
recondito di questa scelta, anch'essa inconscia, ma preferisco non
avanzare ipotesi poiché questo approfondimento è di
natura intima.
alfonsopanzetta@libero.it.
Hai chiarito molto bene quale deve essere la chiave
di lettura del tuo lavoro... che è poi la tua singolare poetica.
Ormai non si parla quasi più di "poetica" per la
scultura contemporanea... ed è una lacuna certamente grave
e fuorviante, ma credo che gran parte della critica contemporanea
non se ne renda nemmeno conto, tutta presa com'è a valutare
(secondo me a iper valutare) la presunta originalità di lavori
singoli, dimenticando l`Uomo" nella sua essenza e nella sua
urgenza di comunicare. A parte alcuni, pochissimi, artisti davvero
concettuali, mi pare che nel nostro tempo vi siano in circolazione
soprattutto personalità alla ricerca dell'originalità
a tutti costi... produttori di "giochini" epigonali senza
futuro... se solo si fermassero un attimo a pensare a Duchamp o
a Piero Manzoni... forse cambierebbero mestiere. Ma tu cosa pensi
della scultura contemporanea?
vannettacavallotti@alice.it.
Mi viene in mente una frase che il mio maestro Pontecorvo soleva
dire a proposito della scultura: "Qualsiasi oggetto, anche
una forchetta alta 10 metri, può dare un'emozione... Ma la
forchetta non è propriamente una scultura... "; penso
a ciò tutte le volte che vedo realizzate opere di grandi
dimensioni.
Intendo dire che la forchetta o un altro oggetto simile spostato
dal suo luogo di origine e installato, tout court, in un
contesto museale, in un certo senso non aggiunge nulla a ciò
che Duchamp ci aveva già fatto osservare nella prima metà
del secolo scorso. Oggi di oggetti ready-made ne vediamo
uno sproposito... E a volte anche senza il famoso "concetto"
che è il contenuto essenziale del progetto artistico indirizzato
a quella visione.
Spesso, vista l'installazione privata del concetto, altro non resta
che prendere atto dell'oggetto, consumare l`opera" nell'arco
di una rapida visione e, nella maggior parte dei casi, dimenticarla.
Con questo non voglio dire che l'arte concettuale o l'arte povera
non abbiano prodotto opere importanti e significative, voglio dire
che oggi si tende a ripetere quelle esperienze che tanto hanno fruttato
alle gallerie, ai collezionisti, ai musei e agli epigoni modesti
e senza fantasia che perseverano in quella direzione. Ora, per tornare
alla scultura contemporanea, ritengo che dalla lezione di Duchamp
oggi non si possa più prescindere e che ogni opera scultorea,
anche figurativa, debba fare i conti con un' idea che parte dal
cervello o che, come soleva dire lo stesso Duchamp, non dia soltanto
un godimento "retinico". Potrei fare mie le sue parole:
"A me interessano le idee, non soltanto i prodotti visivi".
In conclusione posso affermare che, se da un lato l'idea sola, fine
e se stessa, non riesce a darmi l'emozione che normalmente mi aspetto
da un prodotto artistico (perché amo il manufatto che deriva
dal concetto di homo faber), dall'altra parte, parimenti,
solo la visone "retinica" senza l'idea, non mi soddisfa
sul piano intellettuale. Una scultura che rappresenta la realtà
anche mediante un'esecuzione molto elogiativa, ma che non esprime
un'idea intelligente trasferita in una dimensione metafisica, è
soltanto una buona esecuzione artigianale e, come l'espressione
artistica di cui sopra, si consuma nell'arco della sua visione.
In entrambi i casi si tratta di un'opera incompleta, che ritengo
inadeguata per il proseguimento della storia dell'arte dopo l'avvento
di Duchamp.
Secondo me tutta l'arte in generale, non solo quella scultorea,
deve lasciare nel fruitore uno spazio vuoto, immaginativo e riflessivo
nel tempo, uno spazio in grado di stimolare quelle domande insolute
alle quali neppure l'artista sa rispondere, ma che è suo
compito porre.
|
Teatro
dell'oggetto. Spazio per sei.Musica all'aperto, 1993 - Teatro Sociale
- Città Alta - Bergamo
: |
alfonsopanzetta@libero.it.
A questo punto, mi piacerebbe capire quali sono
gli artisti contemporanei che tu consideri maggiormente e perché,
ma anche quali sono quelli celebrati dalla critica e sui quali tu
non concordi. Giusto qualche esempio.
vannettacavallotti@alice.it.
Per risponderti devo chiarire alcuni punti fondamentali che riguardano
i miei pensieri sulla creazione artistica, personalissimi e quindi
esposti alle critiche di molti.
Sono stati scritti innumerevoli testi sulla funzione dell'arte,
su tutte le arti in genere: la musica, la poesia, la letteratura,
le arti visive, e non è questo il luogo per analizzare i
pensieri di chi, in modo più autorevole di me, si è
occupato di questo; ti espongo quindi brevemente il mio punto di
vista.
Io sono convinta che l'arte debba avere una funzione etica, una
tensione verso il bello e il bene. Verso il bello, perché
ha un debito intrinseco verso la funzione estetica (ma anche qui
ci sarebbe molto da puntualizzare); e verso il bene, perché
l'arte dovrebbe trascendere e sublimare la realtà, per quanto
negativa possa essere. Nei secoli è sempre stato così
e la nostra storia dell'arte è testimonianza di sforzi tesi
in questa direzione.
