Erri
De Luca |
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L’intruso
Camminava sull’acqua, riempiva le reti,
i pescatori lasciavano il mestiere per seguirlo.
A una festa di nozze mancò il vino e provvide,
litri a centinaia, un colpo da maestro di vendemmie,
acqua in vasi di pietra si girava in vino.
È migliore, dissero i commensali, sì, è migliore
il vino che non costa premitura, il pane fatto senza grano e forno,
il pesce che da solo salta in barca: scatenava il gratis
che appartiene alla grazia, passionale e guappa.
Veniva da un battesimo in acque di Giordano, morì poco lontano
sopra una trave a Te quando un ferro gli trafisse il fianco
spillò acqua con sangue, come breccia il parto,
morì come sorgente.
Ecco l’intruso del mondo, intriso dal grasso di tutte le colpe,
messo a sbiadire pallido di freddo in un aprile
o addirittura un marzo, oltre ottocento metri
sul livello del mare mai toccato.
Un gargarismo d’acque in fondo a un pozzo asciutto,
uno scatarro nella tubatura delle arterie:
così scroscia la tua resurrezione.
(Erri De Luca, Opera sull’acqua)
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Testimonianza
Un giornale di sinistra mi chiese un commento all'incendio,
lasciato consumare, del campo di concentramento Vulpitta di Trapani
dove morirono sei tunisini. Non lo pubblicò. Era al governo
la sinistra e i campi di concentramento erano stati inaugurati un
anno prima dal suo proverbiale senso dello stato. Dello stato di
arresto di stranieri, giorni e notti trenta, senza aver commesso
alcun reato: s'aspettavano da un mio commento forse le congratulazioni
per non aver fatto scappare dal campo nemmeno un prigioniero, durante
le tardive fasi di spegnimento. Li avevo delusi. Al tempo di quel
governo la soglia di sensibilità verso quei rinchiusi e verso
la guerra bombardiera sulle città jugoslave e verso un agguato
di polizia a un corteo di ragazzi metodicamente bastonati in una
piazza senza vie d'uscita e poi nelle caserme di Napoli, ecco questo
genere di sensibilità era poco sviluppata. E ancora oggi
il rimprovero ufficiale rivolto a quel governo è che non
ha voluto fare una legge sul conflitto di interessi. Bah.
Oggi c'è un governo che batte le medesime piste, lo ha fatto
a Genova raddoppiando l'aggressione di Napoli, lo fa su licenza
di guerra planetaria e petrolifera che si è attribuito come
socio della ditta di petrolio Bush & Cheney, lo fa sugli stranieri
immigrati. Rilancia: trenta giorni in un campo di concentramento
per innocenti sono pochi, facciamo sessanta giorni. E apriamone
di nuovi. Così la nostra forza pubblica diventa una polizia
penitenziaria e il nostro sistema penale si aggiudica un fatturato
di detenuti in più, non passato per alcun tribunale, fatturati
in nero.
Dilaga volentieri l'illegalità di stato, l'arbitrio di misure
fuorilegge, la persecuzione di uomini e donne nel pieno delle forze
e della volontà, con storie d'inesorabile emergenza alle
spalle. Nei recinti in cui sono stipati non entra manco il papa,
né a loro si estende l'accorata supplica di clemenza. Restano
fuori dalla grazia di Dio e degli uomini.
E ora finalmente posso fare le congratulazioni ai governi di ieri
e di oggi. Ci siete riusciti. Non a regolare i flussi migratori,
anche se non vi è mancata la buona volontà di nuocere.
Siete riusciti a incanaglire il nostro paese, con la fabbrica di
campi d'infamia reclusoria. Avete sfigurato il carattere del nostro
paese. Siamo terra inzuppata in mezzo ai mari, spina dorsale del
Mediterraneo, giuntura tra nord e sud, perciò siamo stati
attraversati da popoli, eserciti, civiltà. Siamo stati ospitali
per amo re e per forza. Ora contro l'umanità del mondo che
si sposta a milioni risalendo i paralleli, riversandosi da oriente,
volete mettere alla sagoma Italia un preservativo di sbarre e fili
spinati. Volete mettere un cancello alla storia e alla geografia.
