Caffè Letterario
Pungitopo
Giovanna La Maestra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Caterina

Quando, tornato dal lavoro, Piero Manti si chiuse nel suo studio, si accorse con una specie di cupa soddisfazione che non gli importava più nulla neppure della nube radioattiva che in quei giorni, sfuggita da Chernobyl, contaminava alberi, acqua, aria, terra, animali e uomini.
Era tornato a casa per vie deserte, battute da piovaschi improvvisi e da raffiche di vento, madido d’acqua e di sudore, sentendo ingigantire dentro di sé la parte che non voleva vivere.
In casa, come quasi sempre ormai avveniva da mesi, non c’era nessuno.
Si sedette alla sua scrivania e, presa la testa fra le mani, rimase immobile.
Lo invase il silenzio, e nel silenzio, a tradimento, il dolore per l’assenza di sua moglie, di Caterina, gli restituì, con spietata ironia, l’attaccamento alla vita, fino a qualche minuto prima ottuso o comunque distante.
La solitudine non si può definire, non esiste, non è un vuoto, è il gonfiarsi della voglia di uccidere senza uccidere, di uccidersi senza uccidersi, di dire, dire, dire, senza poter dire, senza poter penetrare il corpo dell’altro per arrivare ad una parte dell’ anima che non c’è se non nella nostra convulsa immaginazione. Questo Piero non lo sapeva, lo viveva, mentre tutta la stanza si riempiva della dilatazione innaturale della sua solitudine in cui egli si perdeva, si spezzava in frammenti.
E ad un tratto gli parve di guardarsi dall’esterno, seduto, gravido nel ventre e nel petto, con la pelle tesa di questo suo interno mostruoso gonfiore come l’avrebbe guardato lei, tornando, ostile, pronta a difendersi, negata.
L’orrore che provò di sé, lo smarrimento, 1’ineluttabilità della sua impossibilità di essere amato, la coscienza che niente mai più sarebbe cambiato perché lui non sarebbe cambiato, sarebbe rimasto immobile in questa paralisi dell’amore e dell’odio, gli fece sbarrare gli occhi. E si vide con questi occhi ciechi, vitrei.
« Basta » disse « basta, basta, basta, basta. »
La sua voce gli ritornò come un imperativo, un’indicazione esterna a cui obbedire.
Si alzò, aprì la finestra e si buttò giù.
« Mai più niente » pensò. E si stupì che potesse essere così.
Poi sentì scoppiare il suo corpo e disperdersi il dolore e l’odio e la pace impadronirai di ogni cosa di sé che ancora viveva in questo sciogliersi nell’acqua e nel sangue.
Accorse un passante atterrito e gridò, gridò.
Si aprirono alcuna finestre, si accesero di urli le luci.
Poi si sentirono le sirene e il brusio della gente raccolta a cerchio.
Dopo il funerale Caterina, vestita di nero, appoggiata alla madre, porgeva le guance alle amiche, agli amici in visita di condoglianze.
II suo sguardo correva continuamente alla porta e se ne ritraeva, ogni volta che entrava qualcuno. Sapeva che l’unica persona che aspettava non sarebbe venuta e immaginava di vederla apparire e di stringersi a lei davanti a tutti.
Sedeva composta, tirandosi indietro, di tanto in tanto, i capelli lunghi e neri e la sua mano indugiava un attimo quasi a cercare la carezza dell’uomo che amava ormai da un anno.
Non riusciva ad accettare la viltà della sua assenza, provava rabbia e tenerezza per il suo amante bambino, e gelosia per l’orrore che la morte di suo marito aveva causato in lui, per il rimorso che gli avrebbe letto in faccia e che temeva come una sorta di solidarietà maschile, un giudizio latente.
Il suo animo si riempì, allora, di odio e furia e disprezzo verso chi, uccidendosi, aveva tentato di marchiarla per sempre, sporcandola di un amore che lei non voleva più.
