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1908-2008: L’apocalisse differita
Una riflessione sul terremoto di Messina condotta a cento anni
di distanza rischia di oscillare tra due opposti atteggiamenti:
l’ipocrita celebrazione fondata sull’ottimistico quanto
mistificante assunto che, per il solo fatto che il sisma può
essere rievocato, la città mostra ancor oggi una sua qualche
vitalità; ovvero lo sterile esercizio, tentazione costante
di una grossa fetta del ceto intellettuale locale, consistente nella
periodica recita di struggenti giaculatorie su una presunta “messinesità”
perduta, irrimediabilmente collassatasi a seguito dell’evento.
Forse, allora, conviene tentar di seguire strade nuove, che si tengano
distanti dagli atteggiamenti sopra richiamati. Una di queste potrebbe
consistere nell’applicare al sisma messinese le strategie
ermeneutiche di quella che è stata definita “antropologia
dei disastri”. Questa disciplina si fonda sullo studio dei
momenti di crisi nei sistemi sociali affinché essi aiutino
a comprenderne meglio la struttura e il funzionamento, mostrando
come gli aspetti socio-culturali di una data società influenzino
il disastro in ogni sua fase. Ciò comporta eleggere a chiave
di lettura della storia di Messina il rapporto della città
con i violenti terremoti che hanno storicamente punteggiato la sua
esistenza; tale rapporto ha finito col configurarsi come vero e
proprio orizzonte esistenziale, produttore di angoscia e di paure
ma anche veicolo di aspettative palingenetiche e di ideologie.
Oltre che dispiegare il proprio sforzo ermeneutico sui contesti
sociali, l’antropologia dei disastri presta molta attenzione
ai periodi antecedenti le catastrofi.
L’evento catastrofico viene infatti valutato come esito di
una lunga incubazione durante la quale un difetto di trasmissione
delle informazioni tra i vari livelli di un sistema determina un’obiettiva
situazione di rischio, destinata a sfociare prima o poi in un disastro.
Tale approccio, che tiene a vista gli aspetti “comunicativi”
del problema, può essere legittimamente esteso anche alle
fattispecie storico-antropologiche di un qualunque “campo
di rischio”, esaminandone le premesse.
Volgiamoci a considerare brevemente la città prima del sisma.
Messina si affaccia al XX secolo presentandosi come un centro che,
sebbene più volte provato da eventi distruttivi, è
di fatto aperto al futuro, investito come esso è da dinamiche
socio-economiche assai vivaci, tutte in qualche modo accomunate
dal commercio e dalla variegata attività lavorativa, produttiva,
artigianale che intorno vi si svolge attraverso una mirabile quanto
continua circolazione di merci tra la città e il proprio
entroterra rappresentato da una straordinaria cintura di villaggi
e paesi che costituiscono nel loro complesso un sistema satellitare
ricco di risorse per un agglomerato irrimediabilmente compresso
tra i Peloritani e lo Stretto. Va aggiunta a ciò la naturale
proiezione del sito in direzione del mare, cifra dominante e orizzonte
simbolico di rilevante pregnanza per i sistemi di rappresentazione
della comunità locale, la cui cultura riesce a conservare,
stratificati come in un palinsesto, i tratti quivi lasciati in eredità
da tutti i popoli che l’hanno attraversata, senza mai peraltro
possederla del tutto. Al di là di tale notazione, non è
agevole stabilire univocamente le direttrici lungo le quali è
venuto dispiegandosi, durante il XIX secolo, l’incessante
lavorio di produzione e riproduzione delle condizioni materiali
di esistenza da parte della comunità messinese. Ancorché
riferita a dinamiche di circolazione di modelli e di valori culturali
per un periodo circoscritto e in un’area assai più
vasta (l’Europa cinque-settecentesca) rimane valida anche
ai fini della nostra analisi la preziosa notazione di Carlo Ginzburg
(1980) secondo la quale
“cultura dominante e cultura popolare giocano una partita
ineguale, in cui i dadi sono truccati. Dato che la documentazione
riflette i rapporti di forza tra le classi di una società
data, le possibilità che la cultura popolare lasciasse una
traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui l’analfabetismo
era ancora così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto,
accettare i consueti criteri di verificabilità significa
esagerare indebitamente il peso della cultura dominante”.
