|
|
Acculturazione e acculturazione da Sfida
ai dirigenti della televisione. “Corriere della sera”
9 dicembre 1973.
Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi
dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata
fuori dal Centro «cattivo» nelle periferie «buone»
(viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia,
senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti
ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza, ci fosse,
esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro
che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle
quali – appunto fino a pochi anni fa – era assicurata
una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più
povere e addirittura miserabili.
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò
che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il
fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però
restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine,
sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi
ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere
la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione
ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata.
I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è
compiuta. Si può dunque affermare che la « tolleranza
» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è
la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è
potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni,
interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle
infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni.
Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito
la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la
rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora
più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il
Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così
storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ida cominciato
un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità
e concretezza. Ha imposto cioè come dicevo – i suoi
modelli : che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione,
la quale non si accontenta più di un « uomo che consuma
», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che
quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico
di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.
L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come
si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente
l’unico fenomeno culturale che « omologava » gli
italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo
fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo
di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche
anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente
di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna
proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che
avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende,
vanno ancora a messa la domenica : in macchina). Gli italiani hanno
accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione
impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere
(o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono
davvero in grado di realizzarlo?
No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la
caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così
minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansa nevrotica
sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari,
fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano
della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare
di analfabeti in possesso però del mistero della realtà.
Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i « figli di papà
», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando
erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano
a vergognarsi della propria ignoranza : hanno abiurato dal proprio
modello culturale. (i giovanissimi non lo ricordano neanche più,
l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano
di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi
sottoproletari – umiliati – cancellano nella loro carta
d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo
con la qualifica di « studente ». Naturalmente, da quando
hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato
anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese,
che essi hanno sùbito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso,
il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello «
televisivo » – che, essendo la sua stessa classe a creare
e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene
stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti,
i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono,
essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce
al vecchio « uomo » che è ancora in loro di svilupparsi.
Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle
facoltà intellettuali e morali.
La responsabilità della televisione, in tutto questo, è
enorme. Non certo in quanto « mezzo tecnico », ma in
quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è
soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è
un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa
concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove
collocare. È attraverso lo spirito della televisione che
si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.
Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione
sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione
al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans
mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto
a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato
sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo
italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione
e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha
scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre...
da Scritti Corsari, ed. Garzanti
|
|
Marzo 1974. Vuoto di carità,
vuoto di cultura. Un linguaggio senza origini
Il Concordato della Chiesa col Fascismo è stata una cosa
molto grave, allora, al momento di quella firma che fu una bestemmia
al cospetto di Dio: ma è molto più grave oggi…
Il Concordato, ancora vigente, tra la Chiesa e lo Stato post-fascista
è dunque una pura e semplice alleanza di potere…
C’era l’immensa mandria del popolo (ancora ripeto, classicamente
religioso) che andava governato e tenuto in mano. Ma, presumiamo
nella Chiesa la buona fede, e interpretiamo il suo abbietto patto
coi fascisti come un modo per restare solidale con quel popolo ormai
sfruttato e affamato. Oggi la Famiglia non è più –
quasi di colpo –– quel « nucleo », minimo,
originario, cellulare dell’economia contadina com’era
stata per migliaia di anni. Di conseguenza, per un contraccolpo
perfettamente logico, la Famiglia ha cessato anche di essere il
« nucleo » minimo della Chiesa.
Che cos’è, oggi, la Famiglia? Dopo aver rischiato,
praticamente, di dissolvere se stessa e il proprio doppio mito economico-religioso
– secondo le previsioni progressiste degli intellettuali laici
– oggi la Famiglia è tornata a essere una realtà
più solida, più stabile, più accanitamente
privilegiata di prima. È vero che, per esempio, per quanto
riguarda l’educazione dei figli, le influenze esterne sono
enormemente aumentate (tanto, ripeto, che a un certo punto si è
pensato a una definitiva risistemazione pedagogica, del tutto fuori
dalla Famiglia). Tuttavia la Famiglia è tornata a diventare
quel potente e insostituibile centro infinitesimale di tutto che
era prima. Perché? Perché la civiltà dei consumi
ha bisogno della famiglia. Un singolo può non essere il consumatore
che il produttore vuole. Cioè può essere un consumatore
saltuario, imprevedibile, libero nelle scelte, sordo, capace magari
del rifiuto: della rinuncia a quell’edonismo che è
diventato la nuova religione. La nozione di « singolo »
è per sua natura contraddittoria e inconciliabile con le
esigenze del consumo. Bisogna distruggere il singolo. Esso deve
essere sostituito (com’è noto) con l’uomo-massa.