Non riusciva nemmeno a pronunziare il none di suo marito dentro di sé. E il diritto che egli aveva affermato di renderla vedova le causava un tale sconvolgimento che avrebbe voluto che fossse ancora vivo per ucciderlo, duramente, freddamente e colpirlo e sentire contro le mani la sua carne morbida, flaccida.
« Povero Piero » diceva la madre di Caterina, guardandola con ansia, preoccupata che il furore della figlia trapelasse agli occhi degli altri come ai suoi e che la reputazione ne fosse per sempre macchiata.
Elisa, la sorella di Piero, sbiadita, rannicchiata, guardava entrare e uscire le persone, sentiva le domande, gli accenni di pettegolezzo, e provava, verso la cognata, una paura infantile, come se il cervello avesse deciso di chiudersi a qualsiasi interpretazione.
Davanti, ossessivi, rivedeva gli occhiali che le avevano dato, del suo fratello piccolo, amatissimo e sconosciuto. Le pareva che, spezzati e sbilenchi, si sovrapponessero a quegli occhi miti, smarriti, indurendoli in uno sguardo che non gli aveva mai visto.
Si girò verso il padre e la madre, dignitosamente seduti di fanco a lei sul divano, e si ritrasse spaventata dalla distanza che la separava dai loro vestiti di circostanza, dall’espressione delle loro facce su cui la vergogna di un gesto sconsiderato e sconveniente era accuratamente nascosta dal controllato dolore per la morte di un figlio estraneo e sicuramente malato.
« Mio figlio » diceva proprio in quel momento la signora Manti tirando fuori della manica un fazzoletto appallottolato e ottenendo improvvisamente il silenzio « Non era più lui da un po’ di tempo. Non era più lui, è vero Caterina?»
E poi, rivolta ai presenti : « Mia nuora è stata un angelo. Non lo lasciava solo un momento, da che aveva cominciato a temere di tutto... Troppo lavoro!... Voi lo sapete...» continuava la sua voce insistente, con delle note pateticamente false.
« Ligio, premuroso, intelligente. Ma troppe letture e troppi scrupoli e incertezze sulla bontà del suo operato... »
Mentre i presenti assentivano tutti « Oh Dio – pensava Elisa – oh Dio, come fa a mentire così? ».
E guardava la madre imbeccare la nuora, cercarne la complicità, testardamente decisa a difendere la famiglia.
« Ma perchè è arrivato fino a questo punto? » domandò una ragaz­za che Elisa non conosceva. « Così giovane… così intelligente.. così buono! »
« Dio mio, basta » pensò Elisa e si volse a guardare la cognata.
E allora capì improvvisamente, disperatamente, che Caterina non amava suo fratello e le parve così impossibile e orrendo quello che vide che si alzò di scatto e, alzandosi, incontrò gli occhi di Giorgio, l’amico più caro di Piero, e vi lesse che sapeva, anche lui.
Rimasero a fissarsi nel silenzio generale, imbarazzato, degli amici e conoscenti in visita.
E infine, esitando, Giorgio si mise in piedi e con dolcezza, con pietà, guardando ora Caterina, ora Elisa « Piero» disse « io lo sapevo e non riesco a perdonarmi di non essergli stato vicino, aveva parlato con me, giorni fa : era sconvolto per gli effetti che la radiattività avrebbe potuto avere sulle persone che amava.»
Finalmente gli occhi di Caterina si riempirono di lacrime. La sua voce, leggermente artefatta, ma forte e chiara, attirò l’attenzione di tutti su di lei.
« È vero, Giorgio » disse Caterina «lo sapevo anch’io. Mio marito aveva molta paura per me.»
Rivedeva Piero che l’aspettava con timidezza all’uscita di scuola, un ragazzino triste.