Se guardate un poco oltre il vostro delirio di contenimento, vedrete
che nel giro di un paio di generazioni saremo meticci. State fermando
l'acqua con i cesti. Anche se dividerete la popolazione in detenuti
e secondini, e questo sarà il nuovo milioni di posti di lavoro,
passeranno lo stesso. Passerà su di noi e sulle nostre meschine
barriere l'onda di piena del nuovo mondo e ci rigirerà come
un cucchiaio. Il nostro bianco leggero come la meringa sbiadirà
e finirà nell'archivio della specie. Saremo globali nel modo
migliore, per incroci e innesti. E il risultato del vostro affannare
intorno a serrature e catenacci sarà che tutti noi faremo
schifo agli occhi e alla memoria dei nipotini posteri, colorati
come l'arcobaleno.
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Il
bisogno cambierà tutto
Salgo in montagna con il mio passo muto e mi capita
di oltrepassare delle comitive. Pure in affanno continuano a parlare
fitto. È così semplice mettere il fiato sull’andatura,
ma dannatamente difficile contrastare il ritmo del respiro innestandoci
sopra le parole. Verrebbe meglio il canto, che rispetta le pause.
Parlano. La nuda aria che a stantuffo gonfia i polmoni dall’interno
deve sembrare loro vuota, anche paurosa. La devono riempire. Così
come deve sembrare oggi spaventoso andare a un ritmo di produzione
stazionario o peggio decrescente.
Il prodotto, la merce scaricata in piazza, deve sovrabbondare rispetto
all’anno precedente. Si è stabilito che questa è
la legge. Io la credo una superstizione, una paura del vuoto. Le
economie devono riempire, gonfiare, accrescere per sentirsi vive.
Verrà un tempo, immagino, in cui il benessere si calcolerà
al contrario, a partire da quanto si potrà godere il proprio
spazio con il minimo spreco, il minore consumo. Con quanta meno
acqua e meno fuoco si può cuocere la pasta, con quale mite
luce la sera masticarla lentamente senza la grancassa accesa.
Queste misure non saranno raggiunte da nessuna assemblea del mondo,
da nessuna Johannesburg, che è un luogo dove ci si riunisce
per constatare il grado di febbre e per consigliare alla tosse convulsa
del pianeta un fazzoletto per non fare troppo rumore. Misure di
saggezza e precisione verranno estorte dall’irrompere del
bisogno. La Cina è vicina, si diceva un tempo per avvisare
di un pericolo nei confronti della minuscola Europa. Oggi è
più vicina l’Argentina.
L’Argentina dove persone che avevano un conto in banca si
sono accorte di non avere niente, dove la cifra di un risparmio
era appunto una cifra senza controvalore, senza potere di scambio
e di acquisto. Non si può frenare un bel niente. Il governo
del mondo, gli Stati Uniti e il loro biglietto grigioverde, lo sanno
e mandano i sottovice alle assemblee mondiali del contenimento.
Loro hanno in produzione guerre, anche solitarie, anche senza mandato.
Hanno introdotto la dottrina dell’arma nucleare a corto raggio.
Nel gran Risiko della guerra ai terrori vince chi ne produce di
più.
Il resto del mondo, l’internazionale dei popoli deve prima
di tutto ammettere la propria impotenza, deve avvisare la sua umanità
di non essere in grado di controllare gli effetti collaterali della
espansione esplosiva. Fame, sete, asfissia sono indelebili. Ci si
deve addestrare. La risposta, la linea di difesa deve muovere dal
basso, dalla unità domestica. È tempo di pensare che
quello è il centro del mondo e che a casa di ognuno si sta
svolgendo il consiglio di amministrazione dell’umanità.
C’è un elenco di voci da discutere su ogni tavola,
dall’approvvigionamento quotidiano alla riduzione dei rifiuti.
