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Lettera a Sonja Liebknecht
[Breslavia, metà dicembre 1917]
Sonjuscka, mio passerotto,
mi sono tanto rallegrata della sua lettera; volevo rispondere subito, ma avevo proprio molto lavoro che mi ha richiesto un notevole impegno, perciò non potevo prendermi il lusso di scrivere. Poi però ho preferito attendere un’occasione, perché è molto piú bello poter chiacchierare liberamente, solo tra noi.
Ogni giorno, leggendo le notizie provenienti dalla Russia, ho pensato a lei e con preoccupazione immagino come si sia turbata ad ogni assurdo telegramma. Le notizie che arrivano dalla Russia sono per lo più notizie sconvolgenti, e ciò vale doppiamente per il sud. Le agenzie di notizie sono interessate (ovunque) ad esagerare il piú possibile il caos e a gonfiare tendenziosamente ogni piú impossibile voce. Finché le cose non si chiariscono non vi è alcun senso o ragione a essere inquieti, cosí per niente, in anticipo. In generale sembra che là le cose procedano in modo del tutto incruento; in ogni caso tutte le voci di «battaglie» sono rimaste senza conferma. È solo un’aspra lotta di partito che, nell’interpretazione dei corrispondenti dei giornali, appare sempre come una pazzia sfrenata e un inferno. Per quanto concerne i pogrom di ebrei, simili voci sono assolutamente inventate. In Russia è per sempre passato il tempo dei pogrom; il potere degli operai e del socialismo è troppo forte perché possano succedere cose simili. La rivoluzione ha purificato l’aria dai miasmi e dalle esalazioni della reazione, cosí come Kiscinëv è per sempre passé. Posso piuttosto immaginare ancora dei pogrom di ebrei in Germania… In ogni caso qui regna l’atmosfera di infamia, di viltà, di reazione e di ottusità che vi si addice. Sotto questo aspetto, quindi, può essere assolutamente tranquilla per quanto riguarda la Russia del sud. Le cose si sono ormai tanto acuite fino a giungere a un duro conflitto tra il governo di Pietroburgo e la Rada, per cui ben presto dovrà arrivare anche la soluzione e la chiarificazione, in base alla quale si potrà valutare la situazione. Da tutti i punti di vista non ha proprio alcun senso, alcuno scopo che lei si strugga dalla paura e dall’inquietudine. Resti impavida, mia piccola, a testa alta, resti calma e forte. Tutto si volgerà per il meglio, purché non ci si aspetti subito sempre il peggio!…
Speravo vivamente di vederla presto qui, già in gennaio. Ora si dice che Mathilde Wurm voglia venire in gennaio. Mi sarebbe difficile rinunciare alla sua visita in gennaio, ma naturalmente non posso disporre. Se lei dichiara di non poter venire che in gennaio, allora forse non se ne parla piú; chissà, forse Mathilde Wurm può venire anche in febbraio. In ogni caso vorrei presto sapere quando la vedrò.
E già un anno che Karl è in carcere a Luckau. In questo mese ci ho pensato spesso. Ed esattamente un anno fa lei era da me a Wronke, mi regalò il bell’albero di Natale… Quest’anno me ne son fatto procurare uno, ma me ne hanno portato uno ben misero, senza rami; non c’è paragone con quello dell’anno scorso. Non so come vi applicherò le otto lucette che ho acquistato. E il mio terzo Natale in carcere, ma non la prenda sul tragico. Io sono calma e serena come sempre.