(da Storie di mogli, La negazione).

 

La bambina, la radura, gli stracci

– Lontano, dove il mondo si curva, c’è una porta. Aperta – . Così raccontava il nonno ad Alice.
– Tu ci sei stato a vederla? – chiese Alice.
– Sì – disse il nonno.
– E che c’è laggiù?
– I fiordi, l’acqua verde smeraldo, il mare quieto e profondo.
– E poi?
– Poi c’è un bosco.
– E com’è?
– Fitto, ombroso, con una radura al mezzo dove nella nebbia leggera appaiono cespugli di mirto e pruni selvatici. Lì le nuvole portano i pensieri degli uomini e il vento li spinge fra i rami. Alcuni trasparenti vi restano impigliati, altri cadono a terra, scuri come foglie marce, altri tremano e poi il vento li riprende.
– E dove li porta?
– Non so – disse il nonno – qualche volta nel mare li ho visti tuffarsi come uccelli.
Così la bambina si mise a guardare: le pareva di vederne uno stormo arrivare e velare la luna, qualche volta, la notte. Altre volte la nube leggera, quella che vagabonda segna appena il cielo, che si smembra in lembi sottili, formava parole sconosciute, vibrava di echi.
Altre volte, laggiù, sulla linea dell’orizzonte una forma fugace.
È un problema inseguire i pensieri.
– Non sei attenta – diceva assai spesso la maestra. Perché non vedeva che al bordo della lavagna, proprio sopra la testa del compagno piccino col grembiule sghimbescio, un pensiero bambino segnava col gesso una linea, un po’ storta, da sinistra a destra, oppure che un altro restava annidato, al freddo, sul davanzale. Attaccato alle foglie dell’erba di muro.
– Ma non guardi? – chiedeva la nonna tirando la mano di Alice per non farla cadere. E intanto un pensiero maligno con gli occhi di bragia spariva e appariva all’incrocio da dietro un palazzo.
Un disastro vedere i pensieri. Un vizio che porta disgrazia.
Ma Alice insisteva, si allenava, si tuffava negli occhi degli altri, si arrampicava per guardare lontano sui posti più alti, inciampava sui marciapiedi sconnessi perché ne scopriva una fila indaffarata che percorreva sentieri obbligati ai bordi delle pietre laviche bagnate di pioggia.
Una sera che era sola in casa e il cielo era già quasi scuro sentì sul balcone un tonfo. Sembrava un grosso uccello con le ali tremanti, forse un gufo, oppure un tappeto intriso di pioggia.
– È un pensiero? – si chiese Alice. E aprì la finestra, malgrado avesse paura.
Fu un momento. L’uccello, o il pensiero che fosse, la avvolse e su, via verso l’alto.
– Non voglio cadere – disse Alice, perché era una bambina educata e le pareva eccessivo dire ad uno sconosciuto che non voleva morire.
Andavano a nord, di questo Alice era certa. Laggiù le grandi città, le luci lontane, i picchi innevati.
I viaggi, si sa, hanno tempi speciali: un giorno, due giorni? Era tutto veloce, astruso. Eppure Alice sapeva, e non aveva paura.
All’alba di non so quale giorno apparve la porta. Era scura, non grande, aperta. Da lontano sembrava sospesa nel vuoto. Ma forse era nebbia perché in un momento Alice sentì sotto i piedi la terra e seppe che il nonno non le aveva mentito. Oltre l’anta scura si apriva l’acqua fonda, di un verde mai visto e nell’acqua c’era l’ombra di montagne coperte di nuvole chiare che l’acqua cullava. Più avanti il bosco era proprio come il nonno lo aveva descritto: fitto, ombroso, con forme di luce fra i rami, e forte sussurro di vento. Laggiù la radura si apriva e il profumo dell’erba era forte. Non si può immaginare come volano i piedi sull’erba, come bagna i capelli la rugiada, come vibra di gioia la mano nell’aprirsi la strada. E Alice vide: era un giorno speciale: i pruni in fiore, il mirto lavato dall’acqua brillava. Ai rami stavano appesi, come persi aquiloni, come lembi di stoffa, i pensieri. Leggermente scuotendo, allungandosi sulle punte, tirando piano Alice raccoglieva straccetti bagnati, fili lucenti, nastri sfilacciati e appena li metteva per terra vicini essi fremevano e si cercavano e si adattavano l’uno a l’altro. Un tessuto appena palpabile i cui vuoti erano solcati da bave di lumaca, da trasparenti scaglie di mica. Il vento passava radente alla terra e il tessuto ingrandiva, gonfiandosi in isole lucide, in valli scure, senza peso. Finché tutto intero come un velo, grande, si sollevò in alto e apparve nella sua straordinaria bellezza agli occhi di Alice. Il blu delle ombre, l’azzurro degli occhi, il nero dei rami d’inverno, l’oro delle acque dei ruscelli nei boschi, l’arancio brillante delle scorze d’arancio, il marrone vellutato della cannella, tutti i colori trasparenti e decisi, come non ci è dato mai di vedere.
– Non posso mai più ritornare – pensò Alice, che era una bimba assennata.
Si sedette sull’erba, si aggiustò la vestina e conobbe il dolore.

   
Pungitopo pungitopo@pungitopo.com