Caffè Letterario
Pungitopo

Tuiavii di Tiavea

 


 

 

Da "Papalagi" discorsi del Capo Tuiavii di Tiavea delle isole Samoa
(Per Papalagi si intende l'uomo bianco, nella lingua samoana)

 

Del ricoprirsi del Papalagi, dei suoi molti panni e stuoie


Il Papalagi è continuamente preoccupato di coprire ben bene la sua carne. «Il corpo e le sue membra sono carne, solo quello che sta sopra il collo e il vero uomo»; così dunque mi disse un bianco che godeva di grande prestigio ed era considerato molto saggio. Voleva dire che degna di considerazione è solo la parte dove hanno dimora lo spirito e tutti i buoni e i cattivi pensieri. La testa. Quella, e in caso estremo anche le mani, il bianco le lascia volentieri scoperte sebbene anche la testa e le mani altro non siano che carne e ossa. Chi lascia vedere la propria carne, non può più vantare alcun diritto di essere chiamato civile. Quando un giovane sposa una fanciulla, non sa mai se è stato imbrogliato, perché non ha mai visto il suo corpo.

La carne è peccato. Così dice il Papalagi. Poiché il suo spirito è grande grazie al suo pensiero. Il braccio che si leva per il lancio nella luce del sole, è una freccia del peccato Il petto su cui ondeggia l'onda del respiro, è la dimora del peccato... Le membra con le quali la vergine ci offre una danza sono peccaminose. E anche le membra che si toccano per fare la creatura a gioia della grande terra, sono peccato. Tutto è peccato ciò che è carne. In ogni tendine c'è un veleno, un subdolo veleno che passa da creatura a creatura. Chi anche solo guarda la carne, sugge il veleno, ne è ferito, è altrettanto riprovevole e perverso quanto colui che la mette in mostra. Così dunque dicono le sacre leggi morali dell'uomo bianco.

Anche per questo il corpo del Papalagi è ricoperto dalla testa ai piedi di panni, stuoie e pelli, in maniera così fitta e spessa che non un occhio umano vi può giungere, non un raggio di sole, così che il suo corpo diventa smorto, bianco e appassito come i fiori che crescono nel profondo della foresta vergine.

Lasciate che vi descriva, più ragionevoli fratelli delle molte isole, quale peso un solo Papalagi porta sul suo corpo. Prima di tutto, sotto ogni altra cosa, egli avvolge il suo corpo nudo in una pelle bianca, ottenuta con le fibre di una pianta, chiamata pelle di sopra. La si solleva e la si lascia ricadere dall'alto verso il basso, da sopra la testa, sul petto e sulle braccia, fino all'altezza dei fianchi. Sopra le gambe e le cosce e fino all'ombelico, tirata dal basso verso l'alto, viene la cosiddetta pelle di sotto. Entrambe sono poi ricoperte da una terza pelle, più spessa, intessuta con i peli di un animale, un quadrupede lanoso, che viene allevato appositamente a questo scopo. Questi sono i veri e propri panni e consistono per lo più di tre parti, una che copre il busto, l'altra l'addome e la terza le cosce e le gambe. Le tre parti sono tenute insieme da conchiglie e funi fabbricate con i succhi disseccati dell'albero della gomma, così che da ultimo sembrano fatte di un pezzo solo. Questi panni sono nella maggior parte dei casi di un colore grigio come la laguna nella stagione delle piogge. Non devono mai essere colorati. Tutt'al più quello di mezzo, e anche qui soltanto per gli uomini che amano far parlare di se e corrono molto dietro alle donne.

l piedi infine vengono avvolti in una pelle morbida e in una molto rigida. Quella morbida è per lo più elastica e si adatta facilmente al piede, al contrario di quella rigida. Anche questa è fatta con la pelle di un robustissimo animale, la quale viene lasciata a bagno nell'acqua, poi raschiata con un coltello, battuta e stesa al suolo fino a che si è completamente indurita. Con questa il Papalagi si costruisce poi una sorta di canoa dal bordo molto alto, grande giusto quanto basta per farvi entrare il piede. Queste barche da piedi vengono poi legate e allacciate con cordoni e ganci intorno alla caviglia, così che il piede resta chiuso in un rigido guscio, come il corpo di una lumaca di mare. Queste pelli da piedi il Papalagi se le porta addosso dal levar del sole fino al tramonto, con esse fa i suoi viaggi, danza e le porta anche quando fa caldo come dopo la pioggia tropicale.

Poiché tutto ciò è assai innaturale, come il bianco del resto ben comprende, e rende i piedi come morti, tanto che cominciano a puzzare, e poiché in effetti la maggiore parte dei piedi europei non sanno più afferrare una cosa o arrampicarsi su una palma, per tali ragioni il Papalagi cerca di nascondere la sua follia ricoprendo la pelle di questo animale, che al naturale sarebbe rossastra, con molto sudiciume, che poi rende lucido a furia di strofinare, così che gli occhi non possono sopportarne il luccichio e si volgono altrove.

Una volta, in Europa viveva un Papalagi che divenne famoso e dal quale andava molta gente, perché diceva loro: «Non è bene che portiate ai piedi pelli così strette e pesanti, andate a piedi nudi sotto il cielo, fintanto che la rugiada della notte copre i prati, e tutte le malattie si allontaneranno da voi». Quest'uomo era molto sano e saggio; ma tutti hanno sorriso di lui e lo hanno presto dimenticato.

Anche la donna porta come l'uomo molte stuoie e panni intorno al corpo e intorno alle gambe. La sua pelle è perciò tutta segnata da cicatrici e ferite a causa dei lacci. I seni sono vizzi e spenti e non danno più latte, per l'oppressione di una stuoia che lei si lega intorno al petto, dal collo fino al basso ventre, e anche sulla schiena, una stuoia indurita e irrigidita con ossa di pesce, filo di ferro e vari legacci. Perciò la maggior parte delle madri non possono più allattare i propri figli e devono dare loro il latte in un rotolo di vetro, chiuso sotto e munito al di sopra di un capezzolo finto. E non e neppure il proprio latte, quello che danno loro, ma il latte di brutti animali rossastri e cornuti ai quali viene tolto con la forza, premendolo fuori da quattro tappi che hanno sotto la pancia.