Ieri rimasi a lungo sveglia; adesso non riesco ad addormentarmi prima delle 4, ma devo stare a letto già alle 10 perché spengono la luce, allora mi metto a sognare diverse cose nel buio. Ieri, dunque, pensavo: è straordinario il fatto che io viva costantemente in uno stato di gioiosa esaltazione, senza alcun motivo particolare. Ad esempio, qui dormo su un materasso durissimo in una cella buia, attorno a me nella casa regna il solito silenzio sepolcrale, sembra di essere nella tomba; attraverso la finestra sotto il soffitto si disegna il riflesso della lanterna che splende tutta la notte davanti al carcere. Di quando in quando si sente solo, sordo, lo strepito lontano di un convoglio ferroviario che passa, oppure vicinissimo, sotto la finestra, il tossire della sentinella che coi suoi pesanti stivali fa un paio di passi lenti per sgranchirsi le gambe intirizzite. La sabbia scricchiola cosí disperatamente sotto questi passi da far risuonare nella notte umida e oscura tutta la desolazione e l’angustia dell’esistenza. Io giaccio tranquilla, sola, avvolta in questi molteplici veli neri dell’oscurità, della noia, della prigionia, dell’inverno, e intanto il mio cuore palpita di una gioia interiore inconcepibile, ignota, come se camminassi su un prato in fiore nella luce radiosa del sole. E nel buio sorrido alla vita, come se conoscessi un qualche segreto magico che smentisce ogni male e ogni tristezza e li trasforma in trasparente chiarezza e felicità. E intanto io stessa cerco una ragione di questa gioia, non la trovo e di nuovo devo ridere… di me stessa. Credo che il segreto non è altro che la vita stessa; la profonda oscurità della notte è cosí bella e soffice, come un velluto, purché la si guardi come si deve; e nello scricchiolare della sabbia umida sotto i lenti, pesanti passi della sentinella risuona anche un piccolo, dolce canto della vita, basta saperlo ascoltare come si deve. In questi momenti penso a lei e vorrei cosí volentieri comunicarle questa chiave magica che le facesse percepire sempre, in ogni situazione, la bellezza e la gioia della vita, perché anche lei viva nella ebbrezza e cammini come su un prato fiorito. Non penso affatto di nutrirla di ascetismo e di gioia illusoria. Le auguro tutte le reali gioie sensibili che desidera. Vorrei solo darle in piú la mia inesauribile serenità interiore per essere sicura che attraversa la vita avvolta in un manto trapunto di stelle, che la protegge da ogni miseria, trivialità e inquietudine.
Lei ha raccolto nello Steglitzer Park un bel mazzo di bacche nere e rosa-violetto. Per quanto riguarda le bacche nere è probabile che si tratti di sambuco: le sue bacche però pendono a fitti, pesanti grappoli tra grandi ventagli di foglie piumate, lei le conosce certamente; oppure, piú probabilmente, si tratta di ligusti: pannocchie di bacche sottili, esili, diritte e foglioline strette e oblunghe. Le bacche color rosa-violetto, nascoste tra piccole foglioline, potrebbero essere quelle del nespolo nano; a dire il vero, esse sono rosse, ma in questa tarda stagione, essendo un po’ troppo mature e quasi sfatte, hanno spesso un colore violetto-rossiccio. Le foglioline assomigliano a quelle del mirto: piccole, appuntite, verde scuro, lisce di sopra e ruvide di sotto.
Sonjuséka, conosce la poesia Verhängnisvolle Gabel di Platen? Potrebbe inviarmela o portarla? Una volta Karl ha detto di averla letta a casa. Le poesie di George sono belle; adesso so di chi è il verso: «E tra il fruscio del rossiccio frumento…», che lei di solito recitava quando andavamo a passeggio per i campi. Quando ha occasione può copiarmi il Neue Amadis? Questa poesia mi piace tanto – naturalmente grazie alla canzone di Hugo Wolf – ma non l’ho qui con me. Legge ancora la Lessing-Legende? Io ho ripreso la Storia del materialismo di Lange, che mi stimola e ristora sempre. Vorrei tanto che la leggesse anche lei.
