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Per un paio di scarpe
Mia mamma ed io abitavamo nella casa di mio nonno materno, Scultore
Giovanni Scarfì, posta in collina, in prossimità del
Villaggio Scoppo, mentre mio padre preferiva stare in città,
presso una zia che aveva un albergo.
Frequentavo la quarta classe elementare ed avevo le scarpe rotte.
Le suole erano aperte dalle tomaie e per me era un sacrificio andare
a scuola in quelle condizioni; facevo fatica a camminare e tenevo
le suole legate con un fil di ferro per non farle aprire. Mia nonna
mi disse: “vai da tuo padre a fartele comprare”. Mio
padre mi disse: “nella colonnetta della stanza da letto vi
sono delle scarpe che io non metto più, vedi se te ne va
qualche paio”. Mio papà aveva il piede molto piccolo
e, quando me le provai, mi calzava solo la punta del piede. Mi rimaneva
di fuori tutto il tallone. Comunque, pensando che ogni lasciata
è perduta, ed avendo capito che le scarpe non me le avrebbe
comprate, presi quel paio che mi sembrava più idoneo e le
portai via.
Quando le portai a casa, mia nonna mi disse: “a me vanno bene,
me le metto per casa”. Io lo sapevo, apposta le avevo prese,
perché anche mia nonna aveva il piede piccolo. Intanto io
proseguivo ad andare a scuola in quelle condizioni.
La nonna un giorno mi disse: “andiamo dal calzolaio”.
Il calzolaio che era un giovane di vent’anni, mi prese le
misure del piede con una striscia di carta; poi disse: “fra
una settimana saranno pronte”. Quando me le portò,
provai una grande delusione perché il tallone in parte mi
rimaneva di fuori. Le scarpe erano belle però non le potevo
calzare.
La nonna gli disse: “voi avete sbagliato la misura e voi ve
le prendete”; ma la verità sarà stata forse
perché il piede a me cresceva un giorno per due.
Un giorno la nonna tornò dalla zia Margherita con un paio
di scarpe nuove che erano di mia cugina Grazia e che lei non metteva
più. Me le provai. Mi stavano a pennello!
L’indomani andai a scuola felice, avevo finalmente un paio
di scarpe sane.
La mia delusione fu all’uscita della classe, quando i miei
compagni cominciarono a farmi la “baia” e a gridarmi
dietro: “scarpi di fimmina” “scarpi di fimmina”!!!
Arrivai a casa piangendo, umiliato ed avvilito buttando le “scarpe
di fimmina” e mi rimisi le scarpe d’uomo rotte. L’indomani
tornai a scuola con quelle e nessuno mio disse niente. A questo
punto la nonna diede di nuovo l’incarico al calzolaio, il
quale appena fatte me le portò . Le misi subito, mi stavano
abbastanza comode.
Il mio piede nuotava dentro, ma io non dissi che mi stavano larghe;
io pensai: “meglio larghe che strette”.
In seguito il piede mi crebbe ed io non ho avuto più fastidi.
Eleonora
Un giorno, mentre ero nella mia stanza a disegnare, vennero a trovarmi
un sottocapo e tre marinai, per dirmi che erano stufi di mangiare
tutti i giorni pasta asciutta. Io gli domandai: “Cosa desiderate
mangiare? Tutti i giorni mangiate per cena: pasta e fagioli, pasta
e ceci ecc...”. Poi mi ricordai che molti marinai erano dell’alta
Italia, perciò dissi loro: “Facciamo polentà,
per cambiare!” Furono entusiasti di questa proposta, perciò
diedi ordine al sottocapo di Gamella di comprare farina di polenta.
Dopo aver pranzato, ne avanzò una grande quantità
che fu messa in un recipiente. Chi ne ebbe il beneficio, fu Eleonora,
una maialetta che il sottocapo Atzeri, sardo, aveva procurato per
la batteria. L’avevamo chiamata Eleonora, in onore della moglie
del Presidente degli Stati Uniti Roosvelt.
Tamo, vamo
Tutte le volte che la stazione ferroviaria di Belgrado veniva bombardata
subendo danni, i tedeschi ci facevano andare con i camion a spalare,
per coprire le buche fatte dalle bombe. Era un supplizio, perché
mentre svolgevamo il nostro compito venivano altri aerei a bombardare,
e noi ci trovavamo senza alcun riparo per rifugiarci.
Un giorno un soldato di Milazzo, sapendo che io ero messinese, per
favorirmi, mi disse: “Quando i tedeschi chiamano Specialist,
Specialist, tu spostati in quel gruppo che si forma e loro ti porteranno
in un posto dove, vedrai, ti troverai bene. Io prima facevo quel
lavoro, ora lo farai tu al posto mio, perché io devo essere
trasferito”.
L’indomani mattina, quando i tedeschi ci riunirono per destinarci
a fare diversi lavori, (pulizia dei gabinetti, pulizia dei campi,
coprire le buche ecc.) essi chiamarono: “Specialist, Specialist”.
Allora io mi misi nel gruppo che si era formato; un tedesco mi domandò:
“Tu specialist?” ed io risposi “Ià”.
Così ci fecero salire su un camion e ci portarono dopo il
fiume Sava, in una località chiamata Simling. Lì c’era
una piccola fabbrica dove si costruivano casse per imballare le
bottiglie di liquore. Il nostro compito era quello di montare le
casse, inchiodando i lati ed i fondi che erano già pronti
e quando le casse erano piene, veniva posto il coperchio.