La famiglia è appunto l’unico possibile « exemplum
» concreto di « massa ». È in seno alla
famiglia che l’uomo diventa veramente consumatore prima per
le esigenze sociali della coppia, poi per le esigenze sociali della
famiglia vera e propria.
Dunque, la Famiglia (riscriviamola con la maiuscola) che per tanti
secoli e millenni era stata lo « specimen » minimo,
insieme, della economia contadina e della civiltà religiosa,
ora è diventata lo « specimen » minimo della
civiltà consumistica di massa.
La Chiesa nel suo rigido (e irreligioso) praticismo, e nel suo trionfalistico
ottimismo escatologico (quel Fine che orrendamente ha giustificato
nella sua storia tutti i mezzi) ignora questa sostanziale trasformazione
della Famiglia : ciò di cui essa prende atto è il
solito atto formale: cioè che la Famiglia sussiste (dopo
aver rischiato di scomparire, in un diverso «sviluppo»,
di carattere umanistico, laico, marxista) ed è estremamente
importante. Che cosa ha a che fare con la Religione una Famiglia
intesa come « Base » della vita di un mondo totalmente
industrializzato, la cui unica ideologia è un neo-edonismo
completamente materialistico e laico, nel senso più stupido
e passivo di questi termini? Il rapporto completamente esteriore,
calcolato, formale (e grettamente pietistico) della Chiesa con tale
nuovo tipo di Famiglia, può essere esaminato sotto vari aspetti
e su vari piani. I1 punto di vista del problema del divorzio (col
quale la Sacra Rota si è messa cinicamente in competizione)
è uno dei tanti punti di vista con cui il rapporto della
Chiesa con la Famiglia può essere analizzato.
Quanto a me posso dire che queste Sentenze della Sacra Rota mi hanno
scandalizzato. Ma sia chiaro : non per la loro aberrazione morale
e politica, il loro strisciante servilismo verso i tradizionali
alleati (uomini di potere democristiani e fascisti), non per l’aria
dell’imbroglio, dell’intrallazzo, dell’ipocrisia,
della malafede, dell’untuosità, del privilegio che
mai come qui appaiono in tutta la loro ripugnante evidenza. Esse
mi hanno scandalizzato per due ragioni che potrebbero essere piuttosto
definite culturali che moralistiche.
Primo: l’assenza totale di ogni forma di Carità. Alla
Fede e alla Speranza c’è qualche raro accenno puramente
formale e verbale: anzi per la verità ci si occupa di esse
solo nei formulari, del resto stranamente rapidi e laconici. La
sacerdotalità di tali accenni fugaci e cinicamente sbrigativi
accomuna queste sentenze ai più ottusi e ufficiali rotoli
di qualsiasi classe sacerdotale al potere. E va bene. Ma l’assenza
totale di Carità, nell’esaminare casi in cui essa sarebbe
per definizione essenziale, non può apparirci come un fatto
prevedibile e normale. Essa è una offesa brutale a quella
dignità umana che non viene nemmeno presa in considerazione.
L’esperienza umana su cui queste sentenze si fondano nell’esaminare
i casi è perfettamente irreligiosa : il pessimismo del suo
pragmatismo è senza fondo. La vita interiore degli uomini
è ridotta a mero calcolo e miserabile riserva mentale: a
cui si aggiungono, naturalmente, le azioni, ma nella loro pura nudità
formale.
Seconda ragione di scandalo : l’assenza totale di ogni forma
di Cultura. Gli estensori di queste sentenze sembrano non conoscere
altro che gli uomini – visti in un orribile intrico di azioni
dettate da sentimenti bruti o da infantili interessi – ché,
quanto a libri, essi sembrano conoscere solo quelli di diritto canonico
e San Tommaso.
Se per caso si occupano di « problemi culturali » (in
una di queste sentenze si parla per esempio di dannunzianesimo)
lo fanno come se i problemi culturali fossero dei «fatti»,
cioè perfettamente pragmatizzati dal loro valore pubblico
e sociale. Inoltre, se esaminati linguisticamente e stilisticamente,
i testi di queste sentenze non ricordano nulla e nessuno. Il loro
latino pare imparato direttamente da una grammatica che riporti
come esempi brani di autori ritagliati in modo del tutto insignificante.
A proposito dei testi di tali sentenze, infatti, non si potrebbe
fare alcuna citazione. Non sarebbe possibile alcuna esegesi. Esse
sembrano nascere da se stesse. L’interpretazione puramente
pragmatica (senza Carità) delle azioni umane deriva dunque
in conclusione da questa assenza di cultura : o perlomeno da questa
cultura puramente formale e pratica. Tale assenza di cultura diviene
anch’essa a sua volta offensiva della dignità dell’uomo
quando essa si manifesta esplicitamente come disprezzo della cultura
moderna, e altro non esprime dunque che la violenza e l’ignoranza
di un mondo repressivo come totalità.
da Scritti Corsari, ed. Garzanti |
|
|