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Gioco a nascondere
Quando comincia, quando finisce
il gioco non sappiamo, forse
era giorno... ma solo che dentro
o fuori è poco diverso,
dentro su trame di passaggi,
di corridoi, di scale, fuori
tra i vapori del giorno
sommerso e cascame di luna;
una misura flessibile e forte
veloce e cauta ci ha preso, ci porta
su per le rampe di scaloni,
via senza peso per anditi a volo –
e fuori sono i covoni, il pagliaio
il fieno che respira denso,
l’aria immota che tenta
dalle aiole verbena o datura...
e girano, tornano i viali
su fondi di tempi sospesi
fra sogno e memoria;
oscillare
elastico tra due piatti
di bilancia, uno verso le radici
del buio: le cantine, l’altro
in alto, in alto, dietro
la finestra che dà
sui tetti, ove senti vicine
la notte le stelle a guardare
(un crepitio!) e di giorno
si stendono piani rigati
di strade, ponti, rocche, fiumare
di vetro, lontani poggi, marine...
Se noi siamo figure
di specchio che un soffio conduce
senza spessore né suono
pure il mondo dintorno
non è fermo ma scorrente parete
dipinta, ingannevole gioco,
equivoco d’ombre e barbagli,
di forme che chiamano e
negano un senso – simile all’interno
schermo, al turbinio che ci prende
se gli occhi chiudiamo, perenne
vorticare in frantumi
veloci, riflessi, barlumi
di vita o di sogno
– e noi trascorriamo inerti spoglie
d’attimo in attimo, di flutto in flutto
senza che ci fermi il giorno
che sale o la luce che squadra le cose.
Ma il gioco
è nulla in sé, soltanto che ci rende
vigili al secondo e fa
che vibrino le fibre, i diaframmi celati
(favole di batticuore ai boschi,
d’inseguimenti, di dogane eluse)
scorriamo ai margini
di mobili ellissi, d’aeree spirali
ai pericoli che il buio
configura, e la casa
vive d’un respiro
diverso (non sapevamo
di tante curvature
in cui s’apre a proteggere)
oscura mormora, pende
immenso giroscopio,
palpita d’orientamenti
ignorati, si concentra, s’aggroviglia,
poi d’improvviso si distende in piani
esitanti, in fuggenti gallerie,
tetti morti ove il Vento
restò nascosto ed ha
sciami segreti ai fori, ai cannicci
e trae fievoli fiati dalle gravi travature,
scala a vite che sali
sali e spiri
come un fischio
in esili giri di correnti
d’aria,
terrazza su le tegole
che navighi le notti di maestrale;
ed ora alla ricerca
d’un punto ove lo spazio s’aggomitoli
che sia soltanto noi, ma un grido
spezza il cerchio, precipita lo spazio
di nuovo invade...
volti fittizi
di cartone o tessuto ai nascondigli
dalla mano incontrati ove li esplora,
fantocci a condizione
di buio e ingombri cadono sfiorati
e s’afflosciano in pieghe di tendaggi
privi d’osso e contorni ;
pertugi, sgabuzzini, ambienti
nascosti tra le quinte
dove monomania
di specchi in ombra accolse i sedimenti
d’epoche smorte, di fasi sbiadite,
che il riflusso dei giorni in un torpore
lasciò fuori del sole:
perplessa civetta di crino
in attesa d’un varco
non permesso nel vivo,
minorata suppellettile, cappello
forato, a tuba, ventagli,
soffietto che non sai piú respirare,
fronzoli di gale spettrali
o di lutti perenti che un filo
di ragno ancora tiene
al tempo grigio degli ingrandimenti
– dimenticata
fu nella boccia la medicina...
e sul torbo crepuscolo verdigno
si levarono branche vacillanti
dall’immonda palude, molli
efflorescenze a galla, fronde...
ma da queste congiure
di malsani fermenti
ove perdura l’impronta
d’un dubbio o memoria maligna
s’addensa forse la larva
d’un destino sinistro:
si leverà quando vorrà la Notte
assunta su le volte
e le vegliarde e i fusi
daranno il segno
sui pendoli, ai quadranti acherontei.
Ma questa scialbatura d’un istante
agli androni ove ingolfano le rampe
con gli imperi di gesso chi la dà?
Sospetto che la luna
lontana e avvolta pure non tralascia
gli infiltramenti oltre le mura e pone
lenta bozzoli di bambagia,
matasse di filamenti di umori
albi e lo sa
la gonna appesa nel sonno di canfora...
(sconfinamento è il suo cammino
ora che questo limbo
ha ridonato fluidità di origini)
molle pantomima che fai sorgere
dalle pareti le figure:
le tonache di cenere, le vane
panoplie, vezzi
moine che incorniciano
su volti centenari cuffie
piumate, pendagli di nere giade...
ancora un luccichio
di mica hanno su l’elitre
delle vizze libellule l’estinte
capigliature! – interminati
corridoi di lenzuola –
di mosci camici spioventi,
di vesti appese cui non è concesso
il corpo che le fa increspare
forse solo una maschera... bisnonne
impensate da scale d’anni,
scendono senza passi ora: fruscii,
blandizie che dànno il brivido, e pure
un senso familiare d’oltre il limite
(non hanno che una piega ed un riflesso)
E queste oscillazioni? Cerca
una sua fase il tempo, e se uno specchio
si svela ci riflette
come fummo o saremo; volti
trascorrono, cui diedero un contorno
l’ansia, l’ignoto... ora ci guardano
volti senza memoria né rilievo
– se non un guizzo – che sapemmo già
vita nel sole: simulacri
d’altri (o di noi?) che sono lontananze
irrimediate se li sfiori,
ed è l’impronta un esile risveglio
di dolore o incolpevole rimorso,
forme che la marea
fatue sospinse
tra fuggevoli lumi
verso l’orbita d’ombra
che ventila d’intorno...
ai fiocchi vizzi delle sete
pendono le chitarre,
remoto è il mondo, bigio, inafferrabile.