Per il resto i panni delle donne e delle fanciulle sono molto più sottili e leggeri di quelli degli uomini, e possono anche essere variopinti e luccicare tanto da essere visti da lontano. Inoltre lasciano anche spesso intravedere collo e braccia e più carne di quelli degli uomini. Tuttavia è considerata buona cosa che una fanciulla si copra molto e allora la gente dice di lei con compiacimento: «È casta», e ciò sta a significare che rispetta le leggi dei buoni costumi.

Perciò non ho mai capito perché in occasione delle grandi feste e dei banchetti le donne e le fanciulle possono lasciar scoperta molta più carne sul collo e sulle spalle, senza che ciò sia vergogna. Ma forse questo rappresenta appunto il pepe della festa, che in tali occasioni venga permesso ciò che non è consentito tutti i giorni.

Solo gli uomini tengono sempre ben coperti il collo e la schiena. Dal collo fino ai capezzoli, le signore portano ben disteso un pezzo di panno rigido, grande quanto una foglia di taro. Sopra di esso posa, legato intorno al collo, un cerchio anch'esso bianco e rigido dello stesso panno, e questo rigido anello egli lo cinge con una striscia di panno colorato, che annoda come la fune di una barca e poi trafigge con un chiodo d'oro o vi mette sopra una perla di vetro, e lascia che il tutto gli penzoli davanti come un'insegna. Molti Papalagi portano anche rigidi anelli di panno bianco ai polsi; mai però alle caviglie.

Quell'insegna bianca e gli anelli bianchi ai polsi sono di grande importanza. Un Papalagi non compare mai senza questo ornamento davanti a una donna. Cosa molto grave è quando il rigido anello è diventato nero e non porta più nessuno splendore di luce. Molte signore importanti cambiano perciò ogni giorno gli anelli bianchi e rigidi sia al collo, sia ai polsi.

Mentre la donna possiede numerosi panni colorati da festa, che custodisce in molte casse, collocate ritte in piedi, e si dà molto pensiero di quello che indossa oggi o domani, se deve essere lungo o corto, e parla sempre con molto amore degli ornamenti che ci deve mettere sopra, l'uomo ha di solito un unico abito da festa e non ne parla quasi mai. Questa è la cosiddetta giubba a coda di rondine, di panno nero come la notte, che in fondo alla schiena finisce a punta, come la coda di un pappagallo della foresta. Con questo abito da festa anche le mani devono avere una pelle bianca, che ricopre strettamente tutte le dita, tanto che il sangue ribolle e affluisce al cuore. Per tale ragione è talvolta anche consentito che uomini ragionevoli tengano queste pelli solo in mano o che le infilino dentro il panno, all'altezza del cuore.

Non appena un uomo o una donna lasciano la capanna per passare sulla strada, subito si avvolgono in un ulteriore panno, che è pesante o leggero secondo che brilli il sole o faccia freddo. Poi si coprono anche la testa, gli uomini con un vaso nero e rigido, arrotondato e vuoto all'interno, come il tetto di una casa delle Samoa; le donne invece con grandi canestri e ceste rovesciate sui quali annodano fiori che non sfioriscono mai, piume, strisce di panno, perle di vetro e altri ornamenti di ogni genere. Assomigliano agli ornamenti che hanno sul capo le vergini durante una danza di guerra, solo che questo è molto più bello e anche nella danza o nella tempesta non può cadere. Gli uomini sollevano questi vasi da testa a ogni incontro, in segno di saluto, mentre le donne piegano solo lievemente in avanti il peso che portano sul capo, come una barca mal caricata.

Solo la notte, quando il Papalagi brama la sua stuoia, egli si toglie di dosso tutti quei panni, ma subito se ne infila un altro, un pezzo unico aperto sui piedi, che lascia scoperti. Anche le donne e le fanciulle portano questo panno da notte, per lo più riccamente adorno intorno al collo, sebbene di questo si veda ben poco. Non appena il Papalagi si è steso sulla sua stuoia, subito si ricopre dalla testa ai piedi con le piume strappate dalla pancia di un grande uccello e rinchiuse in un grande telo perché non possano disperdersi e volare via. Queste piume inducono il corpo a sudare e il Papalagi così pensa di essere steso al sole, anche quando non lo è. Perché, in realtà, del vero sole il Papalagi non si interessa molto.

È ora ben chiaro che, con tutte queste cose addosso, il corpo del Papalagi diventa bianco e smorto, senza il colore della gioia. Ma lui ama fare così. In effetti le donne, specialmente le fanciulle, sono preoccupate di proteggere la pelle, perché non si arrossi nella grande luce, e a loro difesa, non appena si espongono al sole, si aprono un tetto sopra la testa. Come se il pallido colore della luna fosse loro più gradito del colore del sole. Ma al Papalagi piace farsi in tutte le cose una saggezza e una legge secondo il suo pensiero. Poiché il suo naso è appuntito come il dente di un pescecane, lo trova bello; e il nostro, che è sempre tondo e morbido, lo trova brutto, sgraziato, mentre noi diciamo esattamente il contrario.

Essendo i corpi delle donne e delle fanciulle così accuratamente ricoperti, gli uomini e i giovanetti provano un intenso desiderio di vedere la loro carne, come è naturale. Notte e giorno ci pensano e parlano molto delle forme delle donne e delle fanciulle, e sempre in modo che ciò che è bello e naturale appaia un grande peccato, come qualcosa che può essere visto solo nell'ombra più fonda. Se lasciassero vedere la carne più apertamente, potrebbero dedicare i loro pensieri ad altre cose, e i loro occhi non si storcerebbero e le loro bocche non pronuncerebbero parole vogliose ogni volta che incontrano una fanciulla.

Ma la carne è peccato, è di demonio. C'è pensiero più stolto, cari fratelli? Se si dovesse credere alla parola del bianco, si dovrebbe con lui desiderare piuttosto che la nostra carne fosse rigida come lava e priva di quel dolce calore che viene da dentro. Ma noi vogliamo ancora rallegrarci della nostra carne che può parlare con il sole, di poter muovere le gambe come il cavallo selvatico perché nessun panno le lega e nessuna pelle appesantisce i piedi, di non essere costretti a fare attenzione perché il nostro copricapo non ci cada dalla testa. Godiamoci la gioia che ci dà la vergine che è bella nel corpo e mostra le sue membra al sole e alla luce della luna. Stolto, cieco e senza il senso della vera gioia è il bianco che deve tanto ricoprirsi per essere senza vergogna.