La produzione ideologica dei ceti popolari messinesi perviene oggi
a noi dunque attraverso un ineludibile filtro storiografico. I rapporti
tra culture orali e civiltà della scrittura non sono mai
stati né pacifici né univoci, hanno spesso registrato
patteggiamenti e compromessi, ma di fatto la storia che ci perviene
è sempre stata scritta secondo i quadri di riferimento dei
ceti dominanti (K. Marx- F. Engels, L’Ideologia tedesca, 1846).
Ciò significa che i caratteri della cultura locale, per propria
natura veicolati da meccanismi incentrati sulla trasmissione orale,
o comunque non verbale come nel caso dei saperi della mano, fossero
fatalmente destinati a collassarsi in presenza di un fortissimo
trauma sociale e demografico quale fu di fatto il sisma. Allorquando
si disarticolarono i nessi che consentivano la trasmissione intergenerazionale
dei modelli culturali, la realtà che maggiormente risultarono
sofferenti e condannate alla residualità furono quelle la
cui persistenza era legata all’oralità, come i saperi
artigianali, le espressioni, le fabulazioni, le messe in forma di
fatti comunitari, tutto ciò che non avendo come proprio retroterra
una “civiltà della scrittura” si trovava ad esser
maggiormente esposto al rischio del collasso.
Quel che delle tradizioni popolari messinesi perviene a noi oggi
è costituito da quanto venne - meritoriamente - registrato
da una schiera di borghesi illuminati, cultori di storia patria
ed eruditi per diletto (Cannizzaro, Grosso Cacopardo, La Corte Cailler,
Arenaprimo, Puzzolo Sigillo ed altri) i quali riferivano della cultura
popolare del loro tempo con un rigore storico autoappagantesi dei
riscontri filologici ed archivistici ma quasi mai disposto a gettarsi
in medias res con la sensibilità antropologica che l’oggetto
dell’indagine richiedeva, e pertanto nella valutazione dei
fenomeni indagati lasciavano operare, sia pure inconsapevolmente
e in perfetta buona fede, i propri parametri culturali, quelli di
una borghesia al contempo liberale e conservatrice destinata ad
esser travolta e spazzata via dal Fascismo.
Spartiacque pregnante della storia messinese e delle tradizioni
che essa ha prodotto è dunque il terremoto del 1908, nella
sua duplice valenza di fenomeno sismico e di apocalisse culturale,
di evento che sconvolge repentinamente i parametri sociali consolidati
e sollecita la comunità tutta ad un intenso lavorio di rifondazione
dei propri orizzonti esistenziali.
E’ così avvenuto che a Messina le dinamiche mutamento-persistenza
siano state, da sempre, compresse e accelerate. Se ciò ha
rappresentato per un verso un rovinoso trauma culturale per la città,
ha d’altra parte consentito una più rapida e quasi
sincrona aderenza delle sovrastrutture alle strutture, nel senso
che le ideologie non si sono mai potute consolidare e attardare
più di tanto, travolte dall’improvviso mutamento degli
assetti urbanistici come di quelli comunitarî.
Tale fenomeno non è nuovo per la città. Lo si può
cogliere in diversi momenti della sua storia, dalla repressione
seguita alla rivolta antispagnola (1674-78) alla faticosa e mai
conclusa ricostruzione del secondo dopoguerra.
Esaminando a distanza di un secolo gli effetti del sisma, è
indubbio che a Messina le tradizioni popolari siano state il corpus
di saperi, di valori, di modelli culturali che più di ogni
altro ebbero a subire una sorta di mutazione a seguito dell’evento.
Morì infatti, o emigrò la più gran parte dei
naturali portatori di tale cultura, e non ebbe luogo un ricambio
che garantisse una “continuità nel mutamento”,
come invece avvenne per forme e tratti culturali espressi dalle
fasce medie e alte della borghesia.
Apparentemente il terremoto livellò, nel senso che i ceti
privilegiati avevano più da perdere, e di fatto persero di
più, rispetto ai ceti subalterni. Ma per entro tale processo
di livellamento, continuarono ovviamente a persistere dinamiche
di classe; chi aveva detenuto il potere, sia pure nella estrema
eccezionalità e precarietà del momento, aveva in pari
tempo tutti gli strumenti per rifondare il proprio mondo.
Come si ricostruisce una cultura? Senza dubbio attraverso una rifondazione
delle sue coordinate, del mondo materiale e del complessivo “système
des objets” che di quella cultura costituiscono il corpo e
l’orizzonte visibile, ma consistono soprattutto nel sistema
dei segni, nei parametri di riferimento e nella weltanschauung che
quella cultura esprime.