Ora è la volta delle stanze, dei luoghi che non
esistono, quelli che vengono su ad istanti, di sbie
go, e sono sempre dove si è cessato di guardare
o non si guarda ancora proiezioni e riflessi in un
prolungamento dello spazio vengono fuggevoli a
galla nei sogni del sonno o in quelli che scorrono
incessanti in noi e solo a momenti sentiamo: la
scala non cessa lassú al pianerottolo sotto il lucer
nale, s’apre sul muro la porta d’un altro apparta
mento - oh la scarsa luce dalle imposte accostate,
il respiro d’inchiostro disseccato, la polvere dei li
bri e del tarlo, i copia-lettere oppressivi - è il pa
rente di generazioni piú addietro mai esistito se
non forse in una fotografia (ch’era d’un altro!)
avvizzita.
Cosí una sera, spenti ancora i lumi, il coperchio
d’una stufa coi suoi trafori chiamò l’ingresso
d’una
fuga di stanze su la parete.
E il gioco si prolunga
e il gioco non ha fine,
al nascondiglio segue
subito scoprimento,
(bolle d’aria emergiamo
su per l’albe polari
del lucernale...) batte
leggero di nuovo nell’alto,
scivola nell’interno
penetrale, e sale attraversate
baluginanti di marmi
pendenti di cristalli
o di sibille assorte
nei manti dei portali,
girano come chiatte
sovra il perno dell’ombra,
(uno spettro di stagnola
al gesto d’un fanale
striscia si frange è spento)
slungati a dismisura
sotto un divano sorgiamo
nastro esiguo, non visti
sentiamo come i morti,
o come la foglia grande
triangolare che sbuca
dai velari dell’aria
(convergenti occhi di vuoto
bocca d’un taglio)
che gira sospesa un momento
gira guarda e dispare,
e il passo è sempre piú
veloce, tutt’uno con le pareti
col respiro polveroso
dei tappeti, scorre l’inafferrata
farandola, la ridda
vana che non ha centro,
e quello ch’era
strillo di gioco ora è terrore...
di minuto in minuto
s’attende che dal muto
sbadiglio dello stipo
socchiuso si levi l’archetto
del nero contrabasso...
Ma in questa fuga dal mondo illusorio
ch’eludere vuole lo spazio
in alto, in alto s’è disciolto un nodo
di limpidi astri che teneva ascoso
il nuvolame, e splende e oscilla:
una dolce lampada di riposo
brucia ancora per noi sul promontorio?
Plumelia
L’arbusto che fu salvo dalla guazza
dell’invernata scialba
sul davanzale innanzi al monte
crespo di pini e rupi – più tardi, tempo
d’estate, entra l’aria pastorale
e le rapisce il fresco la creta
grave di fonte – nelle notti
di polvere e calura
ventosa, quando non ha più voce
il canale riverso, smania
la fiamma del fanale
nel carcere di vetro e l’apertura
sconnessa – la plumelia bianca
e avorio, il fiore
serbato a gusci d’uovo su lo stecco,
lascia che lo prenda
furia sitibonda
di raffica cui manca
dono di pioggia,
pure il rovo ebbe le sue piegature
di dolcezza, anche il pruno il suo candore.
Non fu come credevi...
Non fu come credevi per lo scatto
del giorno innanzi che aveva turbato
la pianta gracile troppo sensitiva.
Per altro fu il singhiozzo subito:
forse l’eco risorta
d’una storia dolente;
ma certo in me s’apriva
tremenda ed umile
la voce che da sempre dura
e che ci lega, ognuno
di noi, al dolore d’ognuno anche ignorato.
Poi viene calma, e il riposo
al tuo riparo. Su la rena
onda dopo onda la marina lontana
forse suona una notte
in cui riemergono dalle profondità
sull’errante pianura
le luci fuggitive dei tesori
che i navigli salpati alle speranze
dell’Isole Felici
dispersero sull’acque.
La seta
Fatica nostrana nei giorni involati
la seta: le veglie all’interno
tepore, le foglie del gelso brucatc
dalle torpenti farfalle ai cannicci.
Sospesa alla trave la falce
d’incanto, il crescente
e l’aria grave di fiati rurali,
d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana...
ma se la prendi con mano
che un poco trema
e la spieghi e la stendi
è una fontana nel vento e nel sole.
Vie del silenzio
Vie del silenzio: su plaga lontana
di cielo quando in fuochi il giorno avanza
fugge remoto pur nella speranza
che non lo colga volo di campana.
Poi lento scende nella meridiana
sosta ed a filo della lontananza
lascia che giunga esile risonanza
marina d’onde o trillo di fontana.
Cerca ginestre e timi e sull’estrema
altura della valle anche gli piace
che gli sfiorino il volto echi di flauti.
Va nella notte con i passi cauti
all’accesa lanterna e sulla brace
soffia dei sogni che riluce e trema.
(Plumelia, la seta, il raggio verde e altre poesie, Libri
Scheiwiller, 2001) |