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Chiudiamo le scuole
Diffidiamo de’ casamenti di grande superficie, dove molti
uomini si rinchiudono o vengon rinchiusi. Prigioni, Chiese, Ospedali,
Parlamenti, Caserme, Manicomi, Scuole, Ministeri, Conventi. Codeste
pubbliche architetture son di malaugurio: segni irrecusabili di
malattie generali. Difesa contro il delitto – contro la morte
– contro lo straniero – contro il disordine –
contro la solitudine – contro tutto ciò che impaurisce
l’uomo abbandonato a sè stesso: il vigliacco eterno
che fabbrica leggi e società come bastioni e trincee alla
sua tremebondaggine.
Vi sono sinistri magazzini di uomini cattivi – in città
e in campagna e sulle rive del mare – davanti a’ quali
non si passa senza terrore.
Lì son condannati al buio, alla fame, al suicidio, all’immobilità,
all’abbrutimento, alla pazzia, migliaia e milioni di uomini
che tolsero un po’ di ricchezza a’ fratelli più
ricchi o diminuirono d’improvviso il numero di questa non
rimpiangibile umanità. Non m’intenerisco sopra questi
uomini ma soffro se penso troppo alla loro vita – e alla qualità
e al diritto de’ loro giudici e carcerieri. Ma per costoro
c’è almeno la ragione della difesa contro la possibilità
di ritorni offensivi verso qualcun di noialtri.
Ma cosa hanno mai fatto i ragazzi, gli adolescenti, i giovanetti
e i giovanotti che dai sei fino ai dicci, ai quindici, ai venti,
ai ventiquattro anni chiudete tante ore del giorno nelle vostre
bianche galere per far patire il loro corpo e magagnare il loro
cervello? Gli altri potrete chiamarli – con morali e codici
in mano – delinquenti ma quest’altri sono, anche per
voi, puri e innocenti come usciron dall’utero delle vostre
spose e figliuole. Con quali traditori pretesti vi permettete di
scemare il loro piacere e la loro libertà nell’età
più bella della vita e di compromettere per sempre la freschezza
e la sanità della loro intelligenza?
Non venite fuori colla grossa artiglieria della rettorica progressista:
le ragioni della civiltà, la educazione dello spirito, l’avanzamento
del sapere...
Noi sappiamo con assoluta certezza che la civiltà non c venuta
fuor dalle scuole e che le scuole intristiscono gli animi invece
di sollevarli e che le scoperte decisive della scienza non son nate
dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata
e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola
o non v’insegnavano.
Sappiamo egualmente e con la stessa certezza che la scuola, essendo
per sua necessiti formale e tradizionalista, ha contribuito spessissimo
a pietrificare il sapere e a ritardare con testardi ostruzionismi
le più urgenti rivoluzioni e riforme intellettuali.
Soltanto per caso e per semplice coincidenza – raccoglie tanta
di quella gente! – la scuola può essere il laboratorio
di nuove verità.
Essa non è, per sua natura, una creazione, un’opera
spirituale ma un semplice organismo e strumento pratico. Non inventa
le conoscenze ma si vanta di trasmetterle. E non adempie bene neppure
a quest’ultimo ufficio – perché le trasmette
male o trasmettendole impedisce il più delle volte, disseccando
e storcendo i cervelli ricevitori, il formarsi di altre conoscenze
nuove e migliori.
Le scuole, dunque, non son altro che reclusori per minorenni istituiti
per soddisfare a bisogni pratici e prettamente borghesi.
Quali?
Per i genitori, nei primi anni, sono il mezzo più decente
per levarsi di casa i figliuoli che danno noia. Più tardi
entra in ballo il pensiero dominante della “posizione”
e della “carriera”.
Per i maestri c’è soprattutto la ragione di guadagnarsi
pane, carne e vestiti con una professione ritenuta “nobile”
e che offre, in più, tre mesi di vacanza l’anno e qualche
piccola beneficiata di vanità. Aggiungete a questo la sadica
voluttà di potere annoiare, intimorire e tormentare impunemente,
in capo alla vita, qualche migliaio di bambini o di giovani.
Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le
vogliono e perché lui stesso, avendo bisogno tutti gli anni
di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo
suo e sceglierli sulla fede di certificati da lui concessi senza
noie supplementari di vagliature più faticose.
