Caffè Letterario
Pungitopo

Sergio Todesco



1908-2008: L’apocalisse differita

Una riflessione sul terremoto di Messina condotta a cento anni di distanza rischia di oscillare tra due opposti atteggiamenti: l’ipocrita celebrazione fondata sull’ottimistico quanto mistificante assunto che, per il solo fatto che il sisma può essere rievocato, la città mostra ancor oggi una sua qualche vitalità; ovvero lo sterile esercizio, tentazione costante di una grossa fetta del ceto intellettuale locale, consistente nella periodica recita di struggenti giaculatorie su una presunta “messinesità” perduta, irrimediabilmente collassatasi a seguito dell’evento.
Forse, allora, conviene tentar di seguire strade nuove, che si tengano distanti dagli atteggiamenti sopra richiamati. Una di queste potrebbe consistere nell’applicare al sisma messinese le strategie ermeneutiche di quella che è stata definita “antropologia dei disastri”. Questa disciplina si fonda sullo studio dei momenti di crisi nei sistemi sociali affinché essi aiutino a comprenderne meglio la struttura e il funzionamento, mostrando come gli aspetti socio-culturali di una data società influenzino il disastro in ogni sua fase. Ciò comporta eleggere a chiave di lettura della storia di Messina il rapporto della città con i violenti terremoti che hanno storicamente punteggiato la sua esistenza; tale rapporto ha finito col configurarsi come vero e proprio orizzonte esistenziale, produttore di angoscia e di paure ma anche veicolo di aspettative palingenetiche e di ideologie.
Oltre che dispiegare il proprio sforzo ermeneutico sui contesti sociali, l’antropologia dei disastri presta molta attenzione ai periodi antecedenti le catastrofi.
L’evento catastrofico viene infatti valutato come esito di una lunga incubazione durante la quale un difetto di trasmissione delle informazioni tra i vari livelli di un sistema determina un’obiettiva situazione di rischio, destinata a sfociare prima o poi in un disastro. Tale approccio, che tiene a vista gli aspetti “comunicativi” del problema, può essere legittimamente esteso anche alle fattispecie storico-antropologiche di un qualunque “campo di rischio”, esaminandone le premesse.
Volgiamoci a considerare brevemente la città prima del sisma. Messina si affaccia al XX secolo presentandosi come un centro che, sebbene più volte provato da eventi distruttivi, è di fatto aperto al futuro, investito come esso è da dinamiche socio-economiche assai vivaci, tutte in qualche modo accomunate dal commercio e dalla variegata attività lavorativa, produttiva, artigianale che intorno vi si svolge attraverso una mirabile quanto continua circolazione di merci tra la città e il proprio entroterra rappresentato da una straordinaria cintura di villaggi e paesi che costituiscono nel loro complesso un sistema satellitare ricco di risorse per un agglomerato irrimediabilmente compresso tra i Peloritani e lo Stretto. Va aggiunta a ciò la naturale proiezione del sito in direzione del mare, cifra dominante e orizzonte simbolico di rilevante pregnanza per i sistemi di rappresentazione della comunità locale, la cui cultura riesce a conservare, stratificati come in un palinsesto, i tratti quivi lasciati in eredità da tutti i popoli che l’hanno attraversata, senza mai peraltro possederla del tutto. Al di là di tale notazione, non è agevole stabilire univocamente le direttrici lungo le quali è venuto dispiegandosi, durante il XIX secolo, l’incessante lavorio di produzione e riproduzione delle condizioni materiali di esistenza da parte della comunità messinese. Ancorché riferita a dinamiche di circolazione di modelli e di valori culturali per un periodo circoscritto e in un’area assai più vasta (l’Europa cinque-settecentesca) rimane valida anche ai fini della nostra analisi la preziosa notazione di Carlo Ginzburg (1980) secondo la quale
“cultura dominante e cultura popolare giocano una partita ineguale, in cui i dadi sono truccati. Dato che la documentazione riflette i rapporti di forza tra le classi di una società data, le possibilità che la cultura popolare lasciasse una traccia di sé, sia pure deformata, in un periodo in cui l’analfabetismo era ancora così diffuso, erano molto ridotte. A questo punto, accettare i consueti criteri di verificabilità significa esagerare indebitamente il peso della cultura dominante”.