A dirigere tale lavoro c’era un uomo sui 40 anni; era un serbo
e nei nostri confronti si dimostrava amabile ed affabile. Quando
arrivava l’ora di sospendere il lavoro, egli diceva “Dosta”,
che in italiano voleva dire “basta” e ci portava in
uno stanzone. Lì, seduti davanti ad un tavolo, ci portavano
un piatto di spaghetti stracotti, conditi a modo loro, poi ci davano
un bicchiere di vino ed una fetta di pane bianchissimo.
A ripresa dei lavori, una volta completate le casse, le portavamo
alla fabbrica dei liquori, dove vi lavoravano molte ragazze. Esse
ci accoglievano dicendo : “Tamo, Vamo”; noi eravamo
sbalorditi. Possibile che conoscevano l’italiano e ci accoglievano
con quelle parole? Infine capimmo l’equivoco, perché
la parola tamo voleva dire là, mentre la parola vamo voleva
dire qua, ed era il posto dove le ragazze volevano che si mettessero
le casse.
Un amico pittore
Durante la prigionia, i tedeschi ci portarono in un posto dove
le bombe avevano scavato delle grosse buche e, armati di pala, cercavamo
di spianarle.
Uno dei tedeschi che ci sorvegliava, rivolgendosi a me, disse più
volte in francese: “Je ame l’arte, je ame l’arte...
je sui pointre, je etude a Paris”.
Io gli risposi: “Je sui sculpture”.
Così diventammo amici; aveva circa vent’anni e, con
la frase “io amo l’arte” voleva farmi capire che
odiava la guerra. Erano rari quelli che la odiavano! La maggior
parte dei tedeschi che ho conosciuto erano degli aguzzini.
Poi mi raccontò che in Yugoslavia vi era un bravo e celebre
scultore di cui ora non ricordo il nome.
Io avrei abbracciato questo giovane tedesco perché aveva
le mie stesse idee, ma i miei compagni non avrebbero capito.
Perciò, a fine lavoro, ci siamo salutati stringendoci la
mano.
Un tedesco messinese
Mentre venivo trasferito da un campo di concentramento ad un altro,
nei pressi di una stazione, sentii un tedesco che bestemmiava in
dialetto messinese. Vinto dalla curiosità mi avvicinai e
vidi un giovane alto forse più di due metri e robusto. Gli
domandai “Di dove sei?” Lui mi rispose in dialetto messinese
“Ià sugnu Missinisi, a Missina facìa u scaricaturi
du portu”. “Pure io sono di Messina” gli dissi.
Poi mi raccontò come era diventato tedesco: “Mi trovavo
su un ponte del fiume Sava e durante un bombardamento aereo mi buttai
nel fiume. I tedeschi dopo avermi tratto sulla riva, vedendomi così
prestante, mi invitarono a vestire la loro divisa. lo ho accettato
per evitare la prigionia. lo che soffro tanto la fame, accettai.
Ma ora sono pentito.”
Prima di partire ci salutammo fraternamente.
La Gallina (Kokoskia )
Dopo il periodo di prigionia passato in un campo di concentramento,
insieme con altri quattro commilitoni, tre soldati ed un sergente,
ci sbandammo per cercare di raggiungere l’Italia. Appena giunti
in territorio Jugoslavo, fummo ospitati da una famiglia, in una
stanza della loro casa: La stanza era disadorna: per terra c’erano
quattro casse di legno vuote, tre piccole ed una grande e in un
angolo, vicino alla porta, c’era una stufa di ferro che funzionava
anche da cucina. Io stavo seduto per terra, accanto alla porta,
dopo aver passato la notte sul pavimento di legno. Ad un tratto,
vedemmo entrare una gallinella, tutta nera, che, sospettosamente,
si guardava in giro. Fu un attimo! Allungai il braccio e spinsi
l’uscio con la mano, chiudendo così la porta; il soldato
che era accanto a me si tolse la bustina dalla testa e vibrò
un colpo sul capo della gallina. Un altro soldato la prese e le
tirò il collo, mentre il terzo dopo essersela nascosta sotto
la giacca usci. Al suo ritorno, la gallinella era spennata e pulita.
Il sergente la mise in una teglia sul fuoco e noi stavamo lì,
in attesa che si cuocesse.
Nel frattempo, entrò la padrona, tutta vestita di nero come
la gallina, chiamando: «Kokoskia, Kokoskia,». Ci guardò,
ma vedendoci in quelle condizioni, avviliti e sconsolati, ebbe un
gesto di compassione ed uscì tristemente.
Appena soli, il sergente tolse la teglia dal fuoco, la mise sulla
cassa grande, che fungeva anche da tavolo, e così, le facemmo
la festa.
Erano tre giorni che non toccavamo cibo!
La vecchia
Un giorno, durante la fuga, passando davanti ad un villaggio lungo
una strabella stretta e pietrosa, molte donne stavano davanti alle
loro case.
I miei compagni erano avanti, io venivo dietro loro, stanco e affaticato.
Una donna molto vecchia, si avvicinò a me e cominciò
ad accarezzarmi il volto.
Io la guardavo esterrefatto, senza capire il motivo per cui lo facesse.
Era vecchissima, il suo viso era pieno di rughe e, mentre mi accarezzava,
piangeva.
Io le dissi “Perché fa così? Perché piange?”.
Io le parlavo per confortarla e lei, senza capirmi, piangeva più
a dirotto.
Forse sapeva la fine che avrebbero fatto tutti gli italiani.
Poi, turbato, mi allontanai e raggiunsi i miei compagni.
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