Aggiungete che sulle scuole ci mangiano ispettori, presidi, bidelli,
preparatori, assistenti, editori, librai, cartolai e avrete la trama
completa degli interessi tessuti attorno alle comunali e regie e
pareggiate case di pena.
Nessuno – fuorché a discorsi – pensa al miglioramento
della nazione, allo sviluppo del pensiero e tanto meno a quello
cui si dovrebbe pensar di più: al bene dei figliuoli.
Le scuole ci sono, fanno comodo, menano a qualche guadagno: ficchiamoci
maschi e femmine e non ci pensiamo più.
L’uomo, nelle tre mezze dozzine d’anni decisive nella
sua vita (dai sei ai dodici, dai dodici ai diciotto, dai diciotto
ai ventiquattro), ha bisogno, per vivere, di libertà.
Libertà per rafforzare il suo corpo e conservarsi la salute,
libertà all’aria aperta: nelle scuole si rovina gli
occhi, i polmoni, i nervi (quanti miopi, anemici e nevrastenici
posson maledire giustamente le scuole e chi l’ha inventate!)
Libertà per svolgere la sua personalità nella vita
aperta dalle diecimila possibilità, invece che in quella
artificiale e ristretta delle classi e dei collegi.
Libertà per imparare veramente qualcosa perché non
s’impara nulla d’importante dalle lezioni ma soltanto
dai grandi libri e dal contatto personale colla realtà. Nella
quale ognuno s’inserisce a modo suo e sceglie quel che gli
è più adatto invece di sottostare a quella manipolazione
disseccatrice e uniforme ch’è l’insegnamento.
Nelle scuole, invece, abbiamo la reclusione quotidiana in stanze
polverose piene di fiati – l’immobilità fisica
più antinaturale – l’immobilità dello
spirito obbligato a ripetere invece che a cercare – lo sforzo
disastroso per imparare con metodi imbecilli moltissime cose inutili
– e l’annegamento sistematico di ogni personalità,
originalità e iniziativa nel mar nero degli uniformi programmi.
Fino a sei anni l’uomo è prigioniero di genitori, di
bambinaie o d’istitutrici; dai sei ai ventiquattro è
sottoposto a genitori e professori; dai ventiquattro è schiavo
dell’ufficio, del caposezione, del pubblico e della moglie;
tra i quaranta e i cinquanta vien meccanizzato e ossificato dalle
abitudini (terribili più d’ogni padrone) e servo, schiavo,
prigioniero, forzato e burattino rimane fino alla morte.
Lasciateci almeno la fanciullezza e la gioventù per godere
un po’ d’igienica anarchia!
L’unica scusa (non mai bastante) di tale lunghissimo incarceramento
scolastico sarebbe la sua riconosciuta utilità per i futuri
uomini. Ma su questo punto c’è abbastanza concordia
fra gli spiriti più illuminati. La scuola fa molto più
male che bene ai cervelli in formazione.
Insegna moltissime cose inutili, che poi bisogna disimparare per
impararne molte altre da sé.
Insegna moltissime cose false o discutibili e ci vuoi poi una bella
fatica a liberarsene – e non tutti ci arrivano.
Abitua gli uomini a ritenere che tutta la sapienza del mondo consista
nei libri stampati.
Non insegna quasi mai ciò che un uomo dovrà fare effettivamente
nella vita, per la quale occorre poi un faticoso e lungo noviziato
autodidattico.
Insegna (pretende d’insegnare) quel che nessuno potrà
mai insegnare: la pittura nelle accademie; il gusto nelle scuole
di lettere; il pensiero nelle facoltà di filosofia; la pedagogia
nei corsi normali; la musica nei conservatori.
Insegna male perché insegna a tutti le stesse cose nello
stesso modo e nella stessa quantità non tenendo conto delle
infinite diversità d’ingegno, di razza, di provenienza
sociale, di età, di bisogni ecc.
Non si può insegnare a più d’uno. Non s’impara
qualcosa dagli altri che nelle conversazioni a due, dove colui che
insegna si adatta alla natura dell’altro, rispiega, esemplifica,
domanda, discute e non detta il suo verbo dall’alto.