La produzione ideologica dei ceti popolari messinesi perviene oggi a noi dunque attraverso un ineludibile filtro storiografico. I rapporti tra culture orali e civiltà della scrittura non sono mai stati né pacifici né univoci, hanno spesso registrato patteggiamenti e compromessi, ma di fatto la storia che ci perviene è sempre stata scritta secondo i quadri di riferimento dei ceti dominanti (K. Marx- F. Engels, L’Ideologia tedesca, 1846).
Ciò significa che i caratteri della cultura locale, per propria natura veicolati da meccanismi incentrati sulla trasmissione orale, o comunque non verbale come nel caso dei saperi della mano, fossero fatalmente destinati a collassarsi in presenza di un fortissimo trauma sociale e demografico quale fu di fatto il sisma. Allorquando si disarticolarono i nessi che consentivano la trasmissione intergenerazionale dei modelli culturali, la realtà che maggiormente risultarono sofferenti e condannate alla residualità furono quelle la cui persistenza era legata all’oralità, come i saperi artigianali, le espressioni, le fabulazioni, le messe in forma di fatti comunitari, tutto ciò che non avendo come proprio retroterra una “civiltà della scrittura” si trovava ad esser maggiormente esposto al rischio del collasso.
Quel che delle tradizioni popolari messinesi perviene a noi oggi è costituito da quanto venne - meritoriamente - registrato da una schiera di borghesi illuminati, cultori di storia patria ed eruditi per diletto (Cannizzaro, Grosso Cacopardo, La Corte Cailler, Arenaprimo, Puzzolo Sigillo ed altri) i quali riferivano della cultura popolare del loro tempo con un rigore storico autoappagantesi dei riscontri filologici ed archivistici ma quasi mai disposto a gettarsi in medias res con la sensibilità antropologica che l’oggetto dell’indagine richiedeva, e pertanto nella valutazione dei fenomeni indagati lasciavano operare, sia pure inconsapevolmente e in perfetta buona fede, i propri parametri culturali, quelli di una borghesia al contempo liberale e conservatrice destinata ad esser travolta e spazzata via dal Fascismo.
Spartiacque pregnante della storia messinese e delle tradizioni che essa ha prodotto è dunque il terremoto del 1908, nella sua duplice valenza di fenomeno sismico e di apocalisse culturale, di evento che sconvolge repentinamente i parametri sociali consolidati e sollecita la comunità tutta ad un intenso lavorio di rifondazione dei propri orizzonti esistenziali.
E’ così avvenuto che a Messina le dinamiche mutamento-persistenza siano state, da sempre, compresse e accelerate. Se ciò ha rappresentato per un verso un rovinoso trauma culturale per la città, ha d’altra parte consentito una più rapida e quasi sincrona aderenza delle sovrastrutture alle strutture, nel senso che le ideologie non si sono mai potute consolidare e attardare più di tanto, travolte dall’improvviso mutamento degli assetti urbanistici come di quelli comunitarî.
Tale fenomeno non è nuovo per la città. Lo si può cogliere in diversi momenti della sua storia, dalla repressione seguita alla rivolta antispagnola (1674-78) alla faticosa e mai conclusa ricostruzione del secondo dopoguerra.
Esaminando a distanza di un secolo gli effetti del sisma, è indubbio che a Messina le tradizioni popolari siano state il corpus di saperi, di valori, di modelli culturali che più di ogni altro ebbero a subire una sorta di mutazione a seguito dell’evento.
Morì infatti, o emigrò la più gran parte dei naturali portatori di tale cultura, e non ebbe luogo un ricambio che garantisse una “continuità nel mutamento”, come invece avvenne per forme e tratti culturali espressi dalle fasce medie e alte della borghesia.
Apparentemente il terremoto livellò, nel senso che i ceti privilegiati avevano più da perdere, e di fatto persero di più, rispetto ai ceti subalterni. Ma per entro tale processo di livellamento, continuarono ovviamente a persistere dinamiche di classe; chi aveva detenuto il potere, sia pure nella estrema eccezionalità e precarietà del momento, aveva in pari tempo tutti gli strumenti per rifondare il proprio mondo.