 

Le molte cose fanno povero il Papalagi

E anche in questo riconoscerete il Papalagi, perché tenta di convincerci che noi siamo poveri e miserevoli e abbiamo bisogno di molto aiuto e compassione perché non possediamo le cose.
Lasciate che vi dica, miei cari fratelli delle molte isole, che cos'è una cosa. La noce di cocco è una cosa, il panno, la conchiglia, lo scacciamosche, l'anello che porti al dito, la ciotola in cui mangi, gli ornamenti che porti in capo. Tutte queste sono cose. Ma ci sono due generi diversi di cose. Ci sono le cose fatte dal Grande Spirito, senza che noi lo vediamo, e che a noi uomini non costano né denaro, né fatica alcuna, come la noce di cocco, appunto, la conchiglia, la banana; e ci sono cose fatte dagli uomini, che costano lavoro e fatica, come gli anelli, la ciotola o lo scacciamosche. Il signore intende quindi le cose che egli può fare con le sue stesse mani, le cose dell'uomo, e sono queste che ci mancano; poiché non può certo riferirsi alle cose del Grande Spirito. Gettate intorno lo sguardo, fino all'orizzonte, dove l'estremità della terra sostiene l'immensa volta azzurra. Tutto è pieno di grandi cose: la foresta con le sue colombe selvatiche, i colibrì e i pappagalli; la laguna con i suoi frutti, le conchiglie, le aragoste e gli altri animali d'acqua; la spiaggia con il suo volto chiaro e la morbida pelliccia della sua sabbia; la grande acqua, che può mostrarsi irata come un guerriero o sorridere dolcemente come una vergine del villaggio; la grande volta azzurra, che si trasforma a ogni ora del giorno e porta grandi fiori che ci danno luce d'oro e d'argento. Perché dovremmo essere tanto stolti da aggiungere a queste altre cose, da mettere cose dell'uomo accanto a quelle sublimi del Grande Spirito? Non potremmo mai comunque uguagliarlo, poiché il nostro spirito è troppo piccolo e debole di fronte alla potenza del Grande Spirito; e anche la nostra mano è troppo debole in confronto alla sua, grande e possente. Tutto ciò che possiamo fare è soltanto poca cosa e non vale la pena di parlarne. Possiamo rendere più lungo il nostro braccio per mezzo di una clava, possiamo allargare la nostra mano per mezzo di una ciotola di legno, ma non c'è mai stato un samoano e neppure un Papalagi che abbia fatto una palma o una radice di kava.

Naturalmente il Papalagi crede di poter fare queste cose, crede di essere forte come il Grande Spirito. E mille e mille mani non fanno altro che preparare cose, dal levarsi al cadere del sole. Cose dell'uomo, di cui non conosciamo lo scopo, di cui non vediamo la bellezza. E il Papalagi pensa sempre nuove cose, continuamente. Le sue mani tremano di febbre, il suo volto diventa grigio come la cenere e la schiena gli s'incurva; ma lui brilla di gioia quando riesce a costruire una cosa nuova. E subito tutti vogliono avere la cosa nuova, e la ammirano, si mettono davanti a essa e la cantano nella loro lingua.

O miei fratelli, se voi voleste credermi: io sono riuscito a entrare nel pensiero del Papalagi e ho visto la sua volontà, come s'egli fosse illuminato dal sole di mezzogiorno. Poiché là dove egli arriva, distrugge le cose del Grande Spirito, e vuole poi riportare in vita con il proprio potere ciò che uccide, e con ciò far credere a se stesso di essere lui il Grande Spirito perché sa fare tante cose.

Fratelli, pensate se fra un'ora venisse la grande tempesta e sradicasse la foresta e portasse via le montagne con tutti gli alberi e tutte le foglie e trascinasse via con sé tutte le conchiglie e gli animali della laguna e non ci fosse più neppure un fiore di ibisco con cui le nostre fanciulle potessero adornarsi i capelli. Se tutto, tutto ciò che vediamo scomparisse e non restasse altro che sabbia, e la terra somigliasse a una nuda mano tesa o a una collina su cui è scivolata la lava incandescente, come piangeremmo sulle palme, sulle conchiglie, sulla foresta, su tutto. Là dove si trovano le molte capanne del Papalagi, nei luoghi ch'egli chiama città, là però la terra è nuda come una mano tesa, e per questo il Papalagi si smarrisce nella follia e gioca a fare il Grande Spirito: per dimenticare ciò che non possiede. Poiché egli é così povero e la sua terra così triste, afferra le cose, le raccoglie come il pazzo raccoglie le foglie secche e con esse riempie la sua capanna. Per questo però ci invidia e vorrebbe che noi diventassimo poveri come lui.

Grande povertà è quando l'uomo ha bisogno di tante cose: perché così egli dimostra di essere povero di cose del Grande Spirito. Il Papalagi è povero perché desidera tanto ardentemente le cose. Non può vivere senza di esse. Quando con il dorso di una tartaruga si costruisce un arnese per lisciarsi i capelli, quando vi ha messo dell'olio, fa ancora una pelle per l'utensile, una piccola cassa per la pelle e una cassa più grande per quella più piccola. Mette tutto in pelli e in casse. Ci sono casse per panni inferiori e superiori, per panni da lavare, panni da bocca e altri panni, casse per le pelli da mani e per le pelli da piedi, per il metallo rotondo e per la carta pesante, per le provviste di cibo e per il Libro Sacro, per tutto e per ogni cosa. Di tutte le cose ne fa tante, quando una sola basterebbe. Vai in una cucina europea e vedi moltissime ciotole per il cibo e altri strumenti per cucinare che non vengono mai usati. E per ogni cibo c'è una diversa ciotola: una per l'acqua diversa da quella per la kava europea, una per la noce di cocco diversa da quella per la colomba.

Una capanna europea ha tante cose, che se anche tutti gli uomini di un villaggio delle Samoa se ne caricassero completamente le mani e le braccia non basterebbero a portarle tutte. In una sola capanna ci sono un tal numero di cose, che tanti capi bianchi hanno bisogno di molti uomini e donne che non facciano altro che mettere tutte queste cose al loro posto e ripulirle della sabbia. E persino la più nobile vergine consuma molto del suo tempo a contare le molte cose, a sistemarle e a pulirle.

