Caffè Letterario
Pungitopo

Johann Wolfgang von Goethe

 


 

 

Per "quanto tu possa celarti sotto mille forme
pure, amata sopra ogni altra, subito ti riconosco;
puoi coprirti con veli magici:
onnipresente, subito ti riconosco.

Sorge il Sole! Stupenda apparizione!
La luna falcata lo cinge.
Chi mai poté unire simile coppia?
Come spiegare questo enigma? Come?

Non fare che la tua dolce bocca di rubino
maledica i complimenti galanti:
Quale altro motivo avrebbe la pena d'amore
se non quello di cercare la propria guarigione?

Possano le acque zàmpillando,
possano i cipressi ondeggiando, svelarti:
da Suleika a Suleika
è tutto il mio andare e venire.

Lo specchio mi dice: io sono bella!
Voi dite: invecchiare sarà anche la mia sorte.
Dinanzi a Dio ogni cosa deve restare eterna,
amatelo in me per questo istante.

Non appena ti ho di nuovo,
e ti conforto di baci e di canti,
ti fai muto, ritraendoti in te stesso:
che cosa ti angustia, ti opprime, ti turba?

È mai possibile, amor mio, che mentre ti accarezzo
io percepisca il suono della voce divina?
Impossibile appare sempre la rosa,
inimmaginabile l'usignolo.

dal Il divano occidentale-orientale

 

Cara Lilli, sei stata a lungo

Cara Lilli, sei stata a lungo
tutta la gioia, tutto il mio canto;
adesso, ahimè, sei tutto il mio dolore, eppure
sei tutto il mio canto ancora.

 

Sapete come vi darei epigrammi a non finire?

Sapete
come vi darei epigrammi a non finire?
Basta portarmi via, lontano dal mio amore

 

La filatrice

Mentre filavo quieta e in silenzio,
senza fermarmi neanche una volta,
venne un uomo giovane e bello
vicino alla mia rocca.

Lodava cose degne di lode,
in questo c'era forse del male?
Simili al lino le mie chiome,
e il filo così uguale.

Lui non rimase tranquillo,
non mi volle lasciare com'ero;
e in due si ruppe il filo
che avevo serbato da tempo.

E tanto filo ci fu
ancora, in grandi masse;
ma non avevo più
motivo per vantarmene.

Quando lo portai dal tessitore,
sentii qualcosa agitarsi,
e batteva il mio povero cuore
con battiti più rapidi.

Sotto un sole che è un tormento,
ora porto a imbiancare il lino,
e a fatica mi piego
sullo stagno più vicino.

Il filo che nella stanzetta
ho filato in silenzio, così sottile...
La sua sorte sarà mai diversa?
Verrà alla luce del sole alla fine.


Davanti al tribunale

Da chi l'ho avuto non ve lo dico,
il figlio che è nel mio grembo.
" Che schifo", sputerete, "bella sgualdrina!"
Ma una donna perbene io resto.

A chi mi sono data, non ve lo dico.
Il mio tesoro è buono e caro,
sia che porti una collana d'oro,
o un cappello di paglia sul capo.

Se si deve subire dileggio e scherno,
sopporto lo scherno io sola.
Io lo conosco bene, lui mi conosce bene
e anche Dio sa della cosa.

Signor parroco e signor balivo,
vi prego, lasciatemi in pace!
È mio figlio, resta mio figlio,
nulla vi potrà costare.

 

Il pescatore

L'acqua scrosciava, l'acqua si gonfiava,
e lì accanto c'era un pescatore,
guardava l'amo in tutta calma,
freddo sino al fondo del cuore.

E mentre siede e mentre ascolta,
si leva l'onda e si apre;
dall'acqua che si agita scroscia
una donna tutta stillante.

A lui un canto rivolse e le parole:
"Perché attiri con l'arte
dell'umana malizia la mia prole,
su, nella vampa della morte?

Se sapessi come il piccolo pesce
sta sul fondo, beato,
scenderesti quaggiù, così come sei,
non saresti più malato.