Come si ricostruisce una cultura? Senza dubbio attraverso una rifondazione delle sue coordinate, del mondo materiale e del complessivo “système des objets” che di quella cultura costituiscono il corpo e l’orizzonte visibile, ma consistono soprattutto nel sistema dei segni, nei parametri di riferimento e nella weltanschauung che quella cultura esprime.
Il folklore, la somma di concezioni del mondo pertinenti i ceti popolari che si cercò di far rinascere, furono di fatto quelle edulcorate, funzionali a un certo assetto sociale, obbedienti al mantenimento dello status quo e in ogni caso mai apertamente contestative degli assetti egemoni.
Un’analisi della cultura popolare successiva al terremoto sotto il profilo degli eventi cerimoniali e rituali mostra così tutte le dinamiche proprie di una cultura “spuria” e non “genuina” (E. Sapir), attraversata come essa ormai era da spinte acculturative in cui mancavano corretti meccanismi di bilanciamento tra mutamento e persistenza.
Le feste popolari, ad esempio, vennero progressivamente private di qualsiasi connotazione di classe (nella fattispecie, quali dispositivi di reintegrazione culturale basati sulla condivisione di una forte esperienza comunitaria tra eguali) e sempre più ricondotte a ben controllate strategie compensative di momenti critici dell’esistenza, quando non a oculati tentativi di incanalare e disciplinare per entro un alveo non eccentrico malesseri e tensioni sociali, trasformandoli di fatto da elementi di rischio per l’ordine costituito in efficaci occasioni di rafforzamento complessivo degli assetti sociali. Anche quando la comunità messinese tornò a sfilare attorno ai propri storici totem, come nel caso del cosiddetto “ripristino delle feste di Mezzagosto” (1926), con la riproposizione di un evento cerimoniale emozionalmente connotato come la processione della Vara dell’Assunta, tale rito costituì, piuttosto che il faticoso punto di partenza per una città che attendeva alla costruzione di una nuova identità, l’esito di una lucida strategia volta ad utilizzare la cifra festiva come instrumentum regni, valevole soprattutto a compattare intorno a pregnanti emblemi cittadini la variegata collettività messinese. E’ infatti fuor di dubbio che la cultura di quegli anni ritenesse ben pochi dei tratti preesistenti al terremoto, essendo la Messina della ricostruzione formata da poche migliaia di messinesi e da una nuova popolazione composta da maestranze, da operai edili, da militari, da funzionari dello Stato venuti a gestire e pilotare i modi ed i tempi della rinascita.
Di fatto, tale cultura era assai distante da quella che aveva connotato la società messinese pre-terremoto. La mutazione demografica cui ho già accennato aveva determinato un mescolamento di microculture locali, ciascuna portatrice di ben determinati modelli, norme, valori a volte estremamente diversificati all’interno dei diversi gruppi che contribuirono a ripopolare Messina. Tale mescolamento, che avrebbe forse potuto sortire nel tempo effetti benefici sotto il profilo dell’integrazione e della sprovincializzazione della città peloritana, ebbe nel presente un esito devastante sulla residuale comunità ottocentesca, risultandone oltremodo potenziate le dinamiche acculturative (e i relativi modelli culturali importati a seguito di tali dinamiche) e viceversa mortificato l’ancoraggio della città alle proprie radici.
C’è di più. Come ormai è stato accertato dagli studiosi che si sono occupati della cultura popolare nella Sicilia dell’Ottocento, il patrimonio di saperi e di ideologie tradizionali, ancorché proprio dei ceti meno privilegiati, circolava all’interno dell’intero corpo sociale e veniva di fatto partecipato, con sfumature più o meno significative di coerenza, anche dai ceti egemoni, che pur usufruendo di risorse intellettuali, tecnologiche, patrimoniali affatto diverse e preponderanti, non per ciò assorbivano meno - e praticavano meno - un complesso di saperi, credenze, modelli e strategie che delineava molto più dei saperi e dei modelli ufficiali l’identità dell’intero corpo sociale, affondando le proprie radici in una storia plurimillenaria (ad es., nel caso del cosiddetto ciclo dell’anno, addirittura nel Neolitico). Anche per costoro, dunque, in qualche misura il terremoto comportò una “fine del mondo”: una classe dirigente che ha reciso (o si è visti recidere) i legami, sotterranei ma non per ciò meno resistenti, con quell’alter ego costituito dalla cultura popolare, una cultura praticamente partecipata benché ideologicamente non condivisa, non può che smarrire una parte della propria identità. Soppressa l’anima popolare, rimane la cieca pratica di dominio, la consorteria massonica ormai disarticolata da un plausibile genius loci, l’anodino arrivismo politico, la logica da bestiame bovino della cultura di massa, qui a Messina acritica quante altre mai e priva degli elementi equilibratori e “democratici” che in altri contesti hanno sortito forme di consapevolezza, da parte dei ceti borghesi, della propria natura e dei propri destini.