Fratelli, voi sapete che io non mento e vi dico tutto come io in verità ho veduto, senza nulla togliere o aggiungere. Così, credetemi, in Europa ci sono persone che si puntano la canna da fuoco alla fronte e si uccidono perché preferiscono morire piuttosto che vivere senza cose. Poiché il Papalagi inebria in mille maniere il suo spirito e così si convince di non poter vivere senza le cose, come nessun uomo può vivere senza cibo.

Per questo non ho mai trovato in Europa una capanna dove potessi stendermi bene sulla mia stuoia senza che qualcosa urtasse le mie membra quando mi allungavo. Tutte le cose mandavano lampi o gridavano forte con la bocca del loro colore, così che non potevo chiudere gli occhi. Mai riuscii a trovare un giusto riposo e mai provai maggior nostalgia per la mia capanna delle Samoa, nella quale non ci sono cose, se non la mia stuoia e il rotolo per poggiare la testa, e dove nulla arriva all'infuori del dolce aliseo che viene dal mare.

Chi possiede poche cose si considera povero e ne soffre. Non c'è Papalagi che canti e abbia uno sguardo lieto quando non ha nulla all'infuori della sua stuoia e della sua ciotola, come accade a ciascuno di noi. Gli uomini e le donne del mondo bianco piangerebbero di malinconia nelle nostre capanne, si affretterebbero a correre nella foresta per prendere legno e cercare il guscio della tartaruga, vetro, filo di ferro o pietre colorate o molte altre cose ancora, e continuerebbero da mattina a sera a tenere in moto le loro mani, fino a quando la loro casa delle Samoa si fosse riempita di cose grandi e piccole. Tutte cose che facilmente si rompono, che ogni piccolo fuoco e ogni pioggia tropicale possono distruggere e spazzar via, e che devono perciò essere continuamente rifatte.

Quanto più un uomo è un vero europeo, tanto maggiore è il numero delle cose di cui ha bisogno. Per questo le mani del Papalagi non stanno mai ferme, non riposano mai: per il gran fare le cose. Per questo i volti dei bianchi sono spesso così stanchi e tristi, e per questo pochissimi fra di loro arrivano a vedere le cose del Grande Spirito, a giocare sulla piazza del villaggio, a dire e cantare liete canzoni o, nei giorni di sole, a danzare nella luce e a rallegrarsi come a noi tutti è dato di fare. Loro devono fare cose. Devono custodire le loro cose. Le cose stanno loro addosso e strisciano loro intorno come le formichine della sabbia. Compiono con gelido cuore qualsiasi delitto, per ottenere le cose. Si fanno la guerra fra di loro, non per l'onore dell'individuo, o per misurare le loro vere forze, ma solo per amore delle cose.

Tuttavia, tutti loro sanno la grande povertà della loro vita, altrimenti non ci sarebbero tanti Papalagi che godono di grande onore perché passano tutta la loro vita a intingere ciuffi di peli in succhi di ogni colore, e con essi gettano belle immagini su bianche stuoie. Scrivono così tutte le belle cose di Dio, tanto variopinte e liete quanto loro riesce di fare. Con la terra molle danno forma a creature senza panni, fanciulle con i bei movimenti liberi di una vergine del villaggio Matautu, oppure a figure maschili che levano la clava, che tendono l'arco e spiano nella foresta la colomba selvatica. Creature di argilla alle quali il Papalagi costruisce intorno capanne a festa, dove la gente arriva da lontano per contemplarle e godere della loro bellezza e santità. Stanno davanti a esse avvolti fittamente nei loro molti panni e rabbrividiscono. Io ho visto il Papalagi piangere di gioia davanti a tanta bellezza, che lui stesso ha perduto.

Ora gli uomini bianchi vorrebbero portare a noi i loro tesori, perché anche noi diventiamo ricchi delle loro cose. Ma queste cose non sono che frecce avvelenate, di cui si muore quando colpiscono il petto. «Dobbiamo creare loro dei bisogni», ho udito dire da un uomo bianco che conosce bene la nostra terra; e bisogni vuol dire cose. «Allora diventeranno desiderosi di lavorare», diceva ancora quell'uomo sapiente. E intendeva dire che dovremmo impiegare anche noi la forza delle nostre mani per fare le cose. Cose per noi, ma in primo luogo per il Papalagi. Anche noi dobbiamo essere stanchi e grigi e curvi.

Fratelli delle molte isole, dobbiamo vegliare e stare all'erta, perché le parole del Papalagi sembrano dolci banane, ma sono piene di lance segrete che vogliono uccidere in noi la luce e la gioia. Non dimentichiamo mai che a noi occorre ben poco, all'infuori delle cose del Grande Spirito. Egli ci ha dato gli occhi per vedere le sue cose. E ci vuole più di una vita per vederle tutte. E non c'è mai stata menzogna più grande sulle labbra dell'uomo bianco di questa: che le cose del Grande Spirito non sono di utilità mentre le sue sarebbero molto più utili. Le sue cose sono così grandi in numero, che brillano e scintillano, e cercano in mille modi di conquistarci; non hanno però mai fatto un Papalagi più bello nel corpo, né i suoi occhi più brillanti o i suoi sensi più forti. Quindi anche le sue cose non servono a nulla, e dunque ciò che egli dice e vuol spingerci a fare appartiene al cattivo spirito e il suo pensiero è imbevuto di veleno.

 

Del mestiere del Papalagi e di come egli in esso si smarrisce

Ogni Papalagi ha un mestiere. È molto difficile spiegare che cosa sia un mestiere. È qualcosa che si dovrebbe aver voglia di fare, ma il più delle volte non se ne ha. Avere un mestiere vuol dire fare sempre, ogni giorno, la stessa cosa. Farla così spesso da poterla fare a occhi chiusi e senza alcuno sforzo. Se io con le mie mani non faccio altro che costruire capanne o intrecciare stuoie, costruire capanne o intrecciare stuoie diventa il mio mestiere.