Questo non vuole dire che non si possa rappresentare il "male",
dal momento che la vita umana è complessa e ricca di contraddizioni,
ma che spetta all'artista il compito di rivisitarlo. Questa trasformazione
è operata dell'artista mediante la manualità, ovvero
con l'utilizzo della materia. Per chiarire meglio, artisti come
E. Bacon, o L. Freud o altri che esprimono i sentimenti più
angoscianti e dolorosi trasformano le emozioni disturbanti in un
oggetto estetico servendosi della tecnica pittorica, della pennellata
personalissima, del colore, delle tonalità dei chiari e scuri,
della luce ecc. e certamente non ci offrono soltanto una riproduzione
oggettiva della sofferenza. Ciò non avviene invece quando
si parte da un'idea soltanto concettuale e si utilizzano oggetti
già esistenti e presi a prestito. Esempi? A teatro hanno
ucciso un cavallo sul palcoscenico durante la rappresentazione,
in una piazza hanno appeso ad un albero tre bambini iperrealistici,
in un allestimento hanno riempito una enorme vasca di sangue d'animale
maleodorante... Esempi di questo tipo ne troviamo parecchi in questi
ultimi anni. Queste rappresentazioni non trasformano il concetto
del male in un pensiero superiore, rigenerativo. Denunciano e basta,
come purtroppo siamo oramai abituati a vedere in TV. Non vedo, in
queste azioni, il lato artistico che aspiri a riparare servendosi
del bello o del bene. La denuncia, in questo caso, non è
costruttiva, ma sterile e implosiva.
Molti critici, mercanti e simpatizzanti hanno dato risalto a queste
operazioni che hanno una loro importanza forse come esempi di comunicazione,
ma che non possono vantarsi di essere prodotti artistici. Come ho
detto precedentemente, l'arte si serve della manualità e
deve farlo per mantenere quel filo rosso che ci lega alla nostra
storia dell'arte. Chi è convinto che non si possa più
tornare indietro dopo le avanguardie storiche del secolo scorso
dovrebbe fare un giro negli studi di giovani pittori e scultori
che rivendicano il piacere di scolpire e di dipingere, coscienti
che c'è stato un momento di rottura dal quale tuttavia è
necessario ripartire. Per concludere, amo gli artisti che si riappropriano
del lavoro artigianale, che hanno la proprietà di trasformare
l'inconscio più nascosto, che conoscono i movimenti avanguardistici
del passato e li hanno superati, e che nel contemporaneo operano,
maturi e liberi delle loro scelte.
Coloro che continuano nei post di ogni genere, che offrono opere
esangui di invenzione e contenuto perché prive di idee, che
seguono i grandi carrozzoni utilitaristici dei critici e dei mercanti,
non destano il mio interesse.
alfonsopanzetta@libero.it.
Il tuo percorso artistico ed espositivo è stato certamente
ricco e importante, con mostre personali di grande impegno anche
in spazi pubblici, ma ora, nella fase della maturità, quali
sono le tue aspettative, i tuoi progetti per il futuro...
vannettacavallotti@alice.it.
La tua domanda mi suggerisce una riflessione che giunge opportuna,
proprio in questo momento che mi vede impegnata nella realizzazione
di due prossime mostre in Piemonte nel mese di settembre 2007.
Fino ad ora ti ho raccontato che i contenuti forti delle mie opere,
emozioni e sentimenti, a volte anche connotati da una spiccata ironia
(vedi il ciclo delle "Latrinae"), prendevano le mosse
esclusivamente da una dimensione privata, ovvero partendo dal mio
inconscio si proiettavano all'esterno e interloquivano con il fruitore
dell'opera in una reciproca identificazione. Questa relazione esiste
sempre nella visione di un'opera d'arte. Tuttavia, l'attuale momento
storico mi impone di considerare i cambiamenti della società.
Negli anni '70, ma anche in seguito, risentivo come altri degli
entusiasmi e delle ottimistiche prospettive esistenti in più
campi; oggi purtroppo la situazione è mutata. Ogni cambiamento
procura uno strappo con la condizione precedente e senza fare previsioni,
né in un senso né in un altro, posso solo prenderne
atto e riflettere. Parafrasando un pensiero espresso da teorici
e da filosofi che spartivano il pensiero umano contemporaneo in
"prima di Freud e dopo Freud", io continuerei con questa
frase: "Prima e dopo l' 11 settembre".
Questo per dirti che non ho dimenticato l'episodio e ora, a distanza
di anni, prendo in seria considerazione un progetto artistico che
tenga conto della solitudine e della disperazione di tanti individui
in tutte le latitudini.
Fra l'altro, come già accennato, ho in mente di realizzare
una mostra dedicata alla tragedia avvenuta nella scuola elementare
di Beslan. La mostra si terrà nella Casa Natale di Cesare
Pavese a Santo Stefano Belbo.
Nello stesso periodo allestirò nell'astigiano, e precisamente
nella bellissima Pieve romanica di San Lorenzo, una mostra dal titolo
"Via Crucis". Sto lavorando ad alcune sculture di grandi
dimensioni e a una serie di libriscultura, che seguiranno il perimetro
della Chiesa. Come vedi questo mio periodo creativo è influenzato
dagli avvenimenti sociali di questi anni e tento di trasferite nelle
mie opere le riflessioni da me maturate, spero senza troppo pessimismo.
Esattamente come nel caso delle due sculture realizzate per la mostra
da te curata "Vanitas vanitatum et omnia vanitas", una
visione sarà pessimistica, "La morte", ma l'altra
sarà ottimistica, "La resurrezione".
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