Oh, Sonjuscka, qui ho trovato un forte dolore. Nel cortile dove passeggio arrivano spesso dei carri dell’esercito stracarichi di sacchi o vecchie casacche e camicie militari, spesso con macchie di sangue…, vengono scaricate qui, distribuite nelle celle, rappezzate, poi ricaricate e spedite all’esercito. Recentemente è arrivato uno di questi carri, tirato da bufali invece che da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Sono di costituzione piú robusta e massiccia dei nostri buoi, con teste piatte e corna ricurve basse, il cranio quindi è simile a quello delle nostre pecore, sono completamente neri, con grandi, dolci occhi neri. Provengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che guidavano il carro raccontarono che fu molto faticoso catturare questi animali selvaggi e ancor piú difficile – essendo abituati alla libertà – usarli come animali da tiro. Furono orribilmente percossi finché non appresero che avevano perso la guerra e che per loro valeva il motto «vae victis». A Breslavia vi devono essere un centinaio di questi animali; essi, che erano abituati ai rigogliosi pascoli romeni, ricevono un misero e scarso foraggio. Vengono sfruttati senza pietà per trainare tutti i carri possibili e cosí vanno presto in rovina. Dunque, alcuni giorni fa arrivò qui un carro carico di sacchi. Il carico era cosí alto che i bufali all’entrare nel portone non riuscivano a superare la soglia. Il soldato accompagnatore, un tipo brutale, cominciò a picchiare cosí forte gli animali, con la grossa estremità del manico della frusta, che la sorvegliante, indignata, lo riprese chiedendogli se non aveva proprio alcuna compassione degli animali. «Neanche di noi uomini ha nessuno compassione» rispose egli sogghignando, e picchiò ancor piú sodo… Alla fine gli animali tirarono e scamparono il peggio, ma uno di essi sanguinava… Sonjuscka, la pelle dei bufali è proverbiale per lo spessore e la durezza, eppure la loro era lacerata. Poi, mentre si scaricava, gli animali stavano muti, sfiniti, e uno, quello che sanguinava, guardava lontano con sulla faccia nera e nei dolci occhi neri un’espressione come di un bambino rosso per il pianto. Era esattamente l’espressione di un bambino che è stato duramente punito e non sa perché, non sa come deve affrontare il supplizio e la bruta violenza… Io stavo lí e l’animale mi guardò, mi scesero le lacrime — erano le sue lacrime — non si può fremere dal dolore per il fratello piú caro come io fremevo nella mia impotenza per questa muta sofferenza. Come erano lontani, irragiungibili, perduti i bei pascoli liberi e rigogliosi della Romania! Come era diverso lí lo splendore del sole, il soffio del vento, come erano diverse le belle voci degli uccelli che lí si udivano, o il melodico muggito dei buoi! E qui: questa città straniera, orribile, la stalla umida, il fieno ammuffito, nauseante, misto di paglia fradicia, gli uomini estranei, terribili e le percosse, il sangue che colava dalla ferita fresca… Oh, mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, noi due stiamo qui impotenti e muti e siamo uniti solo nel dolore, nell’impotenza, nella nostalgia. Intanto i detenuti si muovevano affaccendati attorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano nella casa; il soldato, invece, con le due mani nelle tasche passeggiava a grandi passi per il cortile, rideva e fischiettava una canzonetta. E cosí mi passò dinanzi tutta la magnifica guerra.
Scriva presto. La abbraccio, Sonjuscka.
Sua R.
Sonjuscka carissima, sia calma e serena nonostante tutto. Cosí è la vita e cosí bisogna prenderla, coraggiosamente, intrepidamente e sorridendo, nonostante tutto. Buon Natale!…
La lettera fu letta varie volte in pubblico da Karl Krauss (scrittore, giornalista e autore), così introducendola:
“(…) Sia coperta di onta e disonore qualsiasi repubblica che, nonostante ogni cristianesimo dei catechismi e delle granate, non accolga nei suoi libri di scuola, tra Goethe e Claudius, questo documento di umanità e poesia, unico nel mondo di lingua tedesca, e che non insegni alle generazioni future, affinché provino orrore per gli uomini di questo tempo, che il corpo in cui era racchiusa un’anima così elevata fu massacrato a colpi di calcio di fucile. Non si danno, nell’intera letteratura tedesca del presente, lacrime simili a quelle di questa rivoluzionaria ebrea e non vi sono pause simili a quella che segue la descrizione della pelle del bufalo: «ma quella era lacerata».
A Berlino, Dresda e Praga ho introdotto la lettura con le seguenti parole: Dedico alla memoria della più nobile tra tutte le vittime la lettura di questa lettera, scritta da Rosa Luxemburg a Sonja Liebknecht a metà dicembre del 1917, dal carcere femminile di Breslavia.” |