L’unità di crisi della famiglia deciderà se
imporre il ritmo zero alla crescita, se dare valore e intensità
alla forza ragionata del segno meno o se continuare nella rotta
di collo dietro l’abbagliante stellina di latta del segno
più. Nel tempo dell’assedio resiste chi impara a consistere
in poco e non chi accaparra. Si va in salita risparmiando fiato
e al ritmo del compagno più lento.
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L’ingiusta
supremazia
Ho imparato la lingua americana,
non l’inglese, da mia nonna che era dell’Alabama e si
chiamava Hammond. Da lei mi viene il quarto di sangue americano
che ha deciso il formato del mio corpo e l’apparenza. È
rimasto in superficie quel quartino, mai l’ho sentito agitarsi
dentro di me.
Perciò mi disturbavano i marinai della sesta flotta Usa che
a migliaia sciamavano per Napoli, comprandosela anima e corpo per
pochi cents. Perciò sono stato tra quelli che in gioventù
si sono schierati contro l’America al tempo della guerra d’invasione
del Vietnam e che si sono battuti allora per la sconfitta degli
Stati Uniti. E l’abbiamo ottenuta, nel 1975.
Oggi per la prima volta sento muoversi una spinta di compassione
per l’America. Oggi sono triste per questa nazione che sta
andando al fine corsa del suo prestigio e della sua supremazia.
Tutti i primati del mondo scadono, i potenti passano la mano ad
altri potenti, la storia è zingara e non pianta a lungo la
sua carovana nello stesso posto. Ma è triste per me vedere
il popolo americano declinare così in fretta, appena arrivato
al culmine della sua potenza.
Alcuni parlano d’impero, ma non è così. L’impero
espande i suoi confini e li conserva dentro un quadro di diritto
comune condiviso.
Il popolo romano crebbe in forza militare e insieme al vigore delle
leggi: il suo "ius" è durato molto di più
delle sue legioni. L’impero ha bisogno di regole su scala
di mondo.
L’America oggi le abbandona per affidarsi alla sua sola forza.
Così fanno le orde, non gli imperi.
Devo molto all’America. I suoi poeti mi hanno aizzato uno
spirito di libertà e di avventura che la prudente letteratura
italiana non si sogna. Whitman, Kerouac, Dylan hanno scassinato
da fuori la gabbia in cui ogni ragazzo si sente rinchiuso. Dov’è
oggi la tua libertà, America? I tuoi poeti sono invecchiati
e cantano strofe di anni Sessanta. Il tuo presidente è votato
da meno di metà degli elettori, ha preso meno voti del suo
avversario, insomma è un quinto di presidente, dov’è
la tua democrazia, America? Cosa cerchi a Belgrado, a Kabul, a Baghdad,
scavando a colpi ciechi nel suolo di città con proiettili
di uranio impoverito? Non sarai rispettata di più, odiata
sì. "Che mi odino, purché mi temano": è
con questa vecchia stupidaggine di tiranni antichi che credi di
durare? Non è più verde la tua frontiera e nemmeno
il tuo dollaro che sbiadisce e perde peso di fronte alla monetina
recente di un’Europa fatta a spezzatino. E perderà
sempre più presa e rappresentanza di moneta guida, il tuo
biglietto. Già i petrodollari arabi si convertono ad altra
religione monetaria e traslocano in Svizzera. Presto anche ai profitti
delle tue multinazionali converrà fare altrettanto. Cos’è
questo tetano di guerra che ti deforma il viso? Sei forte, certo,
ma invulnerabile no, anzi come tutti noi, fragile in ogni metro
quadro delle nostre città. Nemmeno il piccolo Israele è
riuscito a conservarsi illeso, ed è allenato a guerre da
che è Stato.
A un dibattito in televisione una domanda impertinente spiazzava
l’interpellato di turno: chi speri che vinca la guerra in
corso? Visto che la speranza è gratis dichiaro la mia: che
non vinca nessuno. Spero che perda il tiranno iracheno e che perda
pure l’invasore angloamericano e un poco australiano.
Spero in un colpo della provvidenza che mortifichi in una sola volta
due tracotanze militari oggi simili. Barcolli sotto il peso delle
tue stesse armi, America, esci dal deserto in cui ti sei cacciata.
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