Il folklore, la somma di concezioni del mondo pertinenti i ceti
popolari che si cercò di far rinascere, furono di fatto quelle
edulcorate, funzionali a un certo assetto sociale, obbedienti al
mantenimento dello status quo e in ogni caso mai apertamente contestative
degli assetti egemoni.
Un’analisi della cultura popolare successiva al terremoto
sotto il profilo degli eventi cerimoniali e rituali mostra così
tutte le dinamiche proprie di una cultura “spuria” e
non “genuina” (E. Sapir), attraversata come essa ormai
era da spinte acculturative in cui mancavano corretti meccanismi
di bilanciamento tra mutamento e persistenza.
Le feste popolari, ad esempio, vennero progressivamente private
di qualsiasi connotazione di classe (nella fattispecie, quali dispositivi
di reintegrazione culturale basati sulla condivisione di una forte
esperienza comunitaria tra eguali) e sempre più ricondotte
a ben controllate strategie compensative di momenti critici dell’esistenza,
quando non a oculati tentativi di incanalare e disciplinare per
entro un alveo non eccentrico malesseri e tensioni sociali, trasformandoli
di fatto da elementi di rischio per l’ordine costituito in
efficaci occasioni di rafforzamento complessivo degli assetti sociali.
Anche quando la comunità messinese tornò a sfilare
attorno ai propri storici totem, come nel caso del cosiddetto “ripristino
delle feste di Mezzagosto” (1926), con la riproposizione di
un evento cerimoniale emozionalmente connotato come la processione
della Vara dell’Assunta, tale rito costituì, piuttosto
che il faticoso punto di partenza per una città che attendeva
alla costruzione di una nuova identità, l’esito di
una lucida strategia volta ad utilizzare la cifra festiva come instrumentum
regni, valevole soprattutto a compattare intorno a pregnanti emblemi
cittadini la variegata collettività messinese. E’ infatti
fuor di dubbio che la cultura di quegli anni ritenesse ben pochi
dei tratti preesistenti al terremoto, essendo la Messina della ricostruzione
formata da poche migliaia di messinesi e da una nuova popolazione
composta da maestranze, da operai edili, da militari, da funzionari
dello Stato venuti a gestire e pilotare i modi ed i tempi della
rinascita.
Di fatto, tale cultura era assai distante da quella che aveva connotato
la società messinese pre-terremoto. La mutazione demografica
cui ho già accennato aveva determinato un mescolamento di
microculture locali, ciascuna portatrice di ben determinati modelli,
norme, valori a volte estremamente diversificati all’interno
dei diversi gruppi che contribuirono a ripopolare Messina. Tale
mescolamento, che avrebbe forse potuto sortire nel tempo effetti
benefici sotto il profilo dell’integrazione e della sprovincializzazione
della città peloritana, ebbe nel presente un esito devastante
sulla residuale comunità ottocentesca, risultandone oltremodo
potenziate le dinamiche acculturative (e i relativi modelli culturali
importati a seguito di tali dinamiche) e viceversa mortificato l’ancoraggio
della città alle proprie radici.
C’è di più. Come ormai è stato accertato
dagli studiosi che si sono occupati della cultura popolare nella
Sicilia dell’Ottocento, il patrimonio di saperi e di ideologie
tradizionali, ancorché proprio dei ceti meno privilegiati,
circolava all’interno dell’intero corpo sociale e veniva
di fatto partecipato, con sfumature più o meno significative
di coerenza, anche dai ceti egemoni, che pur usufruendo di risorse
intellettuali, tecnologiche, patrimoniali affatto diverse e preponderanti,
non per ciò assorbivano meno - e praticavano meno - un complesso
di saperi, credenze, modelli e strategie che delineava molto più
dei saperi e dei modelli ufficiali l’identità dell’intero
corpo sociale, affondando le proprie radici in una storia plurimillenaria
(ad es., nel caso del cosiddetto ciclo dell’anno, addirittura
nel Neolitico). Anche per costoro, dunque, in qualche misura il
terremoto comportò una “fine del mondo”: una
classe dirigente che ha reciso (o si è visti recidere) i
legami, sotterranei ma non per ciò meno resistenti, con quell’alter
ego costituito dalla cultura popolare, una cultura praticamente
partecipata benché ideologicamente non condivisa, non può
che smarrire una parte della propria identità. Soppressa
l’anima popolare, rimane la cieca pratica di dominio, la consorteria
massonica ormai disarticolata da un plausibile genius loci, l’anodino
arrivismo politico, la logica da bestiame bovino della cultura di
massa, qui a Messina acritica quante altre mai e priva degli elementi
equilibratori e “democratici” che in altri contesti
hanno sortito forme di consapevolezza, da parte dei ceti borghesi,
della propria natura e dei propri destini.