Ci sono mestieri maschili e mestieri femminili. Lavare biancheria nella laguna o tirare a lucido le pelli da piedi sono mestieri femminili, guidare una imbarcazione in mare e sparare agli uccelli nella foresta sono mestieri maschili. Nella maggior parte dei casi la donna rinuncia al suo mestiere quando si sposa. L'uomo, al contrario, comincia proprio allora a farlo con maggior lena.

Ogni signore dà sua figlia solo a un pretendente che abbia un buon mestiere. Un Papalagi senza mestiere non si può sposare. Ogni uomo bianco quindi può e deve avere un mestiere. Per questa ragione ogni Papalagi, molto prima che venga il momento di farsi tatuare, deve decidere quale lavoro vuol fare per tutta la vita. Questo lo chiamano: scegliere una professione. Si tratta di una cosa molto importante e la famiglia ne parla tanto come di ciò che vuol mangiare il giorno seguente. Se vuole iniziare il mestiere di intrecciatore di stuoie, allora il signore anziano porta il giovane signore da un uomo che non fa altro che intrecciare stuoie. Quest'uomo deve spiegare al giovane come si intreccia una stuoia. Deve insegnargli a farlo così bene da poterlo fare a occhi chiusi. Spesso per questo ci vuole molto tempo, ma non appena ha imparato il giovane lascia l'uomo, e allora si dice che ha imparato il mestiere.

Quando il Papalagi, più avanti nella vita, si avvede che preferirebbe costruire capanne invece che intrecciare stuoie, allora si dice che ha sbagliato mestiere, che in altre parole vuol dire ha mancato il bersaglio. Questo è un grande dolore, perché è contro i buoni costumi mettersi a fare un altro mestiere; è contro l'onore del buon Papalagi dire: «Questo non lo so fare, non ne ho voglia», oppure «Le mie mani non mi vogliono ubbidire».

Il Papalagi ha tanti mestieri quante sono le pietre della laguna. Di ogni cosa che si può fare, lui fa un mestiere. Se uno raccoglie le foglie avvizzite dell'albero del pane, questo è il suo mestiere. Se pulisce le stoviglie, anche questo è u n mestiere. Mestiere è tutto ciò che deve essere fatto con le mani o con la testa. Mestieri sono anche avere dei pensieri nella testa o osservare le stelle. Non c'è nulla in effetti che un uomo possa fare, di cui il Papalagi non faccia un mestiere.

Quindi quando il bianco dice: «Io sono un impiegato», questo è il suo mestiere; vuol dire che lui non fa altro che scrivere una lettera dopo l'altra. Non arrotola la sua stuoia sulla trave non va in cucina ad arrostirsi un frutto, non lava la sua ciotola. Mangia pesce ma non va a pescare, mangia frutti ma non coglie un frutto dall'albero. Scrive una lettera dopo l'altra; l'impiegato è appunto il suo mestiere. Esattamente come ogni cosa in sé può essere un mestiere deporre le stuoie sulla trave, arrostire frutti, pulire ciotole, pescare pesci o cogliere frutti. Solo il mestiere dà all'uomo il pieno diritto al suo fare.

Così succede che la maggior parte dei Papalagi sanno fare soltanto quello che è il loro mestiere, e il più grande capo, che ha molta saggezza in testa e molta forza nel braccio, non è capace di deporre la sua stuoia sulla trave o di pulire la sua ciotola. E così succede anche che colui che è capace di scrivere una lettera di molti colori deve per forza non essere capace di portare al largo nella laguna una canoa, o viceversa. Avere un mestiere vuol dire: solo camminare, solo assaggiare, solo combattere; insomma: saper fare solo una cosa..........

In questo saper-fare-solo-una-cosa vi sono una grande manchevolezza e un grande pericolo, poiché a ciascuno può capitare di trovarsi una volta fuori nella laguna e dover guidare una canoa. Il Grande Spirito ci ha dato le mani perché possiamo cogliere i frutti dagli alberi, per prendere dalla palude le radici del taro. Ce le ha date per proteggere il nostro corpo e difenderlo da tutti i nemici. e ce le ha certamente date per la nostra gioia nella danza e nel gioco e negli altri piaceri. Ma non ce le ha certamente date per la nostra gioia nella danza e nel gioco e negli altri piaceri. Ma non ce le ha certamente date solo perché costruissimo capanne, o cogliessimo frutti, o strappassimo tuberi; esse devono essere al nostro servizio in ogni momento e in tutte le occasioni.

Questo però il Papalagi non lo comprende. Ma che il suo modo di fare è sbagliato, profondamente sbagliato e contro tutti i comandamenti del Grande Spirito, lo comprendiamo dal fatto che ci sono dei bianchi che non sanno più camminare; che mettono su pancia come un maiale, perché devono sempre star fermi a causa del loro mestiere; che non sanno più sollevare o gettare una lancia, perché le loro mani sanno tenere solo l'osso per scrivere, sedere all'ombra e non fare altro che scrivere lettere; che non sanno più guidare un puledro, perché devono contemplare le stelle o spremersi pensieri dalla testa.

Raramente un Papalagi adulto è ancora in grado di saltare e correre come un bambino. Cammina trascinando il corpo e si muove come se fosse sempre impedito. Maschera e rinnega questa debolezza dicendo che correre e saltare non sono cose adatte a un uomo della sua dignità. Ma questo è un motivo ipocrita, perché le sue ossa sono indurite e inabili e tutti i suoi muscoli hanno perso la loro gioia, perché il mestiere li ha condannati al sonno e alla morte. Anche il mestiere è un demone che distrugge la vita. Un demone che offre all'uomo belle menzogne, ma che gli succhia il sangue dal corpo. Inoltre il mestiere danneggia il Papalagi anche in un altro modo e si rivela demone anche per un altro aspetto.

È una gioia costruire una capanna: abbattere gli alberi nel la foresta e tagliarli per farne dei pali, poi infiggere i pali nel terreno, intrecciarvi sopra il tetto e alla fine, quando i pali e le travi e tutto quanto è ben legato con i fili di cocco, ricoprire ogni cosa con le foglie secche della canna da zucchero. Non occorre che vi dica quale grande gioia è quando un intero villaggio ha costruito la capanna del capo e persino le donne e i bambini prendono parte alla grande festa.