Quasi tutti gli uomini che hanno fatto qualcosa di nuovo nel mondo
o non sono andati mai a scuola o ne sono scappati presto o sono
stati “cattivi” scolari.
(I mediocri che arrivano nella vita a fare onorata e regolare carriera
e magari a raggiungere una certa fama sono stati spesso i “primi”
della classe.)
La scuola non insegna precisamente quello di cui si ha più
bisogno: appena passati gli esami e ottenuti i diplomi bisogna rivomitare
tutto quel che s’è ingozzato in quei forzati banchetti
ricominciare da capo.
Vorrei che i nostri dottori della legge, per i quali la scuola è
il tempio delle nuove generazioni e i manuali approvati sono i sacri
testamenti della religion pedantesca, leggessero almeno una volta
il saggio di Hazlitt sull’Ignoranza delle persone istruite,
che comincia così: «La razza di gente che ha meno idee
è formata da quelli che non son altro che autori o lettori.
È meglio non saper né leggere né scrivere che
saper leggere e scrivere, e non esser capaci d’altro».
E più giù: «Chiunque è passato per tutti
i gradi regolari d’una educazione classica e non è
diventato stupido, può vantarsi d’averla scappata bella».
Credo che pochissimi potrebbero – se sapessero giudicarsi
da sé – vantarsi di una tal resistenza. E basta guardarsi
un momento attorno e vedere quale sia la media intelligenza de’
nostri impiegati, dirigenti, maestri, professionisti e governanti
per convincersi che Hazlitt ha centomila ragioni. Se c’è
ancora un po’ d’intelligenza nel mondo bisogna cercarla
fra gli autodidatti o fra gli analfabeti.
La scuola è così essenzialmente antigeniale che non
ristupidisce solamente gli scolari ma anche i maestri. Ripeti e
ripeti anni dopo anni le medesime cose, diventano assai più
imbecilli e immalleabili di quel che fossero al principio –
e non è dir poco.
Poveri aguzzini acidi, annoiati, anchilosati, vuotati, seccati,
angariati, scoraggiati che muovon le loro membra ufficiali e governative
soltanto quando si tratta di aver qualche lira di più tutti
i mesi!
Si parla dell’educazione morale delle scuole. Gli unici risultati
della convivenza tra maestri e scolari è questa: servilità
apparente e ipocrisia dei secondi verso i primi e corruzione reciproca
tra compagni e compagni.
L’unico testo di sincerità nelle scuole è la
parete delle latrine.
Bisogna chiuder le scuole – tutte le scuole. Dalla prima
all’ultima. Asili e giardini d’infanzia; collegi e convitti;
scuole primarie e secondarie; ginnasi e licei; scuole tecniche e
istituti tecnici; università e accademie; scuole di commercio
e scuole di guerra; istituti superiori e scuole d’applicazione;
politecnici e magisteri. Dappertutto
dove un uomo pretende d’insegnare ad altri uomini bisogna
chiuder bottega. Non bisogna dar retta ai genitori in imbarazzo
né ai professori disoccupati né ai librai in fallimento.
Tutto s’accomoderà e si quieterà col tempo.
Si troverà il modo di sapere (e di saper meglio e in meno
tempo) senza bisogno di sacrificare i più begli anni della
vita sulle panche delle semiprigioni governative.
Ci saranno più uomini intelligenti e più uomini geniali;
la vita e la scienza andranno innanzi anche meglio; ognuno se la
caverà da sé e la civiltà non rallenterà
neppure un secondo. Ci sarà più libertà, più
salute e più gioia.
L’anima umana innanzi tutto. È la cosa più preziosa
che ognuno di noi possegga. La vogliamo salvare almeno quando sta
mettendo le ali. Daremo pensioni vitalizie a tutti i maestri, istitutori,
prefetti, presidi, professori, liberi docenti e bidelli purché
lascino andare i giovani fuor dalle loro fabbriche privilegiate
di cretini di stato. Ne abbiamo abbastanza dopo tanti secoli.
Chi è contro la libertà e la gioventù lavora
per l’imbecillità e per la morte.
1 giugno 1914
(tratto da Chiudiamo le scuole, Vallecchi , Firenze, 1919)
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