Tale la storia della città nell’ultimo secolo: una
corsa sempre più frenetica verso lo status di non-luogo.
Com’è noto a qualcuno, è stato un antropologo
francese, Marc Augé, (Non-lieux, 1992) a coniare tale termine
per definire i luoghi banali che vengono vissuti o attraversati
senza investimento di senso. E tale è oggi, a me pare, il
senso comune dell’abitare la città: passo da qui o
sono costretto a occupare provvisoriamente questa porzione di spazio,
ma la mia cultura non si ritiene impegnata o coinvolta in alcun
lavorio di addomesticamento, di appaesamento, di costruzione di
un comune patrimonio di memorie. Augé attribuisce alla “surmodernità”
la produzione di nonluoghi antropologici, di spazi che non integrano
in sé i luoghi antichi. Pare dunque che Messina si sia mossa
per tempo in tale discutibile primato …
Urbanisticamente e antropologicamente, la logica del baraccamento
si è estesa all’intero tessuto cittadino. Nonché
eliminare le baracche, è stata l’ideologia delle baracche
ad egemonizzare gli spazi. Rientra in tale quadro anche la frenetica
pulsione a costruire e cementificare il territorio per accrescere
il peso immobiliare del clan politico o familiare.
Solo in un caso tale logica si era, miracolosamente, ribaltata nel
suo contrario, sortendo risultati che non è fuori luogo definire
utopici, se non evangelici: la straordinaria vicenda poetica, e
al contempo di lucida definizione simbolica degli spazi, che vide
il Cavaliere Giovanni Cammarata dispiegare nell’arco di alcuni
decenni un suo rigoroso progetto di bonifica di una zona rimossa
della (e dalla) città. Vero e proprio fiore nel letame, il
tentativo non poteva che spiacere, e spiacque, e cessò.
Cosa dunque consegnare alla riflessione in occasione di una verifica
epocale come questa che ci vede oggi impegnati? Forse un certo sconforto
e una certa amarezza, derivanti dal vivere una città un tempo
laboriosa, proiettata verso l’esterno, pronta alle sfide della
storia, consapevole di essere l’ombelico del Mediterraneo;
e oggi pigra, distratta, immersa in lugubri quanto sterili rituali
di apparenza e di potere, priva di volontà e di speranze.
Anche il pervicace ancoraggio a una tradizione come quella legata
al culto dell’Assunta, con la straordinaria performance della
Vara, non si traduce poi in passione civile, in comportamenti che
sostanzino le opere e i giorni della comunità. Quelli che
possono essere definiti i tratti della cultura tradizionale messinese
in grado di esprimere valenze antropologicamente apprezzabili sono
pertanto oggi da valutare alla stregua di relitti folklorici e di
cascami di un passato ormai di fatto privo di connessioni con la
città e con la gente che la abita.
La mutazione antropologica che ha avuto luogo nel nostro paese nel
corso degli ultimi cinquant’anni (la pasoliniana scomparsa
delle lucciole) ha colto Messina già gravemente indebolita
nella sua memoria storica e quindi pressoché incapace di
sviluppare al proprio interno, nei confronti di un divenire tanto
più frenetico quanto più anodino, i benefici anticorpi
che preservano dal contrarre la malattia propria di quelle che Lévi-Strauss
(Race et histoire, 1952; Entretiens, 1959) definiva le società
calde, sempre tese a consumare velocemente il proprio presente e
di fatto irrispettose delle proprie strutture profonde e impartecipi
del proprio telos culturale.
Se questa è la situazione, rimangono praticabili solo i retorici
ancoraggi a un passato del quale non si ha più bisogno o
le sterili fughe in avanti in cui l’ascesa de claritate in
claritatem, che preconizzava per l’umanità il buon
vecchio Croce, si rivela mero esercizio virtuale.
A meno che …..
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