Ma che cosa direste se solo pochi uomini del villaggio potessero andare nella foresta per tagliare gli alberi per farne dei pali? E se questi pochi non potessero poi aiutare a piantare i pali, perché il loro mestiere è soltanto abbattere gli alberi? E se quelli che hanno piantato i pali nel terreno non potessero aiutare a intrecciare il tetto, perché il loro mestiere è solo piantare pali? E se quelli che intrecciano il tetto non potessero poi ricoprirlo di fogliame, perché il loro mestiere è soltanto intrecciare il tetto? In tal caso nessuno di tutti questi potrebbe dare una mano a raccogliere la ghiaia fine della spiaggia per fare il pavimento della capanna, perché questo lo potrebbero fare soltanto coloro che portano ghiaia per mestiere. E allora a inaugurare la nuova capanna e a fare la grande festa dovrebbero essere soltanto quelli che ci devono abitare, non tutti coloro che l'hanno costruita.

Voi ridete e certamente direste: «Se di noi soltanto uno e non tutti insieme potessimo lavorare, e se non potessimo aiutare in ogni lavoro per il quale occorra la forza dell'uomo, allora la nostra gioia sarebbe solo metà, anzi, non sarebbe gioia affatto». E voi certamente chiamereste pazzo colui che pretende di avere da voi la vostra mano per un solo scopo, come se tutte le altre membra e i sensi del vostro corpo fossero paralizzati o morti.

Da qui viene quindi al Papalagi la sua grande infelicità. È bello andare una volta al ruscello a prendere l'acqua, è bello anche farlo parecchie volte in un giorno; ma se uno dal levarsi al calare del sole non dovesse fare altro che prendere acqua al ruscello, e questo tutti i giorni e ogni giorno tutte le ore, fino a che le sue forze lo consentono, sempre e continuamente, alla fine costui verrebbe colto dall'ira e scaglierebbe il secchio lontano da sé, infuriato per le catene che legano il suo corpo. Poiché nulla è così pesante per l'uomo come fare continuamente la stessa cosa.

Ci sono però dei Papalagi che non raccolgono solo acqua giorno dopo giorno sempre alla stessa fonte (questo potrebbe ancora essere un grande piacere), no, vi sono anche quelli che solo alzano una mano o l'abbassano oppure la spingono contro un bastone, e questo in un luogo sporco, senza luce e senza sole; che non fanno nulla che sia prova di forza e dia qualche gioia, gente che dal pensiero del Papalagi è costretta a levare o abbassare la mano oppure batterla contro una pietra, perché con ciò si mette in moto o si regola una macchina che taglia anelli bianchi o insegne da petto o conchiglie da calzoni o qualche altra cosa. In Europa ci sono più uomini di quante palme ci siano nelle nostre isole i cui volti sono grigi come la cenere, perché non conoscono gioia alcuna nel loro lavoro, perché il mestiere divora ogni piacere e dal loro lavoro non nasce alcun frutto, neppure una foglia di cui poter gioire.

E per questo negli uomini cova un odio cocente per il proprio mestiere. Tutti hanno nel cuore una qualche cosa, come un animale che è tenuto alla catena e si ribella e vuol liberarsi e non vi riesce. E tutti confrontano i loro mestieri gli uni con gli altri, e sono pieni di invidia e di malcontento, e si parla di mestieri più elevati e più bassi, sebbene tutti i mestieri siano soltanto un fare a metà. Perché l'uomo non è soltanto mano o piede o soltanto testa; tutto in lui è unito. Mano, piede, testa vogliono stare insieme. Quando tutte le membra e i sensi lavorano insieme, solo allora il cuore dell'uomo può godere in sana letizia; mai però quando solo una parte dell'uomo vive e le altre devono essere come morte. Questo porta l'uomo allo smarrimento, alla disperazione e alla malattia.

Il Papalagi vive nello smarrimento a causa del suo mestiere. Per la verità, non vuole saperlo e sicuramente, se mi sentisse raccontare tutto questo, vorrebbe dichiararmi pazzo, come colui che vuole essere giudice e che però non può giudicare, perché lui stesso non ha mai avuto un mestiere e neppure ha mai lavorato come un europeo.

Ma il Papalagi non ci ha portato mai la verità né la spiegazione del perché noi dovremmo lavorare più di quanto Dio può chiederci di fare per saziare la fame, avere un tetto sopra la testa e trovare gioia e piacere alla festa sulla piazza del villaggio. Piccolo può sembrare questo lavoro, e la nostra esistenza può apparire povera di mestieri. Ma colui che è uomo giusto e fratello delle molte isole fa con gioia il suo lavoro, mai con sofferenza. Piuttosto non lo fa. E questo è ciò che ci distingue dai bianchi. Il Papalagi sospira quando parla del suo lavoro, come se fosse oppresso da un peso. I giovani delle Samoa vanno cantando nel campo di taro; cantando le giovani donne lavano i panni nei ruscelli. Il Grande Spirito non vuole certamente che diventiamo grigi nel nostro mestiere e strisciamo come lumache nella laguna. Egli vuole che restiamo ben ritti e fieri in tutto il nostro fare, e sempre uomini con occhi lieti e membra sciolte.

 

La grave malattia del pensare

Quando la parola «spirito» sale alle labbra del Papalagi, i suoi occhi si ingrandiscono, si fanno tondi e fissi; gonfia il petto, respira pesantemente e si stira come un guerriero che ha sconfitto il proprio nemico. Perché questo «spirito» è qualcosa di cui è particolarmente fiero. Qui non si tratta del grande, possente spirito che il missionario chiama «Dio», di cui tutti non siamo che miserevoli riflessi, ma del piccolo spirito, quello che appartiene all'uomo e fa i suoi pensieri.

Se io da qui vedo l'albero di mango dietro la chiesa della missione, ciò non è spirito, perché io vedo soltanto. Ma se riconosco che è più grande della chiesa della missione, allora ciò è spirito. Devo cioè non soltanto vedere qualcosa, ma anche sapere qualcosa. Questo sapere il Papalagi lo usa dall'alba al tramonto. Il suo spirito è sempre come una canna da sparo piena di polvere o come un amo gettato. Per questo egli ha compassione di noi, popoli delle molte isole, perché non usiamo alcun sapere. Dice che noi siamo poveri di spirito e stupidi come l'animale della giungla.