Tale la storia della città nell’ultimo secolo: una corsa sempre più frenetica verso lo status di non-luogo. Com’è noto a qualcuno, è stato un antropologo francese, Marc Augé, (Non-lieux, 1992) a coniare tale termine per definire i luoghi banali che vengono vissuti o attraversati senza investimento di senso. E tale è oggi, a me pare, il senso comune dell’abitare la città: passo da qui o sono costretto a occupare provvisoriamente questa porzione di spazio, ma la mia cultura non si ritiene impegnata o coinvolta in alcun lavorio di addomesticamento, di appaesamento, di costruzione di un comune patrimonio di memorie. Augé attribuisce alla “surmodernità” la produzione di nonluoghi antropologici, di spazi che non integrano in sé i luoghi antichi. Pare dunque che Messina si sia mossa per tempo in tale discutibile primato …
Urbanisticamente e antropologicamente, la logica del baraccamento si è estesa all’intero tessuto cittadino. Nonché eliminare le baracche, è stata l’ideologia delle baracche ad egemonizzare gli spazi. Rientra in tale quadro anche la frenetica pulsione a costruire e cementificare il territorio per accrescere il peso immobiliare del clan politico o familiare.
Solo in un caso tale logica si era, miracolosamente, ribaltata nel suo contrario, sortendo risultati che non è fuori luogo definire utopici, se non evangelici: la straordinaria vicenda poetica, e al contempo di lucida definizione simbolica degli spazi, che vide il Cavaliere Giovanni Cammarata dispiegare nell’arco di alcuni decenni un suo rigoroso progetto di bonifica di una zona rimossa della (e dalla) città. Vero e proprio fiore nel letame, il tentativo non poteva che spiacere, e spiacque, e cessò.
Cosa dunque consegnare alla riflessione in occasione di una verifica epocale come questa che ci vede oggi impegnati? Forse un certo sconforto e una certa amarezza, derivanti dal vivere una città un tempo laboriosa, proiettata verso l’esterno, pronta alle sfide della storia, consapevole di essere l’ombelico del Mediterraneo; e oggi pigra, distratta, immersa in lugubri quanto sterili rituali di apparenza e di potere, priva di volontà e di speranze.
Anche il pervicace ancoraggio a una tradizione come quella legata al culto dell’Assunta, con la straordinaria performance della Vara, non si traduce poi in passione civile, in comportamenti che sostanzino le opere e i giorni della comunità. Quelli che possono essere definiti i tratti della cultura tradizionale messinese in grado di esprimere valenze antropologicamente apprezzabili sono pertanto oggi da valutare alla stregua di relitti folklorici e di cascami di un passato ormai di fatto privo di connessioni con la città e con la gente che la abita.
La mutazione antropologica che ha avuto luogo nel nostro paese nel corso degli ultimi cinquant’anni (la pasoliniana scomparsa delle lucciole) ha colto Messina già gravemente indebolita nella sua memoria storica e quindi pressoché incapace di sviluppare al proprio interno, nei confronti di un divenire tanto più frenetico quanto più anodino, i benefici anticorpi che preservano dal contrarre la malattia propria di quelle che Lévi-Strauss (Race et histoire, 1952; Entretiens, 1959) definiva le società calde, sempre tese a consumare velocemente il proprio presente e di fatto irrispettose delle proprie strutture profonde e impartecipi del proprio telos culturale.
Se questa è la situazione, rimangono praticabili solo i retorici ancoraggi a un passato del quale non si ha più bisogno o le sterili fughe in avanti in cui l’ascesa de claritate in claritatem, che preconizzava per l’umanità il buon vecchio Croce, si rivela mero esercizio virtuale.
A meno che …..

   
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