Il caro sole, e la luna, non trova
nel mare il suo ristoro?
Sull'alito del flutto non torna
a noi più bello il suo volto?

Il cielo profondo non ti attrae,
l'umida azzurrità trasfigurata?
Il tuo volto stesso non ti attrae
qui nell'eterna rugiada?".

L'acqua scrosciava, l'acqua si gonfiava,
bagnandogli il piede nudo;
e la nostalgia del suo cuore era tanta,
come quando la bella gli dava il saluto.

A lui rivolse le parole e il canto;
allora fu un uomo finito:
in parte lo trasse, in parte era pronto
a cadere, e non fu mai più visto.

 

Il re di Thule

Un re in Thule c'era
fedele fino alla tomba,
morendo la sua bella
gli diede un'aurea coppa.

Nulla gli era più caro,
nei banchetti ci beveva ogni volta,
spuntava nei suoi occhi il pianto,
se beveva da questa coppa.

Enumerò, la morte era prossima,
le città e i domini che aveva,
lasciò agli eredi ogni cosa,
ma la coppa insieme non c'era.

Sedeva, in mezzo a tanti
cavalieri, al banchetto regale,
nell'eccelsa sala degli avi,
là, nel castello sul mare.

Qui il vecchio bevitore bevve
della vita l'ultimo ardore,
e gettò la coppa sacra
giù in mezzo alle onde.

La vide cadere, riempirsi,
sparire nel mare più profondo.
Gli occhi gli si spensero
e lui non vi bevve più un sorso.

 

La danza macabra

Il campanaro, lui a mezzanotte
sulla fila di tombe china lo sguardo:
la luna ha diffuso dovunque il chiarore,
è come se fosse giorno nel camposanto.
Si muove una tomba, un'altra, e dopo
vengono fuori, una donna, ecco, un uomo,
in candidi sudari con lo strascico.

Si stira i malleoli – vogliono divertirsi
subito – per il girotondo quella brigata
di poveri e di giovani, di vecchi e di ricchi;
ma gli strascichi sono di inciampo alla danza.
E poiché qui il pudore non ha più da dare
ordini, tutti si scuotono: sparse
giacciono sui tumuli le camiciole.

Ora il femore salta, la gamba si scrolla,
si danno contorte movenze, e frammezzo
ogni tanto si scricchia e si crocchia,
come se le bacchette battessero il tempo.
Per il campanaro la scena è così comica!
E il tentatore, il burlone, gli mormora:
"Vai a prenderti uno dei lenzuoli funebri!".

Detto fatto! E lui in fretta si rifugia
dietro porte consacrate. Limpido
è sempre il chiarore della luna
sulla danza che fa raccapriccio.
Ma alfine si dilegua uno dopo l'altro,
se ne va ravvolto nel suo sudario,
ed ecco, è sotto la zolla erbosa.

In coda sgambetta e inciampa uno soltanto
e brancola vicino alle tombe e le aggraffa;
ma la grave offesa non è di un compagno,
lui fiuta il panno per aria.
Lo ricaccia la porta della torre, che scuote,
adorna e benedetta, per la buona sorte
del campanaro: riluce di croci metalliche.

Deve avere la camicia, ma non si ferma,
pensarci a lungo non è necessario;
ora quel coso il fregio gotico afferra
e s'arrampica di pinnacolo in pinnacolo.
Per il poveretto, per il campanaro, è finita!
Lui s'inerpica, di voluta in voluta,
simile a un ragno dalle lunghe zampe.

Il campanaro sbianca, il campanaro trema,
ora vorrebbe rendergli il lenzuolo.
Adesso – per lui è l'ora estrema –
un uncino di ferro aggranfia l'orlo.
Si dilegua la luce, s'intorbida la luna,
la campana tuona un possente tocco dell'una,
e lo scheletro in basso si sfracella.

   
Pungitopo pungitopo@pungitopo.com