Questo è certo vero, che noi usiamo poco ciò che il Papalagi chiama «pensare». Ma ci si può domandare chi è lo stupido, se colui che non pensa molto o colui che pensa troppo. Il Papalagi pensa continuamente: «La mia capanna è più piccola della palma. La palma si piega nella tempesta. La tempesta parla con una gran voce». Queste cose lui pensa; alla sua maniera, naturalmente. Ma pensa anche su se stesso: «Io sono piccolo di statura. Il mio cuore è sempre lieto alla vista di una fanciulla. Mi piace molto fare un viaggio, e così via. Ciò è bello e buono e può anche essere utile per colui che ama questo gioco nella sua testa. Ma il Papalagi pensa tanto, che il pensare è diventato per lui abitudine, necessità, costrizione addirittura. Lui deve sempre pensare. Ben difficilmente riesce a non pensare e a vivere invece con tutte le sue membra. Lui vive soltanto con la testa, mentre tutti gli altri suoi sensi giacciono nel sonno profondo. Sebbene egli intanto cammini diritto, parli, mangi e rida. Il pensare, i pensieri (questi sono il frutto del pensare) lo tengono prigioniero. Si inebria dei suoi stessi pensieri. Quando splende il sole, lui subito pensa: «Come splende magnificamente il sole in questo momento». E continua a pensare: «Come splende». Questo è sbagliato. Assolutamente sbagliato. Stolto. Perché quando il sole splende è assai meglio non pensare affatto. Un saggio samoano distende le sue membra nella calda luce e non pensa a niente. Accoglie il sole non solo con la testa, ma anche con le mani, con i piedi, i fianchi, il ventre, con tutte le membra. Lascia che la pelle e le membra gioiscano e si rallegrino per conto loro e pensino per lui. Ed esse certamente pensano, anche se in maniera diversa dalla testa. Ma il Papalagi ne è in molte maniere impedito; il molto pensare gli sta davanti come un gran blocco di lava ch'egli non può togliere di mezzo. Ha, certo, pensieri allegri, ma non ride; ha pensieri tristi, ma non piange. Ha fame, ma non va a prendersi del taro e del palusami (piatto tipico samoano, n.d.r.). Il più delle volte è un uomo i cui sensi vivono in lotta con lo spirito: un uomo diviso in due parti.

La vita del Papalagi assomiglia molto spesso a quella di un uomo che deve andare con la barca a Savaii e che, non appena lasciata la riva, pensa: «Quanto tempo potrò impiegare per arrivare a Savaii?» Pensa, e intanto non vede il bel paesaggio che attraversa nel corso del suo viaggio. Ora gli si presenta sulla sinistra il dorso di una montagna. Non appena il suo occhio l'ha afferrata, non può più lasciarla: «Che cosa ci può essere dietro quella montagna? Ci sarà una baia profonda oppure piccola?» E per il molto pensare dimentica di cantare le belle canzoni dei giovani navigatori, e neppure ode le parole scherzose delle fanciulle. Appena la baia e la montagna sono alle sue spalle, subito lo tormenta un nuovo pensiero: se prima di sera non verrà una tempesta. Sicuro: se verrà la tempesta. E cerca nel cielo limpido le nuvole nere. Continua a pensare alla tempesta che potrebbe venire. La tempesta non viene e lui giunge a Savaii la sera stessa senza danno. Ma per lui è come se non avesse neppure fatto il viaggio, perché i suoi pensieri per tutto il tempo sono stati lontani dal corpo e fuori dell'imbarcazione.

Ma uno spirito che ci tormenta in tal modo è un demonio e io non capisco perché molti lo debbano amare. Il Papalagi ama e venera il suo spirito e lo nutre con i pensieri della sua testa. Non lo lascia mai languire, ma gli è anche di poco incomodo quando i pensieri si divorano a vicenda. Fa molto rumore con i suoi pensieri e lascia che diventino chiassosi come bambini maleducati. Si comporta come se i suoi pensieri fossero splendidi come fiori, come montagne o foreste. Di essi parla come se al confronto un uomo valoroso o una fanciulla di animo lieto non avessero alcun valore. Fa esattamente come se ci fosse un comandamento che ordina all'uomo di pensare molto. Sicuro, come se questo comandamento venisse da Dio. Quando le palme e le montagne pensano, non fanno certo tanto baccano. E, sicuramente, se le palme pensassero con tanto rumore come fa il Papalagi, non avrebbero foglie così verdi e belle e non darebbero frutti così dorati. I frutti cadrebbero prima di essere maturi. Ma è molto più probabile che esse pensino assai poco.

Oltre a ciò ci sono moltissime maniere di pensare e innumerevoli bersagli per la freccia dello spirito. Triste è la sorte di colui che va molto lontano con il pensiero. «Che accadrà quando verrà la prossima aurora? Che cosa vorrà da me il Grande Spirito quando io arriverò nell'oltretomba? Dov'ero prima che i messaggeri delle divinità mi facessero dono dell'anima?» Questo pensare è tanto inutile quanto voler vedere il sole con gli occhi chiusi. Non si può. Perciò non è neppure possibile pensare fino in fondo l'inizio e la fine delle cose. Se ne avvedono coloro che ci si provano. Dai loro giovani anni fino alla maturità restano fermi su un punto, come il martin pescatore. Non vedono più il sole, il vasto mare, le dolci fanciulle; non provano più alcuna gioia, niente di niente. Persino la kava non piace più loro e durante le danze sulla piazza del villaggio tengono gli occhi abbassati e guardano a terra. Non vivono, anche se non sono morti. Sono stati colpiti dalla grave malattia del pensare.

Questo pensare dovrebbe rendere grande e nobile la mente. Se uno pensa molto e in fretta, in Europa si dice che è una grande testa. Invece di provare compassione per queste grandi teste, esse sono oggetto di particolare ammirazione. I villaggi eleggono questi uomini loro capi e, là dove arriva, una grande testa deve pensare in pubblico, davanti alla gente, così che tutti ne hanno gran piacere e l'ammirano. Quando muore una grande testa, tutto il paese è in lutto e grandi sono il dolore e le lamentazioni per ciò che si è perduto. Si fa un'immagine di pietra della grande testa del defunto e la si mette davanti agli occhi di tutti, sulla piazza del paese. Queste teste di pietra sono molto più grandi di com'erano quelle vive, affinché tutti le possano bene ammirare e ricordarsi con umiltà di quanto sono piccole le loro.

Quando si domanda a un Papalagi: «Perché pensi tanto?» Lui risponde: «Perché non voglio restare stupido».

Io credo però che questo sia soltanto un pretesto e che il Papalagi segua un cattivo impulso; che il vero scopo del suo pensare sia di arrivare a capire ciò che sta dietro le forze del Grande Spirito. Un fare che egli stesso definisce con l'altisonante parola «conoscenza». Conoscenza vuol dire avere una cosa così vicina agli occhi che ci si batte il naso. Questo battere il naso nelle cose e frugarci dentro è una brutta e deprecabile voglia del Papalagi. Afferra la scolopendra, la trafigge con una minutissima lancia, le stacca una zampa: «Che aspetto ha una zampa staccata in quel modo dal corpo? Come era attaccata?» Taglia la zampa, la apre per misurarne la grandezza. Questo è importante, è essenziale. Stacca una scheggia dalla zampa, piccola quanto un granello di sabbia, e la mette sotto un lungo tubo che ha una forza segreta e rende gli occhi tanto più acuti. Con questo occhio magico il Papalagi studia e controlla ogni cosa, le tue lacrime, un pezzetto della tua pelle, un capello, tutto. Spezzetta tutte le cose fino a quando arriva al punto in cui non c'è più nulla da tagliare e da dividere. Sebbene questo punto sia il più piccolo, di solito è più importante, perché è un accesso alla grande conoscenza che soltanto il Grande Spirito possiede.

Questo accesso non è aperto al Papalagi e anche i suoi occhi magici più acuti non hanno ancora potuto guardarvi dentro. Nessuno è mai salito più alto di quanto lo fosse il tronco della palma che le sue gambe stringevano. Giunto sulla cima della pianta, gli veniva a mancare il tronco per salire più su. Il Grande Spirito non ama la curiosità degli uomini, per questo ha teso sopra tutte le cose grandi liane che sono senza principio e senza fine. Perciò chiunque indaghi con attenzione su tutto il pensare dovrà alla fine avvedersi che rimane sempre stupido e che deve lasciare al Grande Spirito tutte le risposte che lui stesso non può dare. Questo, d'altronde, i Papalagi più coraggiosi e più intelligenti lo ammettono. Tuttavia, molti di quei malati del pensiero non sanno rinunciare a tale piacere; e per questo il pensare degli uomini conduce allo smarrimento per tante e diverse vie, esattamente come se camminassero in una giungla dove non c'è ancora alcun sentiero. Nel pensare consumano a tal punto i loro sensi che poi, come in effetti è già accaduto, improvvisamente non sanno più distinguere tra uomo e animale. Affermano che l'uomo è un animale e che l'animale è umano.

Deprecabile e fatale è perciò che tutti i pensieri, non importa se buoni o cattivi, vengano subito buttati sulle bianche stuoie sottili «Vengono stampati», dice il Papalagi. Che vuol dire che ciò che quei malati pensano viene poi scritto con una macchina molto misteriosa, che ha mille mani e la fortissima volontà di molti grandi capi. Ma non solo una o due volte, bensì tantissime volte, infinite volte essa riscrive sempre gli stessi pensieri. Molte stuoie di pensieri vengono poi legate in fasci e schiacciate insieme (libri, li chiama il Papalagi) e inviate in tutte le parti del grande paese. Così ben presto tutti coloro che prendono dentro di sé questi pensieri ne vengono contagiati. E divorano queste stuoie di pensieri come dolci banane, esse si trovano in ogni capanna, se ne colmano interi cassoni, e giovani e vecchi vi rosicchiano intorno come i topi rosicchiano la canna da zucchero. Perciò sono così pochi coloro che ancora possono pensare ragionevolmente, con pensieri naturali, come li ha qualsiasi onesto samoano.

Allo stesso modo anche ai bambini vengono messi in testa tanti pensieri finché ce ne stanno. Ogni giorno sono obbligati a ingoiare una certa quantità di stuoie di pensieri. Solo i più sani respingono questi pensieri o li lasciano cadere dal loro spirito come attraverso una rete. La maggior parte invece se ne riempie la testa a tal punto che poi non vi resta più spazio e non vi entra più alcuna luce. Questo lo si chiama «educare lo spirito» e lo stato permanente di questo smarrimento si chiama «cultura», cosa generalmente diffusa.

Cultura vuol dire colmare le proprie teste fino all'orlo estremo con le conoscenze. L'uomo colto conosce la lunghezza della palma, il peso della noce di cocco, i nomi di tutti i grandi capi e l'epoca delle loro guerre. Conosce la grandezza della luna, delle stelle e di tutte le terre. Conosce per nome ogni fiume, ogni animale, ogni pianta. Sa tutto. Fai una domanda a un uomo colto e lui ti spara addosso la risposta prima ancora che tu abbia finito di chiudere la bocca. La sua testa è sempre carica di munizioni, è sempre pronta a sparare. Ogni europeo consuma gli anni più belli della sua vita per rendere la sua testa simile alla più rapida canna da sparo. Chi vuole sottrarsi a questo, vi viene costretto. Ogni Papalagi deve sapere, deve pensare.

L'unica cosa che potrebbe ancora guarire tutti questi malati di pensiero, l'oblio, il cacciar via i pensieri, è un'arte che non viene praticata. Sono quindi pochissimi quelli che lo sanno fare. La maggior parte porta dentro la testa un tale peso che il corpo è stanco e perde energie e appassisce prima del tempo.

Dobbiamo noi dunque, cari non pensanti fratelli, dopo tutto quello che vi ho in verità raccontato, veramente imitare il Papalagi e imparare tutti quei pensieri come lui? Io dico: «No!» Perché noi non dobbiamo fare nulla che non sia ciò che ci rende più forti nel corpo e più lieti e migliori nell'animo. Dobbiamo guardarci da tutto ciò che ci potrebbe derubare della nostra gioia di vivere, soprattutto da ciò che può oscurare il nostro spirito e togliergli la sua chiara luce, ciò che mette la nostra testa in lotta con il nostro corpo. Il Papalagi ci dimostra col suo fare che il pensare è una grave malattia che riduce di molto il valore di un uomo, lo rende più piccolo.

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Pungitopo pungitopo@pungitopo.com